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in mostra

Cosa è e cosa potrebbe essere la Biennale di Venezia

di Mattia Patti

Se ci venisse chiesto che cosa sia la Biennale di Venezia, sarebbe impossibile, oggi, dare una semplice ed univoca risposta. Essa rimane la più importante, sicuramente la più ampia mostra d'arte contemporanea che si tenga in Italia. Ha tuttavia perduto definitivamente quei caratteri che la rendevano un punto di riferimento inamovibile, obbligato, per la critica e per gli artisti. Non si va più alla Biennale con la certezza (e, forse, neppure con la speranza) di conoscere le più avanzate ricerche artistiche, né con quella di incontrare il meglio della produzione italiana. La Biennale di Venezia è stata un modello per le grandi mostre che si sono vieppiù diffuse nel mondo, e continua tuttora ad esserlo, anche grazie alla nuova forma che col tempo s'è data. Ma il potere assoluto e incontrastato dei curatori la rende un organismo informe, difficilmente inquadrabile, soprattutto in prospettiva di una prossima, inevitabile, sua storicizzazione.
Il problema principale della Biennale risiede proprio nel ruolo ambiguo e contraddittorio che ha il curatore. A questo è affidato il compito di firmare gli spazi nevralgici della mostra, il Padiglione Italia e l'Arsenale. Due spazi difficili, molto diversi fra loro, che hanno subito, negli ultimi tempi, profonde trasformazioni che ne hanno modificato l'identità.
Il Padiglione Italia, che era tradizionalmente il luogo ove erano ospitati gli artisti italiani, emergenti o affermati, è diventato ormai la sede privilegiata - per la sua assoluta centralità nei Giardini - del principale intervento curatoriale. Sede, dunque, di una mostra che può anche non ospitare artisti italiani, com'è accaduto, o quasi, in quest'ultima occasione.
L'Arsenale, di contro, è divenuto con i suoi spazi giganteschi, disponibili a qualsiasi forma d'intervento e di allestimento, il vero cuore pulsante dell'intera manifestazione.
A fronte di questo nuovo equilibrio, sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza circa i compiti del curatore della Biennale. Una possibile soluzione sarebbe quella d'affidare ad un curatore la selezione degli artisti italiani da esporre nel Padiglione Italia e, parallelamente, di assegnare ad un'altra persona il compito di progettare gli spazi amplissimi dell'Arsenale. Sarebbe così rispettata nei Giardini la finalità originaria della manifestazione: mettere a confronto il meglio dell'arte italiana con le esperienze internazionali; al contempo, l'Arsenale diverrebbe un vero e proprio gran corpo, aperto al nuovo e libero da calcoli e speculazioni sulle diverse presenze nazionali.
Vedremo che cosa accadrà nel 2007.


L'esperienza dell'arte. La mostra del Padiglione Italia

Per quanto María de Corral in catalogo parli di "labirintico percorso" e insieme sostenga d'aver montato una mostra che "non è storicista né lineare", gli spazi del Padiglione Italia sono regolati da un allestimento molto equilibrato, chiaramente ordinato in diversi momenti, l'uno distinto dall'altro. Il percorso inizia di fronte al Padiglione con gli inquietanti proclami adesivi di Barbara Krueger, che già dopo una settimana dall'inaugurazione hanno iniziato a staccarsi per il caldo, a dire il vero non insopportabile come quello del 2003. Entrando, poi, il primo incontro è con Monica Bonvicini (unica italiana in mostra, insieme a Francesco Vezzoli), che nella rotonda ha collocato un martello perforatore verniciato di nero e titolato "Blind Schot", che penzola minacciosamente sopra la testa dei visitatori. Passati questi due primi ostacoli, si apre un corridoio dedicato al video. Le sale sono separate da pareti sottili, con la conseguenza che le voci e i suoni di opere contigue si sovrappongono fastidiosamente. Tra i video più interessanti - ma sono troppi e troppo tempo si dovrebbe impiegare a fare questi pochi, primi metri della Biennale - è forse la collana di brevi animazioni del giovane sudafricano Robin Rhode.
Terminati i video, il visitatore viene guidato dall'allestimento verso gli spazi centrali. Prima d'entrare nell'ala principale del padiglione s'attraversa il corridoio caldo e silenzioso di Tania Bruguera e la giocosa e attenta misurazione dello spazio di Maider López.
Nella sala centrale è una grande, monumentale scultura dell'inglese Rachel Whiteread, pronta per essere portata nel mezzo di una piazza, e, sulle pareti, sono esposte le decompresse e esplose immagini digitali del tedesco Thomas Ruff, piccoli paesaggi usciti dal monitor d'un computer, che, pantografati, restano leggibili soltanto da una grande distanza.
Il clou del padiglione è tuttavia in alto, nel soppalco realizzato da Scarpa, ove si trova un grande e articolato lavoro di William Kentridge ("Journey to the moon" e "Day for night and 7 fragments for Georges Méliès"). Kentridge, con pochi trucchi e con molta sapienza, avvolge il pubblico entro una rete fitta e sottile, gioca abilmente con lo spazio e, con il suo formicolante sviluppare e riavvolgere immagini, spinge gli occhi dello spettatore verso una meravigliosa e commovente vertigine.
Scesi dalla sala di Kentridge, si entra nella seconda, deludente parte della mostra. Qui la curatrice spagnola ha costruito una lunga e - nel suo complesso - incomprensibile serie di sale monografiche, spesso alimentate dalle opere di un solo museo o, peggio, da una sola galleria privata. Tra l'altro, si ha la netta sensazione che la maggior parte delle opere esposte siano già state pubblicate, e che poco, davvero troppo poco, vi sia d'inedito.
In questo 'secondo tempo' del Padiglione Italia gioca un ruolo di primo piano la pittura: largo spazio è dedicato ad artisti storici, primo fra tutti Bacon, però manca, in fondo, un filo conduttore, la continuità d'un discorso. Si passa indifferentemente da Philip Guston ad Agnes Martin, da Marlene Dumas a Bernard Frize, fino ad arrivare a Gabriel Orozco, senza che si riesca a capire quali vie María de Corral abbia inteso seguire. Di tanto in tanto ci s'imbatte in opere più incisive, quali ad esempio il video "Palast" di Tacita Dean, oppure, ancora, i dipinti neometafisici del tedesco Matthias Weischer (che rendono di più, però, in riproduzione).
L'impressione è che un Padiglione Italia così concepito non possa davvero costituire il cuore pulsante dell'intera Biennale, e che ad esso, pertanto, debba essere data una nuova, più matura o forse soltanto più limitata e tradizionale funzione.


Sempre un po' più lontano, la mostra dell'Arsenale

A cura di Rosa Martínez, responsabile assieme a María de Corral di questa 51a edizione della Biennale di Venezia, la grande, estesa mostra allestita nelle Artiglierie e nelle Corderie dell'Arsenale si presenta come un ampio panorama dei differenti linguaggi adottati attualmente in campo artistico. Scopo della curatrice spagnola era probabilmente quello indicato nella presentazione in catalogo, di "inventare nuove forme di vicinanza tra artisti, discipline e pubblico" costruendo una "temporanea 'agorà' globale". Il risultato conseguito è tuttavia assai diverso, dal momento che al pubblico - e, perché no, anche agli artisti - la curatrice ha offerto un panorama (sempre un po' più) confuso di quel che è il mondo dell'arte.
Tentando di tralasciare questa eccessiva e disorientante varietà di linguaggi adottati dagli artisti presenti in mostra, è necessario constatare che sono molto frequenti i casi nei quali l'opera si fa documentazione, testimonianza. Si passa così dai premiati e crudissimi video con le operazioni di Body art di Regina José Galindo, alle belle fotografie di Cristina García Rodero, più adatte però alle pagine di una rivista che alle sale di una mostra. Su un registro simile si attestano altri due interventi che interessano la parte centrale del percorso: la ricostruzione del padiglione americano della Biennale del 1964, celebre per aver decretato il definitivo successo della Pop Art, e, ancora, il reportage su mostre e musei che l'architetto olandese Rem Koolhaas ha sviluppato su grandissimi pannelli, raccogliendo dati sulla struttura dei musei, sul rapporto che intercorre tra questi e la città nella quale si trovano e su altre simili questioni.
L'allestimento dell'Arsenale lascia comunque spazio ad interventi di grande qualità, primo fra tutti quello di Bruna Esposito, che è riuscita a ritagliarsi uno spazio raccolto, quasi intimo, nel vuoto gigantesco della mostra, e qui ha lasciato la sua "Perla a piombo", esatta e acuta. Poco oltre, su un grande disco di marmo, la scultrice romana ha lasciato cadere le sue bucce di cipolle, "Precipitazioni sparse" che valgono soprattutto per la loro delicata variazione tonale.
Ancora, meritano d'essere ricordate l'installazione di Mona Hatoum, intitolata "+ and -", e quella del cubano Carlos Garaicoa, un paesaggio illuminato da piccole sottilissime luci, che fendono l'aria buia della sala per raccontare minuscoli frammenti di una favola.
Nel suo complesso, nonostante la netta riduzione di opere rispetto al caos creato da Bonami nel 2003, l'Arsenale resta ancora uno spazio non riuscito, troppo vasto e impegnativo perché un curatore, in poco tempo, possa articolare un allestimento ordinato e leggibile.

LE PAGELLE AD ALCUNI PADIGLIONI DELLA BIENNALE

Afghanistan: una delle presenze meno strutturate e meno pubblicizzate dell'intera Biennale. Affascinanti i due video che si fronteggiano di Lida Abdul: l'Afghanistan che ha passato la tempesta e l'Afghanistan che è sopravvissuto non sono esattamente la medesima cosa. Voto: 8

Scozia: nella Scoletta di Campo S. Rocco, una mostra completa, concentrata, con artisti forse troppo diversi fra loro. Val la pena di fare la ripida rampa di scale per vedere le sculture di Alex Pollard, che è artista maturo, in odore di dada. Voto: 6

Ucraina: due piccole sale della Fondazione Levi di Palazzo Giustinian, due interventi di Mykola Babak. Nel primo spazio alcune bambole tradizionali, fatte di corda e di stoffe colorate, esposte insieme a grandi fotografie del passato di bambini ucraini; nel secondo due video, con una testimonianza 'arancione' - da telegiornale "no comment" - della recente rivoluzione di velluto. Scontato. Voto: 5

Francia: Il meraviglioso e premiato "Casinò" di Messager. Un lavoro delicato, che vibra per via di un racconto che non ha bisogno di chiudersi. Libero da qualsiasi linea d'avanguardia, ha la struttura di un gioco per gli occhi in tre tappe. Il secondo momento è il più denso, il più carico di suggestioni. Voto: 8

Gran Bretagna: Gilbert and George. Due uomini, un artista, un'opera. Fotogrammi coloratissimi di un'animazione che non si muoverà. L'allestimento, come spesso accade in questo padiglione, è di un'invidiabile unità e compattezza. Voto: 7

Australia: allucinanti oggetti (nature morte?) di legno. Da attraversare a passo svelto. Voto: 4

Germania: Tino Sehgal può rigenerare in un momento di stanchezza o di depressione. Entrare, però, dopo aver visto il padiglione australiano può provocare un pericoloso cortocircuito. Voto: 5,5

Pipilotti Rist: "Homo sapiens sapiens", video presentato in collaborazione con il Padiglione della Svizzera, è una delle opere più intense ed avvolgenti dell'intera Biennale. Vietato dare spiegazioni, l'importante è raggiungere la Chiesa di San Stae. Voto: 8,5

 
J. Vasconcelos, "A Noiva" (la sposa), Padiglione portoghese

Madonnine agghindate. Figure devozionali vestite del territorio di Arezzo

di Margherita Melani


Sculture con l'anima in legno, con imbottiture di fibre vegetali, con articolazioni snodabili non sempre omogenee, o con particolari in terracotta o cartapesta: sono queste le caratteristiche che accomunano i pezzi attualmente esposti nel Museo di Palazzo Taglieschi di Anghiari, sede di una mostra interamente dedicata a statue di varie epoche poi pesantemente manipolate, rimodellate o piallate, per essere vestite secondo l'uso. La vestizione delle statue devozionali è una delle conseguenze del Concilio di Trento, pratica che nel territorio aretino è documentata dalla fine del XVI secolo fino ai primi anni del XX secolo, momento in cui si riscontra il divieto di fare uso di statue vestite e di fiori finti com'è ricordato negli apparati storici ed antropologici che corredano il catalogo.
L'esposizione si articola in sette sezioni dedicate a differenti tipologie della Vergine, del Bambino e a raffigurazioni varie che si possono suddividere in due grandi tipologie: opere a grandezza naturale ad uso processionale ed oggetti di dimensioni ridotte ad uso privato, collocati entro teche in legno e vetro. Tra le "Madonne della Cintola", le "Madonne del Carmelo", le "Immacolate", le "Addolorate", i "Gesù Bambino" e le "Maria Bambina" si segnala l'unica figura maschile della mostra: "San Francesco".
L'opera, esposta svestita, presenta numerosi interrogativi, in primo luogo concernenti il suo aspetto plastico. Si tratta, infatti, di una statua a grandezza naturale (altezza 170 cm, 187 cm con il basamento) proveniente dal monastero di Santa Chiara di Sansepolcro, dove è stata rinvenuta con un saio fermato da un cingolo sopra una tunica bianca. L'abito francescano nasconde un corpo modellato a tutto tondo con gli arti semovibili, grazie ad articolazioni presenti sia nelle braccia sia nelle gambe. L'apparato didattico aiuta il visitatore a spostare l'attenzione su aspetti più problematici come la corporatura muscolosa - inusuale per San Francesco, sempre rappresentato come un uomo minuto - il perizoma in tela gessata, l'asimmetria degli arti superiori e la testa, aggiunta in un secondo momento. È un tipico caso di statua lignea pesantemente modificata e integrata per rispondere ad esigenze devozionali: il corpo muscoloso, forse di un Cristo crocifisso, è stato trasformato aggiungendo le stigmate sul costato (dipinte a differenza di quelle sulle mani e sui piedi), applicando arti semovibili come il braccio destro che è ritenuto parte di una statua femminile del XV secolo, aggiungendo una testa fatta per l'occasione e coronata da un'aureola seicentesca dorata ed intagliata, modificando la mobilità degli arti inferiori pensati per una figura orante o inginocchiata. Tutti elementi che rendono ancor più difficile ogni ipotesi di datazione: infatti, in questo caso specifico, l'indicazione (XVII secolo) è accompagnata da un inevitabile punto interrogativo, rimasto nonostante i dati emersi dal restauro.
La sala che più delle altre colpisce l'immaginario del visitatore è sicuramente quella che raccoglie una serie di "Addolorate" di varie dimensioni: dalla più grande ad uso processionale proveniente dalla chiesa della Santissima Annunziata di Arezzo (alta 161 cm, ritenuta dell'inizio del XX secolo), ad una piccola statua ad uso privato (58 cm datata al XIX secolo) in legno, tela gessata e dipinta, acquistata per l'occasione, contraddistinta da una abito marrone in seta ricamata e da un ricco corredo di gioie costituito da una serie di ex-voto. L'elenco delle cose degne di attenzione potrebbe continuare a lungo, ma in particolare merita una segnalazione la serie di piccoli festoni del XVIII secolo, con strass e ricami, provenienti dal convento di clausura delle Clarisse di Sansepolcro, oggetti preziosi che purtroppo sono gli unici pezzi di cui non compare la scheda nel catalogo, ricco di immagini.
Si tratta sicuramente di una mostra inusuale, ma non per questo meno interessante, che permette di avere uno spaccato su una produzione artistica spesso dimenticata o trascurata, soprattutto in casi in cui l'uso devozionale ha avuto il sopravvento su quello estetico. Un'esposizione da non perdere, particolarmente significativa se vista nella sede attuale, museo nato nel secondo dopoguerra proprio per raccogliere oggetti di uso popolare che si andavano perdendo, oggetti come le Madonnine agghindate ad uso privato che sono parte della collezione permanente del Museo di Palazzo Taglieschi.

Madonnine agghindate. Figure devozionali vestite del territorio di Arezzo, catalogo della mostra a cura di P. Refice V. Conticelli S. Gatta, Petruzzi Editore, Città di Castello, 192 pp., 104 ill. a colori, € 10,00.


Uno dei pezzi esposti alla mostra

 

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