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Cinema e teatro


La compagnia teatrale P.LE.I.A.DI. (Per Lerici Insieme Associazione Disabili).
Cantiere teatrale rivolto a persone disabili e non

di Renato Bandoli

Dare conto di un'esperienza umana e artistica è sempre impresa che può risultare presuntuosa, specialmente se confinata nello spazio necessariamente ristretto di una sorta di autopresentazione.
Cercheremo quindi di superare l'imbarazzo e di raccontarci con umiltà.
In qualche maniera il progetto teatrale che dal 1999 con Maurizio Lupinelli stiamo realizzando nella città di Lerici e nel territorio di La Spezia con il gruppo inizialmente guidato dall'Associazione PLEIADI e dal Comune di Lerici, propaga le sue radici dalla città di Ravenna.
Infatti tra il '97 e il '98 all'interno di Ravenna Teatro, nasce la collaborazione con Lupinelli, attore del Teatro delle Albe, nell'elaborazione di "Uno studio per il Woyzeck" da Büchner, nell'ambito del progetto "Teatro come differenza" promosso dalla Provincia di Ravenna, dal Consorzio dei Servizi Sociali di Ravenna, Russi e Cervia, dalla Regione Emilia Romagna. Quel primo studio fu presentato al Centro Diurno Lo Zodiaco nell'ambito di "Colpi di scena" della rassegna nazionale "I teatri del disagio" organizzata da Accademia Perduta - Romagna Teatri.

Almanacco pluriennale

Il lavoro teatrale promosso dall'Ass.ne PLEIADI, grazie anche al decisivo impulso iniziale impresso alla proposta dalla psicologa Anna Maria Bertòla, prende avvio nel settembre del 1999 con un seminario sperimentale condotto insieme a Lupinelli con un primo gruppo di 11 persone disabili e 3 operatori volontari. Quel primo approccio alla creazione espressiva riscosse non solo il totale e convinto coinvolgimento dei ragazzi, ma anche quello dei loro genitori e degli operatori dell'Amministrazione comunale di Lerici.
Successivamente si è cercato di dare stabilità e continuità a quell'esperienza concependo un più articolato progetto. Negli otto mesi successivi, infatti, prese avvio il laboratorio teatrale per la produzione di uno spettacolo vero e proprio. Il lavoro si incentrava sulla celebre opera di Brecht Madre Courage e i suoi figli. La scommessa era quella di dare una visibilità adeguata all'impegno e al lavoro dei ragazzi. Lo sbocco naturale di ogni attività teatrale è e rimane la sua visibilità esterna al processo creativo. Ciò è tanto più importante in questo caso, poiché è parte essenziale del processo educativo ed espressivo il fatto che i ragazzi debbano poi rapportarsi con un "pubblico" (anche "normale"), in situazioni non più protette: che tutto il loro lavoro diventi quindi una situazione non chiusa, un evento al limite delle possibilità, una situazione produttiva di comunicazione e di energia emotiva.
Tutto il materiale elaborato in quei mesi fu raccolto in una fase più intensa di produzione teatrale e portò alla realizzazione del nostro primo spettacolo dal titolo "Hello Kattrin!" tratto dall'opera brechtiana, con la regia di Maurizio Lupinelli. Il debutto avvenne al Teatro Astoria di Lerici nel luglio 2000. In quell'occasione fu organizzato anche un Convegno dal titolo "Verso un teatro degli esseri", convocato per riflettere sul rapporto tra arte della scena e disagio.
Hello Kattrin! nel 2001 è stato inserito in cartellone nelle stagioni teatrali di Lerici, Sarzana e Carrara. Successivamente è stato ospitato all'interno di una rassegna nazionale organizzata dal Comune e dalla Provincia di Rimini e dalla Regione Emilia-Romagna.
Nel febbraio 2002, intorno alla nostra esperienza, si è raccolto un progetto teatrale importante per il territorio spezzino dal titolo Teatri In/Formazione, che ha visto la collaborazione del Teatro Astoria di Lerici e del Teatro Civico della Spezia, dove è stato rappresentato Hello Kattrin! alla presenza di numerosi critici teatrali, registi e attori della scena contemporanea italiana.
Anche in quell'occasione si è voluto riflettere sulla natura e sulla necessità di un teatro diverso con un incontro dal titolo "Altri sguardi" guidato da Franco Quadri, editore della Ubulibri e critico di Repubblica.
Essere motore di un progetto artistico che ha coinvolto e portato in scena spettacoli di importanti compagnie italiane - dal Teatro delle Albe a Pippo Delbono, da Lady Godiva Teatro al Teatro della Tosse, alla Compagnia della Fortezza di Volterra - è non solo motivo di soddisfazione ma è stato anche un primo passo per far conoscere il nostro lavoro fuori dell'ambito strettamente locale.
Nella seconda metà del 2002 è stato avviato un Corso di Formazione a livello provinciale per l'orientamento e l'integrazione di attori disabili e non. Il Corso dal titolo "Il corpo extra-ordinario" nella sua prima parte, iniziata a metà settembre, ha portato alla produzione e all'allestimento di "IMPUNEMENTE…Woyzeck", in scena a metà novembre 2002, che ha visto il gruppo originario lericino allargarsi coi nuovi importanti inserimenti di altri nove attori disabili e non.
L'estensione territoriale assunta dal Gruppo Teatrale delle P.LE.I.A.DI. con questo nuovo lavoro è importante per comprendere come possa essere solamente il concorso di più soggetti (istituzionali, professionali, del settore sociale e del volontariato) a rendere efficace la valenza di un progetto articolato. Infatti attualmente nello sviluppo del lavoro teatrale sono coinvolti i Comuni di Lerici, La Spezia, Sarzana, Bolano e Ortonovo, l'Unità Operativa Disabili dell'Asl 5, l'Istituto Santi.
Nel febbraio 2003 è stato ospitato a Ravenna all'interno della rassegna di teatro contemporaneo Nobodaddy curata da Ravenna Teatro. In quell'occasione la nostra esperienza artistica è stata al centro di un interessante scambio di opinioni con il Consorzio per i Servizi Sociali dei Comuni di Ravenna, Cervia, Russi e Azienda USL di Ravenna, all'interno del convegno dal titolo Uno sguardo possibile - Esperienze a confronto tra arte e vita.
Successivamente lo spettacolo, date le richieste ricevute dal pubblico, è stato riallestito a Lerici nel settembre 2003, ed è stato ospitato all'interno di Generazioni Festival appuntamento internazionale d'autunno di Pontedera Teatro il 1° ottobre. Inoltre è stato selezionato all'interno del progetto "Storie di Ordinaria Diversità" voluto del Consiglio Regionale della Toscana e della Fondazione Toscana Spettacolo per partecipare ad Armunia Festival - Costa degli Etruschi il 30 novembre al Castello Pasquini di Castiglioncello (LI).

Attrezzatura cantieristica

Mentre l'handicap è esposizione permanente e quotidiana di un disvalore, di una mancanza agli occhi del mondo e della società, la scena teatrale, l'azione del gioco e della finzione si configurano invece come esposizione extra-ordinaria e extra-quotidiana della differenza e dell'energia creativa che ogni essere umano custodisce, raggiunta attraverso un percorso che presuppone il riconoscimento dei valori reciproci, delle qualità peculiari di ognuno, del rigore, della precisione, della disciplina anche crudele. L'handicap individualizza il rapporto con il "fuori", il teatro invece socializza, mette in comunicazione l'esperienza emotiva interiore trasformandola in azione visibile ed efficace, capace cioè di creare un mondo.
È qui, allora, che può avvenire un incontro stimolante tra l'arte della scena e l'arte di vivere delle persone disabili, tra arte e vita.
Da sempre per rigenerare le proprie modalità operative trae energie dalle differenze che scaturiscono dalle contraddizioni del tempo e dello spazio in cui agisce. Per trovare il senso del proprio esistere, come ben ci spiega lo studioso Claudio Meldolesi, in quanto "[…] antica struttura di civiltà, nata dal bisogno sociale e mentale di esserci nello spazio e nel tempo della decisionalità mitica e umana…", il teatro volge lo sguardo fuori di sé, in un altrove che scardina i meccanismi produttivi e riproduttivi del sistema teatrale istituzionalizzato. Spiazzamento, questo, che riguarda sia princìpi etici sia canoni estetici consolidati fino alla pietrificazione.
Ci piace pensare, perciò, a un teatro, o meglio a una dimensione particolare del fare teatro che si ponga sul crinale incerto della realtà. Che sappia farsi esperienza di vita. Che non "rappresenti" qualcosa ma che viva la vita degli esseri che lo abitano nel suo manifestarsi. Un teatro che sappia provocare domande e inquietudini, più che cercare di offrire accomodanti risposte. Che parli al cuore e alla mente degli uomini con la forza del vero, con sincerità. Perché nella presenza scenica l'essere umano è un bagliore di disperante vitalità nei sussulti di un corpo ribelle, rammemorante antiche energie e insieme esplorazione di mondi possibili. Un teatro che, con una forza "pari a quella della fame" come auspicava Artaud, scommetta sull'incontro-scontro fra arte e vita.
È da questa scommessa che scaturisce la necessità della ricerca di un teatro diverso. Nato da questa urgenza e da questa consapevolezza, il viaggio intrapreso in compagnia di persone disabili ci ha posto di fronte ad un'ulteriore acquisizione concreta: è proprio nell'handicap, nel limite, nell'impedimento e nella "costrizione" (Copeau), come leve dell'invenzione scenica, che un attore trova la propria necessità.
Percorsi di crescita personali e collettivi all'interno del Gruppo Teatrale delle P.LE.I.A.DI., che si propagano anche negli ambiti della vita quotidiana, e che si riverberano di conseguenza anche nella vita dei loro famigliari, sono stati sperimentati in cinque anni di lavoro con risultati insperati, grazie anche ad un gioco di squadra nel quale Enti e soggetti, a vario titolo e con specifiche competenze e professionalità, hanno raccolto e profuso le loro energie per convergere sull'unico obiettivo della crescita della qualità della vita delle persone disabili, per il loro riconoscimento in quanto cittadini tra i cittadini ed anche in quanto artisti tra gli attori della comunità teatrale.
A questo punto nella mente si può formare un'immagine: quella di due occhi che scrutano nel buio (della quotidianità? della "normalità"? dello spazio teatrale?) alla ricerca di una visione, di una luce cioè in grado di aprire la percezione della realtà ad un senso possibile e inaudito.
Ecco, di fronte alle vite e alle esperienze delle persone che soffrono nel limite di ciò che, da una parte, la natura gli ha dato, e di ciò che dall'altra parte la società gli impone e in qualche maniera gli sottrae inventando parole come come handicap, menomazione, deficit, disabilità, diversa abilità, ecc, ecc, (coniando via via neologismi sempre più "democratici"); di fronte a queste vite, ecco, siamo tutti spettatori al buio.
E dal buio della nostra "normalità", con gli occhi a volte increduli, cerchiamo la fonte di una segreta magia, quella magica alchmia per cui dalla sofferenza, dal dolore, dalla vita ferita può originarsi la bellezza e la grazia. Avvertiamo il bisogno cioè di una poesia che ci costringa ad una emancipazione dello sguardo, per poter cogliere la visione di una vita possibile oltre la vita data, apparentemente immutabile.
In una celebre lettera il romanziere R.L.Stevenson scrive che "Nessuno può dire di volere qualcosa sinchè non ha osato tutto". Ecco, insieme ai ragazzi delle PLEIADI ci siamo addentrati in un territorio sconosciuto, sia a noi teatranti sia ai ragazzi, nel quale però è possibile osare tutto, e in questo caso vuol dire raggiungere gli estremi confini dei limiti che definiscono la condizione del disabile. Oggi si può dire che attraverso il lavoro teatrale per queste persone è in corso una piccola ma importantissima rivoluzione: cioè la trasformazione da oggetti bisognosi di attenzioni, cure, assistenza, servizi, ecc., a soggetti che, proprio perchè nel tempo e nello spazio teatrale osano tutto, possono adesso con una conquistata e sudata consapevolezza voler essere protagonisti anche di scelte di vita possibili. E noi tutti, con loro, possiamo forse spaziare finalmente con uno sguardo possibile per una diversa visione sia della loro condizione sia del fare teatro…e forse anche delle nostre esistenze.
La prossima importante tappa del viaggio intrapreso da questa esperienza, certamente unica sul territorio regionale ligure, dovrà e potrà dispiegarsi solo progettando un salto di qualità sia nelle dinamiche del lavoro propriamente teatrale sia nei percorsi formativi, nella prospettiva della costituzione di una compagnia teatrale vera e propria, che potrebbe rappresentare un fattivo, concreto inserimento lavorativo, oltre le asfittiche seppur necessitate prospettive assistenziali.
Concludendo, possiamo dire che l'inizio dei lavori di ciò che potremmo chiamare un cantiere d'arte per la realizzazione di un prossimo evento teatrale, è già avvenuto il 7 e 8 maggio 2005 con la presentazione alla sala teatrale del Centro Culturale Dialma Ruggierodi La Spezia di "Uno studio x Marat-Sade" da Peter Weiss, inserito all'interno della stagione di Teatro Contemporaneo 04/05 proposta dalla direzione artistica del Teatro Civico della Spezia.

Un posto al buio.
Cinema ritrovato tra comicità e guerra

di Marco Settimini

Tra il 2 e il 9 di luglio 2005, Bologna ha ospitato, per il diciannovesimo anno, il Cinema Ritrovato: otto giorni di immersione nella storia del cinema, che coinvolge in maniera non laterale tutta una città. Precisamente, tre sale (il Lumière 1 e il Lumière 2 e l'Arlecchino), la piazza principale (piazza Maggiore), il teatro Comunale, nonché una cineteca tra le più importanti d'Europa e l'ormai storica facoltà universitaria del D.A.M.S. L'affluenza è variegata (a occhio a maggioranza estera), e variegata è anche l'offerta cinematografica, dal minuscolo "Chien et chat" della Pathé Frères, cinque minuti di inseguimento tra un cane ed un gatto, alla monumentale ricostruzione storica di Michael Cimino: "Heaven's gate" (1980), proiettato, in una versione restaurata purtroppo non in maniera perfetta, in presenza dello stesso autore. Sempre del 1980, e opera tra le più importanti proiettate nel corso del festival, il director's cut (dalle circa due ore della versione ufficiale a 2 ore e 40) di "The big red one" di Samuel Fuller, autore americano tra i più amati dai registi-critici affermatisi nei Sessanta (Godard e Wenders, per esempio), la cui opera resta modello insuperato tanto per Spielberg quanto per Malick ("La sottile linea rossa"). Proiezione fondamentale, quella di "The big red one", nel quadro del settore centrale del festival, dedicato alla guerra, tra fiction e documentario, quasi a rimarcare la relazione instabile e aperta tra la creazione narrativa e la documentazione, tra la storia e la costruzione per immagini. L'ultimo giorno accade anche di potere vedere i frammenti non montati, in quanto esclusi da un documentario più organico, delle riprese sul set, per così dire, della II Guerra Mondiale, tutte realizzate dallo Stevens autore di "Un posto al sole": momenti di relax di soldati, ormai a guerra finita, ponti distrutti, città europee che provano a rinascere, nonché qualche fugace visione dei campi di sterminio. Osserva Godard nel suo "Moments choisis des Histoire(s) du cinéma" (2000), proiettato per la quarta volta di sempre, in due occasioni, in questi giorni bolognesi, che il cinema, il cinema americano e non solamente è dovuto transitare proprio attraverso l'orrore dello sterminio, in qualche maniera, per giungere ad un posto alla luce del sole. Tuttavia, il cinema non ha saputo evitare, con le sue immagini, afferma Godard luttuosamente, la tragedia del "suo" Novecento, l'orrore, e non ha saputo neppure raccontarlo davvero, tuttavia paradossalmente vivendo di violenza. E' malinconico, saggio e critico, Godard, nei dieci frammenti che compongono questa selezione di momenti del la sua ben più abbondante storia/storie del cinema. L'impressione, è stata di vivere un evento, di essere trafitti da un corpo quasi estraneo alla rassegna e a tutto ciò che si può vedere abitualmente nelle sale, e non solamente per la sua composizione in video (che a nostro avviso fa impallidire qualunque cosa si veda in questo formato). L'impressione, è stata di vedere una sorta di possibile futuro delle immagini, in questo lavoro paradossalmente sul passato delle immagini, anche pittoriche. Passato che torna con tutta la sua forza nel corso del Cinema Ritrovato: tra Feuillade e Pastrone, c'è spazio per tanto cinema comico delle origini: Tontolini (ossia Ferdinand Guillaume), un omaggio ad André Deed, comico del burlesque francese, attivo anche in Italia, che impersonò, per esempio, Boireau e Cretinetti, nonché autore del celebre "L'uomo meccanico" (1921), presente anch'esso a Bologna. Ancora, era presente tutta una serie frammentaria di immagini di cent'anni fa (produzioni Pathé Frères, in particolare), di attualità della Gaumont (tutte del 1914), e una serie di brevi cortometraggi che documentano i tentativi del P.C.I. e della D.C. di fare propaganda politica, talvolta impiegando icone, enormi oppure piccole del cinema italiano (Aldo Fabrizi e Franco & Ciccio, rispettivamente). Tra questi documenti e invenzioni, si inseriscono alcuni lampi del cinema classico, oppure appena pre-classico: "The unholy three" di Todd Browning (1925), il melodramma "When tomorrow comes" di John Stahl (1939), di Lewis Milestone "All quiet on the Western front", "Two Arabian Kinghts" e "The Garden of Eden", nonché il davvero fondamentale The racket, limpido esempio di gangster movie pre-hawksiano (tutti realizzati tra il 1927 e il 1930), e infine il perfetto, straordinario meccanismo di "American madness" di Frank Capra, sulla crisi del '29 e sul rapporto tra pubblico e privato, secondo la migliore formula della classicità U.S.A. Ancora, c'è spazio, nel festival per tutta una serie di dossier su alcuni autori fondamentali (Fellini, Buñuel, Pasolini, ecc.), tra i quali spiccano per esempio alcuni vecchi cortometraggi di Buñuel, e "Rossellini / Pascal, un ricordo" di Claudio Bondì (1972). Importanti numerosi film restaurati che hanno ritrovato spazio nelle sale bolognesi; l'elenco può rendere lo spessore artistico del programma, e in alcuni episodi (ci si riferisce in particolare alle "sperimentazioni", per così dire, sul pubblico più ampio di piazza Maggiore) la capacità di osare alcune proposte non scontate. Si va infatti dallo "Spione" di Fritz Lang, l'invisibile "Dura Lex" di Kulesov, l'orientale (e fondamentale) "The river "di Renoir, i western del cinema tardo classico statunitense "3:10 to Yuma" di Dalmer Daves (1957) e "Sierra Charriba" di Sam Peckinpah (1965), l'eccezionale "Calle Mayor" di Juan Antonio Bardem, autore spagnolo anti-fascista e anti-cattolico che si guadagnò il carcere in corso d'opera per questa opera, tanto preziosa e tanto terribile, del cinema iberico anni '50 (è del 1956), in bilico tra Hitchcock, il migliore Chabrol, "Viridiana" di Buñuel e "Cronaca d'un Amore" di Antonioni: una opera che davvero nessuno, in Italia, osò girare. "Calle Mayor" è stata proposta nel quadro del secondo omaggio del festival: dopo quello a Deed, quello a Betsy Blair, attrice che ritroviamo sempre sullo schermo della sala Arlecchino in "The halliday brand" di J. H. Lewis e "I delfini" di Francesco Maselli. Fuori dalle sale, invece, in piazza Maggiore, s'è potuto vedere "My uncle" di Jacques Tati (la versione inglese curata dallo stesso autore di "Mon oncle"), il dickensiano D. W. Griffith "Giglio infranto", con Lillian Gish, "Le mariane de M.lle Beulmans" di Julien Duvivier (1927), incantevole affresco del Belgio post-bellico, splendidamente accompagnato da un ensemble composto di archi, piano e fisarmonica, e a seguire, la medesima notte, l'opera estrema di Dulac: "La coquille et le clergymen" dal soggetto di Artaud, al di là del surrealismo, in una sorta di varco nel cervello umano, un sorta di precipizio oltre ciò che è umano, oltre il sogno, oltre il Buñuel del "Un chien andalou" e molto prima di David Lynch. Pregevole, in queste occasioni serali, la cura delle musiche composte per l'occasione, quanto l'apporto dei pianisti impegnati nelle tre sale a accompagnare le immagini del muto. Interessanti, anche nella prospettiva delle musiche suonate, le proiezioni al teatro Comunale, in apertura e chiusura di festival. Innanzitutto, "La corazzata Potëmkin" di S. M. Ejzenstejn, in una copia restaurata, con le musiche originali di Edmund Meisel, a celebrarne l'80° anniversario, con stucchevole polemica connessa. "Non mi interessano gli attacchi politici; dico solo che "La corazzata Potëmkin" è un grandissimo film", ha chiosato l'assessore alla Cultura del Comune di Bologna, Angelo Guglielmi, ad un servizio di "Libero" che condannava aspramente l'opera e la sua proiezione in una città detta "riconquistata" dalla sinistra. Nessuna polemica e straordinario successo di pubblico, invece, per "A woman of Paris", di Chaplin, film anch'esso restaurato e con le musiche di Chaplin medesimo, ricostruite a opera di Timothy Brock, che chiude una rassegna che comprendeva anche una decina di cortometraggi di e/o con Chaplin, tutti del 1914. Attendiamo già ora con impazienza l'edizione del ventennale, chiamando tutti coloro che amano il cinema a ritrovarsi nelle sale bolognesi.

Bologna, Piazza Maggiore durante una delle proiezioni del festival

 

Pater familias

di Alessandro Baratti

"Pater familias" (2003) di Francesco Patierno - interpreti: Luigi Iacuzio, Federica Bonavolontà, Francesco Pirozzi, Francesco Di Leva, Domenico Balsamo, Sergio Solli, Marina Suma, Ferdinando Triola - sceneggiatura: Francesco Patierno e Massimo Cacciapuoti (liberamente tratto dal romanzo eponimo di Massimo Cacciapuoti) - fotografia: Mauro Marchetti - scenografia: Gian Franco Danese - montaggio: Luca Gazzolo - costumi: Agostino Varchi - musiche: Angelo Talocci - durata: 88'

Trama:
Dopo dieci anni di reclusione, il trentenne Matteo ottiene un permesso giornaliero per visitare il padre in fin di vita, ma il suo ritorno a casa è turbato dalle visioni di un passato che si riaffaccia prepotentemente. Ossessionato dai fantasmi della memoria e incalzato dalle ore che passano, Matteo sfrutta il poco tempo a disposizione per aiutare Rosa a fuggire dal marito violento.

Cruda, vibrante, sorprendente opera prima di Francesco Patierno, giovane regista (classe 1964) proveniente dalla televisione, "Pater familias" è un film di ostruzioni, di condizionamenti, di sbarre. Spaziali, culturali, mentali. L'influenza ammorbante del contesto non lascia scampo: sopruso, prevaricazione e aggressività dominano un mondo disertato dalla grazia, abbandonato dalla pietà, nerissimo. Principali responsabili dell'opprimente chiusura di questo universo sono i padri, totalmente incapaci di aiutare i figli a elaborare progetti di vita alternativi, e essi stessi vittime di una brutalità asfissiante. Eppure, nonostante l'assenza di modelli familiari incoraggianti e di prospettive future, il tentativo di aiutare Rosa (Federica Bonavolontà) offre a Matteo (Luigi Iacuzio) l'opportunità di rompere il cerchio della ferocia e ottenere un riscatto esistenziale, per sé e per i suoi compagni. Muovendo da una complessa sceneggiatura scritta a quattro mani con Massimo Cacciapuoti, autore del romanzo omonimo, Patierno opera una trasfigurazione del reale. Segnala i frequenti passaggi temporali attraverso una decisa variazione cromatica, realizzata con un procedimento chimico nella stampa della pellicola chiamato "salto della sbianca". Trasmette alle immagini del passato una strana irrequietezza, ottenuta sistemando dei sacchetti di sabbia sotto la cinepresa. Inchioda la realtà osservata all'orizzonte individuale dei personaggi, facendo largo uso di soggettive. E conferisce allo sguardo una tonalità per così dire rubata, girando scene cruente all'insaputa dei passanti e piazzando la macchina da presa, nascosta spesso agli attori stessi, negli angoli di massima tensione visiva. Lo stile è nervoso, franto, incline ai passaggi fulminanti e agli abbandoni improvvisi, ma anche capace di dilatarsi in pause di pensosità dolorosa, in ralenti strazianti, fino a cristallizzarsi in freeze frames di lacerante e sospesa (auto)riflessività. Insomma, una scrittura filmica secca e tormentata, attraversata da scatti brucianti e aspre sottrazioni, pronta a cogliere, con asciuttezza folgorante, gli improvvisi drammatici dell'intreccio. Secondo chi scrive, il più bel film italiano del 2003. Appena uscito in dvd.

 

Clean

di Alessandro Baratti

"Clean" (2003) di Olivier Assayas - interpreti: Maggie Cheung Nick Nolte, Jeanne Balibar, Ian Brown, Béatrice Dalle, Laetitia Spigarelli, Dom McKellar Martha Henry, Tricky - sceneggiatura: Olivier Assayas - fotografia: Eric Gautier - scenografia: François-Renaud Labarthe - montaggio: Luc Barnier - costumi: - Anais Romand - musiche: Brian Eno, David Roback, Tricky - durata: 110'

Clean (pulito), è il contrario di junkie (tossico). Non è soltanto questione di droga, ma soprattutto di immagini. Come è possibile ripulire il corpo (filmico) dai veleni sintetici, dai fumi industriali, dalle reti imprigionanti di una dipendenza fisica e economica? Come è possibile riconsegnare il cinema alla sua purezza visiva, alla sua libertà narrativa, alla sua indipendenza? Questi i quesiti che interessano Olivier Assayas. Sotto e dentro la storia di Emily (una Maggie Cheung frastornante), vedova eroinomane che cerca di disintossicarsi per recuperare il piccolo Jay, spinge una seconda urgenza: quella di liberare il cinema dalle regole ammorbanti dell'industria dello spettacolo e restituirlo allo scavo limpido, cristallino dei sentimenti. Il cineasta francese ci riesce alla perfezione. Gira con una eleganza figurativa e una padronanza dei tempi drammatici che stordisce. Riduce le riprese in continuità e i piani sequenza, sue cifre stilistiche, frammentando l'azione e concentrandosi sui dettagli marginali, sui particolari leggermente decentrati che illuminano il senso della situazione con chiarezza folgorante. Spalleggiato dal direttore della fotografia Eric Gautier, dà vita ad un universo visivo straordinariamente mobile, pulsante, capace di aderire simbioticamente alla dimensione esistenziale dei personaggi, come di allontanarsi improvvisamente dai loro corpi, dipingendo squarci di disperante estraneità. Filma i dialoghi declinando lo schema del campo/controcampo con una sensibilità stupefacente, riuscendo a entrare immancabilmente nelle pieghe emotive del momento e a scavare con sofferta lucidità nelle cicatrici interiori dei caratteri. E riceve da Nick Nolte, nei panni di Albrecht, una tra le più intense, profonde e toccanti interpretazioni attoriali che abbiano mai impressionato una pellicola. Il cinema è di nuovo puro. Clean.

N.B. - Vista la versione originale, in cui si parlano tre lingue (inglese, francese, cantonese), sublime è la voce di Nolte; fa rabbrividire lo scempio del doppiaggio appiattente. Trattasi di film non doppiabile, per nessuna ragione al mondo. Magnifica la performance dei Metric in Dead Disco: doppieranno anche quella?


Last days

di Alessandro Baratti

"Last days" (2005) di Gus Van Sant - interpreti: Michael Pitt, Asia Argento, Lukas Haas, Harmony Korine, Ari Tomais - sceneggiatura: Gus Van Sant - durata: 97'.

Capitolo finale di una ipotetica "trilogia della rarefazione esistenziale", "Last days" chiude malamente, raccontando gli ultimi giorni di vita di Blake, rockstar ad un passo dal suicidio, il discorso stilistico iniziato con la secchezza desertica di "Gerry" (2002) e proseguito con l'impassibile pedinamento di "Elephant" (2003). Van Sant, alla ostilità minerale del primo e alla labirintica artificialità del secondo, aggiunge ora una natura umida e gorgogliante, chiaro riparo regressivo dagli attacchi di una modernità insaziabile e rapace. Blake (Michael Pitt), personaggio apertamente ispirato a Kurt Cobain (il leader dei Nirvana morto suicida nel 1994 a ventisette anni), passa gli ultimi giorni della sua vita in una grande casa nel bosco insieme a quattro ragazzi, farfugliando frasi sconnesse e ciondolando inebetito di stanza in stanza. La fuga dalle storture della civiltà è tuttavia illusoria: anche qui è la logica economica a regolare i rapporti umani. Chiunque suoni alla grande casa di Blake vuole vendere qualcosa: inserzioni pubblicitarie sulle pagine gialle, religione porta a porta, la bellezza patinata e volgare di un video musicale letteralmente agghiacciante. Chiunque vuole qualcosa da lui: la partecipazione a una tournée di soli (?) ottantaquattro giorni, le scuse per essere diventato "un cliché del rock and roll", l'ascolto di un demo e l'aiuto "a rendere più personale" il verso di una canzone. Non esiste disinteresse, fatta eccezione per un cucciolo spaurito di gatto che Blake prende timidamente in braccio senza riuscire a calmare, palese riflesso della sua fragilità e chiara proiezione del suo senso di colpa per la figlia lontana. È proprio questo tenore simbolico a non convincere affatto: ogni passaggio narrativo è suscettibile di essere interpretato in chiave allegorica, in parabola morale, in esemplificazione. Il bagno iniziale nel fiume diventa allora una sorta di lavacro, l'intervento della madre si trasforma in colpevolizzazione, la fuga degli amici in emblema di indifferenza giovanile, e i commenti televisivi nel consueto vaniloquio mediatico. I dialoghi poi, nella apparente e esibita insignificanza, veicolano un senso irrimediabilmente enfatico: il venditore di inserzioni tempesta Blake con una raffica di "d'accordo?" che spostano la comunicazione sul piano del contatto, sottolineandone la sostanziale ipocrisia; i gemelli mormoni si esprimono con un linguaggio di sapore fortemente biblico, precipitando nella macchietta e il logorroico investigatore privato giunge addirittura a darci un suggerimento di lettura per l'intero film, parlando di una pellicola (di una vita?) che prima si cristallizza e poi implode. Ciò non toglie che, come avveniva in "Elephant", "Last Days" possieda un impianto visivo di esemplare asciuttezza e rigore, merito anche della fotografia di Harris Savides, determinato nel desaturare la materia cromatica, infallibile nel seguire Blake con disperata esattezza e magistrale nel muovere la m.d.p. con implacabili, raggelanti carrellate. Tuttavia, ad un superbo controllo figurativo non corrisponde un altrettanto convincente prosciugamento morale: la sottrazione, nello stile, non è compiuta, e rimane un film irrisolto.

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