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Cinema e teatro
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di Renato Bandoli Dare conto
di un'esperienza umana e artistica è sempre impresa che può
risultare presuntuosa, specialmente se confinata nello spazio necessariamente
ristretto di una sorta di autopresentazione. Almanacco pluriennale Il lavoro
teatrale promosso dall'Ass.ne PLEIADI, grazie anche al decisivo impulso
iniziale impresso alla proposta dalla psicologa Anna Maria Bertòla,
prende avvio nel settembre del 1999 con un seminario sperimentale condotto
insieme a Lupinelli con un primo gruppo di 11 persone disabili e 3 operatori
volontari. Quel primo approccio alla creazione espressiva riscosse non
solo il totale e convinto coinvolgimento dei ragazzi, ma anche quello
dei loro genitori e degli operatori dell'Amministrazione comunale di Lerici.
Attrezzatura cantieristica Mentre l'handicap
è esposizione permanente e quotidiana di un disvalore, di una mancanza
agli occhi del mondo e della società, la scena teatrale, l'azione
del gioco e della finzione si configurano invece come esposizione extra-ordinaria
e extra-quotidiana della differenza e dell'energia creativa che ogni essere
umano custodisce, raggiunta attraverso un percorso che presuppone il riconoscimento
dei valori reciproci, delle qualità peculiari di ognuno, del rigore,
della precisione, della disciplina anche crudele. L'handicap individualizza
il rapporto con il "fuori", il teatro invece socializza, mette
in comunicazione l'esperienza emotiva interiore trasformandola in azione
visibile ed efficace, capace cioè di creare un mondo. Un posto
al buio. di Marco Settimini Tra il 2
e il 9 di luglio 2005, Bologna ha ospitato, per il diciannovesimo anno,
il Cinema Ritrovato: otto giorni di immersione nella storia del cinema,
che coinvolge in maniera non laterale tutta una città. Precisamente,
tre sale (il Lumière 1 e il Lumière 2 e l'Arlecchino), la
piazza principale (piazza Maggiore), il teatro Comunale, nonché
una cineteca tra le più importanti d'Europa e l'ormai storica facoltà
universitaria del D.A.M.S. L'affluenza è variegata (a occhio a
maggioranza estera), e variegata è anche l'offerta cinematografica,
dal minuscolo "Chien et chat" della Pathé Frères,
cinque minuti di inseguimento tra un cane ed un gatto, alla monumentale
ricostruzione storica di Michael Cimino: "Heaven's gate" (1980),
proiettato, in una versione restaurata purtroppo non in maniera perfetta,
in presenza dello stesso autore. Sempre del 1980, e opera tra le più
importanti proiettate nel corso del festival, il director's cut (dalle
circa due ore della versione ufficiale a 2 ore e 40) di "The big
red one" di Samuel Fuller, autore americano tra i più amati
dai registi-critici affermatisi nei Sessanta (Godard e Wenders, per esempio),
la cui opera resta modello insuperato tanto per Spielberg quanto per Malick
("La sottile linea rossa"). Proiezione fondamentale, quella
di "The big red one", nel quadro del settore centrale del festival,
dedicato alla guerra, tra fiction e documentario, quasi a rimarcare la
relazione instabile e aperta tra la creazione narrativa e la documentazione,
tra la storia e la costruzione per immagini. L'ultimo giorno accade anche
di potere vedere i frammenti non montati, in quanto esclusi da un documentario
più organico, delle riprese sul set, per così dire, della
II Guerra Mondiale, tutte realizzate dallo Stevens autore di "Un
posto al sole": momenti di relax di soldati, ormai a guerra finita,
ponti distrutti, città europee che provano a rinascere, nonché
qualche fugace visione dei campi di sterminio. Osserva Godard nel suo
"Moments choisis des Histoire(s) du cinéma" (2000), proiettato
per la quarta volta di sempre, in due occasioni, in questi giorni bolognesi,
che il cinema, il cinema americano e non solamente è dovuto transitare
proprio attraverso l'orrore dello sterminio, in qualche maniera, per giungere
ad un posto alla luce del sole. Tuttavia, il cinema non ha saputo evitare,
con le sue immagini, afferma Godard luttuosamente, la tragedia del "suo"
Novecento, l'orrore, e non ha saputo neppure raccontarlo davvero, tuttavia
paradossalmente vivendo di violenza. E' malinconico, saggio e critico,
Godard, nei dieci frammenti che compongono questa selezione di momenti
del la sua ben più abbondante storia/storie del cinema. L'impressione,
è stata di vivere un evento, di essere trafitti da un corpo quasi
estraneo alla rassegna e a tutto ciò che si può vedere abitualmente
nelle sale, e non solamente per la sua composizione in video (che a nostro
avviso fa impallidire qualunque cosa si veda in questo formato). L'impressione,
è stata di vedere una sorta di possibile futuro delle immagini,
in questo lavoro paradossalmente sul passato delle immagini, anche pittoriche.
Passato che torna con tutta la sua forza nel corso del Cinema Ritrovato:
tra Feuillade e Pastrone, c'è spazio per tanto cinema comico delle
origini: Tontolini (ossia Ferdinand Guillaume), un omaggio ad André
Deed, comico del burlesque francese, attivo anche in Italia, che impersonò,
per esempio, Boireau e Cretinetti, nonché autore del celebre "L'uomo
meccanico" (1921), presente anch'esso a Bologna. Ancora, era presente
tutta una serie frammentaria di immagini di cent'anni fa (produzioni Pathé
Frères, in particolare), di attualità della Gaumont (tutte
del 1914), e una serie di brevi cortometraggi che documentano i tentativi
del P.C.I. e della D.C. di fare propaganda politica, talvolta impiegando
icone, enormi oppure piccole del cinema italiano (Aldo Fabrizi e Franco
& Ciccio, rispettivamente). Tra questi documenti e invenzioni, si
inseriscono alcuni lampi del cinema classico, oppure appena pre-classico:
"The unholy three" di Todd Browning (1925), il melodramma "When
tomorrow comes" di John Stahl (1939), di Lewis Milestone "All
quiet on the Western front", "Two Arabian Kinghts" e "The
Garden of Eden", nonché il davvero fondamentale The racket,
limpido esempio di gangster movie pre-hawksiano (tutti realizzati tra
il 1927 e il 1930), e infine il perfetto, straordinario meccanismo di
"American madness" di Frank Capra, sulla crisi del '29 e sul
rapporto tra pubblico e privato, secondo la migliore formula della classicità
U.S.A. Ancora, c'è spazio, nel festival per tutta una serie di
dossier su alcuni autori fondamentali (Fellini, Buñuel, Pasolini,
ecc.), tra i quali spiccano per esempio alcuni vecchi cortometraggi di
Buñuel, e "Rossellini / Pascal, un ricordo" di Claudio
Bondì (1972). Importanti numerosi film restaurati che hanno ritrovato
spazio nelle sale bolognesi; l'elenco può rendere lo spessore artistico
del programma, e in alcuni episodi (ci si riferisce in particolare alle
"sperimentazioni", per così dire, sul pubblico più
ampio di piazza Maggiore) la capacità di osare alcune proposte
non scontate. Si va infatti dallo "Spione" di Fritz Lang, l'invisibile
"Dura Lex" di Kulesov, l'orientale (e fondamentale) "The
river "di Renoir, i western del cinema tardo classico statunitense
"3:10 to Yuma" di Dalmer Daves (1957) e "Sierra Charriba"
di Sam Peckinpah (1965), l'eccezionale "Calle Mayor" di Juan
Antonio Bardem, autore spagnolo anti-fascista e anti-cattolico che si
guadagnò il carcere in corso d'opera per questa opera, tanto preziosa
e tanto terribile, del cinema iberico anni '50 (è del 1956), in
bilico tra Hitchcock, il migliore Chabrol, "Viridiana" di Buñuel
e "Cronaca d'un Amore" di Antonioni: una opera che davvero nessuno,
in Italia, osò girare. "Calle Mayor" è stata proposta
nel quadro del secondo omaggio del festival: dopo quello a Deed, quello
a Betsy Blair, attrice che ritroviamo sempre sullo schermo della sala
Arlecchino in "The halliday brand" di J. H. Lewis e "I
delfini" di Francesco Maselli. Fuori dalle sale, invece, in piazza
Maggiore, s'è potuto vedere "My uncle" di Jacques Tati
(la versione inglese curata dallo stesso autore di "Mon oncle"),
il dickensiano D. W. Griffith "Giglio infranto", con Lillian
Gish, "Le mariane de M.lle Beulmans" di Julien Duvivier (1927),
incantevole affresco del Belgio post-bellico, splendidamente accompagnato
da un ensemble composto di archi, piano e fisarmonica, e a seguire, la
medesima notte, l'opera estrema di Dulac: "La coquille et le clergymen"
dal soggetto di Artaud, al di là del surrealismo, in una sorta
di varco nel cervello umano, un sorta di precipizio oltre ciò che
è umano, oltre il sogno, oltre il Buñuel del "Un chien
andalou" e molto prima di David Lynch. Pregevole, in queste occasioni
serali, la cura delle musiche composte per l'occasione, quanto l'apporto
dei pianisti impegnati nelle tre sale a accompagnare le immagini del muto.
Interessanti, anche nella prospettiva delle musiche suonate, le proiezioni
al teatro Comunale, in apertura e chiusura di festival. Innanzitutto,
"La corazzata Potëmkin" di S. M. Ejzenstejn, in una copia
restaurata, con le musiche originali di Edmund Meisel, a celebrarne l'80°
anniversario, con stucchevole polemica connessa. "Non mi interessano
gli attacchi politici; dico solo che "La corazzata Potëmkin"
è un grandissimo film", ha chiosato l'assessore alla Cultura
del Comune di Bologna, Angelo Guglielmi, ad un servizio di "Libero"
che condannava aspramente l'opera e la sua proiezione in una città
detta "riconquistata" dalla sinistra. Nessuna polemica e straordinario
successo di pubblico, invece, per "A woman of Paris", di Chaplin,
film anch'esso restaurato e con le musiche di Chaplin medesimo, ricostruite
a opera di Timothy Brock, che chiude una rassegna che comprendeva anche
una decina di cortometraggi di e/o con Chaplin, tutti del 1914. Attendiamo
già ora con impazienza l'edizione del ventennale, chiamando tutti
coloro che amano il cinema a ritrovarsi nelle sale bolognesi. |
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Bologna,
Piazza Maggiore durante una delle proiezioni del festival
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Pater familias di Alessandro Baratti "Pater familias" (2003) di Francesco Patierno - interpreti: Luigi Iacuzio, Federica Bonavolontà, Francesco Pirozzi, Francesco Di Leva, Domenico Balsamo, Sergio Solli, Marina Suma, Ferdinando Triola - sceneggiatura: Francesco Patierno e Massimo Cacciapuoti (liberamente tratto dal romanzo eponimo di Massimo Cacciapuoti) - fotografia: Mauro Marchetti - scenografia: Gian Franco Danese - montaggio: Luca Gazzolo - costumi: Agostino Varchi - musiche: Angelo Talocci - durata: 88' Trama: Cruda, vibrante,
sorprendente opera prima di Francesco Patierno, giovane regista (classe
1964) proveniente dalla televisione, "Pater familias" è
un film di ostruzioni, di condizionamenti, di sbarre. Spaziali, culturali,
mentali. L'influenza ammorbante del contesto non lascia scampo: sopruso,
prevaricazione e aggressività dominano un mondo disertato dalla
grazia, abbandonato dalla pietà, nerissimo. Principali responsabili
dell'opprimente chiusura di questo universo sono i padri, totalmente incapaci
di aiutare i figli a elaborare progetti di vita alternativi, e essi stessi
vittime di una brutalità asfissiante. Eppure, nonostante l'assenza
di modelli familiari incoraggianti e di prospettive future, il tentativo
di aiutare Rosa (Federica Bonavolontà) offre a Matteo (Luigi Iacuzio)
l'opportunità di rompere il cerchio della ferocia e ottenere un
riscatto esistenziale, per sé e per i suoi compagni. Muovendo da
una complessa sceneggiatura scritta a quattro mani con Massimo Cacciapuoti,
autore del romanzo omonimo, Patierno opera una trasfigurazione del reale.
Segnala i frequenti passaggi temporali attraverso una decisa variazione
cromatica, realizzata con un procedimento chimico nella stampa della pellicola
chiamato "salto della sbianca". Trasmette alle immagini del
passato una strana irrequietezza, ottenuta sistemando dei sacchetti di
sabbia sotto la cinepresa. Inchioda la realtà osservata all'orizzonte
individuale dei personaggi, facendo largo uso di soggettive. E conferisce
allo sguardo una tonalità per così dire rubata, girando
scene cruente all'insaputa dei passanti e piazzando la macchina da presa,
nascosta spesso agli attori stessi, negli angoli di massima tensione visiva.
Lo stile è nervoso, franto, incline ai passaggi fulminanti e agli
abbandoni improvvisi, ma anche capace di dilatarsi in pause di pensosità
dolorosa, in ralenti strazianti, fino a cristallizzarsi in freeze frames
di lacerante e sospesa (auto)riflessività. Insomma, una scrittura
filmica secca e tormentata, attraversata da scatti brucianti e aspre sottrazioni,
pronta a cogliere, con asciuttezza folgorante, gli improvvisi drammatici
dell'intreccio. Secondo chi scrive, il più bel film italiano del
2003. Appena uscito in dvd.
Clean di Alessandro Baratti "Clean" (2003) di Olivier Assayas - interpreti: Maggie Cheung Nick Nolte, Jeanne Balibar, Ian Brown, Béatrice Dalle, Laetitia Spigarelli, Dom McKellar Martha Henry, Tricky - sceneggiatura: Olivier Assayas - fotografia: Eric Gautier - scenografia: François-Renaud Labarthe - montaggio: Luc Barnier - costumi: - Anais Romand - musiche: Brian Eno, David Roback, Tricky - durata: 110' Clean (pulito), è il contrario di junkie (tossico). Non è soltanto questione di droga, ma soprattutto di immagini. Come è possibile ripulire il corpo (filmico) dai veleni sintetici, dai fumi industriali, dalle reti imprigionanti di una dipendenza fisica e economica? Come è possibile riconsegnare il cinema alla sua purezza visiva, alla sua libertà narrativa, alla sua indipendenza? Questi i quesiti che interessano Olivier Assayas. Sotto e dentro la storia di Emily (una Maggie Cheung frastornante), vedova eroinomane che cerca di disintossicarsi per recuperare il piccolo Jay, spinge una seconda urgenza: quella di liberare il cinema dalle regole ammorbanti dell'industria dello spettacolo e restituirlo allo scavo limpido, cristallino dei sentimenti. Il cineasta francese ci riesce alla perfezione. Gira con una eleganza figurativa e una padronanza dei tempi drammatici che stordisce. Riduce le riprese in continuità e i piani sequenza, sue cifre stilistiche, frammentando l'azione e concentrandosi sui dettagli marginali, sui particolari leggermente decentrati che illuminano il senso della situazione con chiarezza folgorante. Spalleggiato dal direttore della fotografia Eric Gautier, dà vita ad un universo visivo straordinariamente mobile, pulsante, capace di aderire simbioticamente alla dimensione esistenziale dei personaggi, come di allontanarsi improvvisamente dai loro corpi, dipingendo squarci di disperante estraneità. Filma i dialoghi declinando lo schema del campo/controcampo con una sensibilità stupefacente, riuscendo a entrare immancabilmente nelle pieghe emotive del momento e a scavare con sofferta lucidità nelle cicatrici interiori dei caratteri. E riceve da Nick Nolte, nei panni di Albrecht, una tra le più intense, profonde e toccanti interpretazioni attoriali che abbiano mai impressionato una pellicola. Il cinema è di nuovo puro. Clean. N.B. - Vista la versione originale, in cui si parlano tre lingue (inglese, francese, cantonese), sublime è la voce di Nolte; fa rabbrividire lo scempio del doppiaggio appiattente. Trattasi di film non doppiabile, per nessuna ragione al mondo. Magnifica la performance dei Metric in Dead Disco: doppieranno anche quella?
di Alessandro Baratti "Last days" (2005) di Gus Van Sant - interpreti: Michael Pitt, Asia Argento, Lukas Haas, Harmony Korine, Ari Tomais - sceneggiatura: Gus Van Sant - durata: 97'. Capitolo finale di una ipotetica "trilogia della rarefazione esistenziale", "Last days" chiude malamente, raccontando gli ultimi giorni di vita di Blake, rockstar ad un passo dal suicidio, il discorso stilistico iniziato con la secchezza desertica di "Gerry" (2002) e proseguito con l'impassibile pedinamento di "Elephant" (2003). Van Sant, alla ostilità minerale del primo e alla labirintica artificialità del secondo, aggiunge ora una natura umida e gorgogliante, chiaro riparo regressivo dagli attacchi di una modernità insaziabile e rapace. Blake (Michael Pitt), personaggio apertamente ispirato a Kurt Cobain (il leader dei Nirvana morto suicida nel 1994 a ventisette anni), passa gli ultimi giorni della sua vita in una grande casa nel bosco insieme a quattro ragazzi, farfugliando frasi sconnesse e ciondolando inebetito di stanza in stanza. La fuga dalle storture della civiltà è tuttavia illusoria: anche qui è la logica economica a regolare i rapporti umani. Chiunque suoni alla grande casa di Blake vuole vendere qualcosa: inserzioni pubblicitarie sulle pagine gialle, religione porta a porta, la bellezza patinata e volgare di un video musicale letteralmente agghiacciante. Chiunque vuole qualcosa da lui: la partecipazione a una tournée di soli (?) ottantaquattro giorni, le scuse per essere diventato "un cliché del rock and roll", l'ascolto di un demo e l'aiuto "a rendere più personale" il verso di una canzone. Non esiste disinteresse, fatta eccezione per un cucciolo spaurito di gatto che Blake prende timidamente in braccio senza riuscire a calmare, palese riflesso della sua fragilità e chiara proiezione del suo senso di colpa per la figlia lontana. È proprio questo tenore simbolico a non convincere affatto: ogni passaggio narrativo è suscettibile di essere interpretato in chiave allegorica, in parabola morale, in esemplificazione. Il bagno iniziale nel fiume diventa allora una sorta di lavacro, l'intervento della madre si trasforma in colpevolizzazione, la fuga degli amici in emblema di indifferenza giovanile, e i commenti televisivi nel consueto vaniloquio mediatico. I dialoghi poi, nella apparente e esibita insignificanza, veicolano un senso irrimediabilmente enfatico: il venditore di inserzioni tempesta Blake con una raffica di "d'accordo?" che spostano la comunicazione sul piano del contatto, sottolineandone la sostanziale ipocrisia; i gemelli mormoni si esprimono con un linguaggio di sapore fortemente biblico, precipitando nella macchietta e il logorroico investigatore privato giunge addirittura a darci un suggerimento di lettura per l'intero film, parlando di una pellicola (di una vita?) che prima si cristallizza e poi implode. Ciò non toglie che, come avveniva in "Elephant", "Last Days" possieda un impianto visivo di esemplare asciuttezza e rigore, merito anche della fotografia di Harris Savides, determinato nel desaturare la materia cromatica, infallibile nel seguire Blake con disperata esattezza e magistrale nel muovere la m.d.p. con implacabili, raggelanti carrellate. Tuttavia, ad un superbo controllo figurativo non corrisponde un altrettanto convincente prosciugamento morale: la sottrazione, nello stile, non è compiuta, e rimane un film irrisolto.
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