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Incontri

Da Giotto a Botticelli. Pittura fiorentina fra Gotico e Rinascimento.

Convegno internazionale a proposito della mostra Da Bernardo Daddi al Beato Angelico, a Botticelli. Dipinti fiorentini del Lindenau-Museum di Altenburg
(Firenze, Museo di San Marco, 23 marzo-4 giugno 2005)

di Chiara Balbarini e Gerardo de Simone

L'esposizione presso la Biblioteca di San Marco di una succosa selezione di dipinti, frutto delle acquisizioni del barone von Lindenau e oggi patrimonio del Lindenau Museum di Altenburg, è stata l'occasione di un convegno internazionale organizzato dal Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo dell'Università di Firenze (Firenze 20-21 maggio 2005). Le sollecitazioni sono molteplici di fronte alla qualità dei dipinti mai esposti prima in Italia, rappresentativi ad ampio raggio dell'attività dei pittori fiorentini tra Medioevo e Rinascimento. Dal precoce Pacino di Buonaguida (autore del prototipo di trittico a sportelli con al centro la "Crocifissione" che avrà ampia fortuna nel Trecento), alle cadenze solenni e sontuose dei vari Jacopo e Nardo di Cione (di cui è esposto un intenso "San Giovanni"), Puccio di Simone, Lippo d'Andrea - per citarne solo qualcuno -, passando attraverso le sottili raffinatezze di Bernardo Daddi; con alcune "sorprese" come la tavola già attribuita a Masaccio da Schmarsow. Opere che, nella loro destinazione devozionale, privata o per membri di comunità religiose, rivelano qualità di intensa concentrazione, cifra caratteristica della nuova religiosità tardomedioevale che ha ormai sostituito la passionalità duecentesca con una contemplazione pacata e intima. Basti osservare il "San Girolamo" di Giovanni del Biondo o il "Cristo Crocifisso adorato dai santi Benedetto, Francesco e Romualdo" di Lorenzo Monaco, per rendersi conto del ruolo fondamentale di 'imagines agentes' che questi dipinti svolgevano nelle pratiche devozionali capillarmente diffuse a quest'epoca nel tessuto sociale.
L'intento di sistematizzazione che emerge dal catalogo - curato da Miklòs Boskovits - relativamente all'attribuzione delle opere e alla definizione del profilo storico biografico degli artisti, si riflette anche nei temi trattati durante il convegno. A cominciare dall'ampio excursus affrontato da Ada Labriola - impegnata nel "Corpus of Florentine Painting" - riguardante, parallelamente, la produzione fiorentina e quella senese tra XIII e XIV secolo. I pittori e i miniatori operarono, come mostra la Labriola, in maniera tangente in questo periodo di grande vitalità delle botteghe artistiche. Non ha dunque senso considerare i due tipi di produzione settori a sé stanti, come ben dimostra il caso di Pacino - affrontato da Francesca Pasut - il più prolifico e precoce illustratore del best seller per antonomasia di questi tempi, la Commedia di Dante. La Pasut ha il merito di presentare, tra l'altro, una serie di codici poco noti, tutti dovuti alla responsabilità di Pacino, che si avvalse della collaborazione di una équipe ben organizzata, strettamente aderente allo stile del maestro. Resta qualche dubbio sull'identificazione di prodotti fiorentini fuori di Firenze, tra i nuclei di codici miniati tardo duecenteschi o primo trecenteschi, nei quali si coglie, secondo la Labriola, un collegamento diretto con lo stesso Cimabue (vedi lo splendido Salterio della Biblioteca Universitaria di Pisa).
Al grande, per molti versi misterioso maestro di Giotto è dedicata una raffinata lettura stilistica di Luciano Bellosi, che ne riconosce la mano nei brani assisiati già riferiti al "Maestro della Cattura". Palmari raffronti con le opere su tavola - la "Maestà" del Louvre, la "Croce" di Arezzo e la "Madonna" di Castelfiorentino - confermano l'intervento cimabuesco nella Basilica di San Francesco, che, interrotto bruscamente, lascia il campo alle novità dell'allievo.
Un altro argomento assai dibattuto dalla critica è quello dei rapporti artistici tra due centri, Firenze e Napoli, che per ragioni economiche e politiche intrattengono fitte relazioni per tutto il Trecento. Gaudenz Freuler mostra nel suo intervento come gli scambi continui tra gli artisti rendano assai difficile stabilire l'origine fiorentina o napoletana di certi miniatori, come l'anonimo individuato dallo studioso sulla base di alcune opere reperite sul mercato antiquario svizzero, in rapporto con il Maestro delle Effigi domenicane e con Cristoforo Orimina.
Non sono mancati interventi che hanno analizzato i dati materiali delle opere e l'utilizzo di tipologie standardizzate nelle botteghe (Mirella Branca-Daniele Rossi, Erling Skaug, Daniela Parenti, Angelo Tartuferi, Victor M. Schmidt, Stefan Weppelmann), avanzando in base a questi proposte cronologiche e attributive. La ricchezza delle tecniche e dei materiali impiegati nella pittura trecentesca appare un dato notevole, specie se confrontato con la pittura successiva realizzata esclusivamente con colori e pennelli. Il lungo periodo di stabilità e uniformità tecnica presente nell'arte toscana trecentesca ha in effetti reso possibili, e al contempo significative, le analisi comparate condotte su larga scala. Si deve in particolare a Skaug una mappatura sistematica dei punzoni, ben 740 tipologie in relazione a circa sessantacinque botteghe attive a Firenze, Siena e Pisa. Anche l'esame della carpenteria è basilare nello studio della produzione di tabernacoli, polittici e altri tipi di dipinti su tavola, rivelando - come mostra Schmidt - sistemi di costruzione già utilizzati in civiltà antiche come quella egiziana e quella bizantina. [C.B.]

Meno nutrita numericamente, la serie di interventi di ambito quattrocentesco è stata però del massimo interesse per la statura degli studiosi intervenuti e per le novità spesso notevoli presentate per l'occasione, in particolare in relazione al Beato Angelico. Laurence Kanter, curatore della grande mostra che il Metropolitan dedicherà al pittore domenicano, nel 650o anniversario della morte, a partire dal prossimo ottobre, ha sviluppato un'ipotesi di ricostruzione della fase giovanile dell'Angelico, proponendo un periodo di attività nella bottega di Lorenzo Monaco. Tale periodo daterebbe da non prima del 1404, anno della svolta 'internazionale' di don Lorenzo, fino a certamente prima del 1417, anno in cui Guido di Pietro, non ancora frate, figura come titolare autonomo della commissione di una pala d'altare. A sostegno della suggestiva ipotesi, considerazioni stilistiche, ad esempio l'analogo decorativismo improntante la prima produzione angelichiana (come nelle miniature del Graduale 558 di San Marco), l'affine rappresentazione di elementi di boscaglia (alberi, fogliame), tali da spingere a ricercare la mano del giovane Guido nel corpus di Lorenzo Monaco: ad esempio i tre scomparti destri della predella dell'"Incoronazione della Vergine" degli Uffizi (1414), il pannello di predella del Museo di Nizza, la solida architettura inserita nella tavola del Museo di San Diego, estranei tutti, per 'esprit de geometrie' e saldezza spaziale, alle più irrazionali composizioni del camaldolese; nonché svariati inserti botanici e naturalistici, alieni dall'irrealismo astraente di Lorenzo. A far da cerniera ideale tra tali presunte prime prove angelichiane e la sua già nota attività giovanile indipendente, Kanter ha mostrato due inedite tavolette raffiguranti l'"Angelo annunciante" e la "Vergine", entro formelle polilobate di tipo ghibertiano, scoperte di recente e di lampante autografia del giovane Angelico.
Due aggiunte ulteriori al catalogo del frate pittore sono state proposte da Michel Laclotte. La prima riguarda una piccola tavola del Musée du Petit Palais di Avignone raffigurante "Cristo giudice con ai lati apostoli e santi", finora passata inosservata nei depositi del museo, che si apparenta strettamente alle versioni del soggetto dipinte dall'Angelico: quella per S. Maria degli Angeli a Firenze, i due trittici oggi a Roma e Berlino, l'affresco della Cappella di San Brizio ad Orvieto, lo scomparto dell'Armadio degli Argenti. L'esame della tavola rivela una storia travagliata, sia per le condizioni generali, sia perché ad evidenza essa appare il frutto di un'arbitraria ricomposizione di tre frammenti, in origine parti di una tavola più grande, verisimilmente inclusiva della folla di personaggi tipica del Giudizio, a cominciare dalla Vergine e san Giovanni ai lati del Cristo (il quale appare singolarmente imberbe, come in un disegno benozzesco di Chantilly). In attesa di ulteriori approfondimenti, Laclotte è propenso per una datazione agli anni trenta. La seconda aggiunta è relativa ad un frammento con "Storie eremitiche" di collezione privata francese, parte di una più ampia Tebaide, di cui Laclotte rimette insieme, come in un avvincente puzzle, i vari pezzi (fin qui non collegati o ritenuti parti di un'ipotetica predella): la "Conversione di Sant'Agostino" del Museo di Cherbourg, la "Storia di San Celestino" del Museo di Philadelphia, il "San Benedetto in preghiera" del Musée Condé di Chantilly. Nell'insieme così ricomposto, risulta mancante un ultimo frammento, la cui apparenza si può immaginare, da quelli adiacenti, costituita da uno specchio marino delimitato da una baia e spinto fino all'orizzonte. Il confronto con le altre Tebaidi dipinte dall'Angelico (Uffizi e Budapest) è istruttivo sia per le evidenti assonanze sia per le diversità di schema iconografico, spiegabili col fatto che la Tebaide ricostruita da Laclotte - che verrà esposta ricongiunta per la prima volta a Chantilly - illustra storie non degli eremiti tebani antichi ma di santi eremiti italiani 'moderni'.
Carl Brandon Strehlke, co-curatore della mostra angelichiana di New York, ha ripercorso le vicende di gusto e committenza legate alla famiglia patrizia fiorentina degli Strozzi nell'arco di un ventennio, a partire dalla commissione a Lorenzo Monaco di una pala d'altare per la cappella di famiglia nella chiesa di S. Trinita. I lavori alla cappella, iniziati nel 1417, si conclusero nel 1421 con la consacrazione, data entro cui secondo Strehlke sarebbe stata dipinta la pala di Lorenzo, non dunque rimasta incompiuta per la morte dell'autore nel 1424 come finora creduto: conseguentemente l'Angelico avrebbe dipinto la sua "Deposizione", collocata sull'altare nel 1432, al di sopra dell'opera di Lorenzo, lasciando intatte solo le figurazioni della cuspide e della predella. Strehlke ritiene che la pala 'oscurata' avrebbe rappresentato una Madonna col Bambino al centro e i Santi Onofrio e Nicola ai lati, protagonisti questi ultimi delle storie della predella nonché protettori di Nofri Strozzi e del suo primogenito Niccolò. La morte prematura di entrambi lasciò le redini della famiglia al fratello di Niccolò Palla, animo sensibile e colto, cui spetta il patrocinio dei lavori alla cappella in S. Trinita e la commissione a Gentile da Fabriano della celeberrima "Adorazione dei Magi" (1423), nella quale sono inseriti i probabili ritratti dello stesso Palla e del suo primogenito Lorenzo. Il capolavoro gentilesco, fulgido di ori e preziosità, testimonia nel suo sfarzo ostentato di una stagione di felice e compiaciuto edonismo nella vicenda degli Strozzi; la successiva pala angelichiana, commissionata secondo Strehlke da Lorenzo di Palla, appare invece al confronto improntata a uno spirito austero e castigato, anche nell'abbigliamento, coerente con i dettami di un umanista come Leonardo Bruni e di un teologo come S. Antonino. Palla, destinato a essere esiliato da Cosimo de' Medici nel 1434, vi appare con in mano una corona di spine e dei chiodi, allusione alla reliquia della croce custodita, sempre in S. Trinita, nella Cappella degli Ardinghelli, un cui esponente, Piero, prese in moglie nel 1424 Caterina di Niccolò Strozzi.
Ai restauri attualmente in corso di alcune opere dell'Angelico si sono dedicati gli interventi di Magnolia Scudieri, direttrice del Museo di San Marco, di Holger Manzke, del Lindenau Museum, e di Marco Ciatti, dell'Opificio delle Pietre Dure. Quest'ultimo ha presentato i primi risultati del restauro, ancora in fase preliminare, del Tabernacolo dei Linaioli, realizzato nel 1433-34 per la sede dell'Arte della lana. I Santi Marco e Pietro dipinti sulle ante esterne sono le parti più rovinate, con iscurimento del fondo in azzurrite; il fondo in gran parte dorato della Madonna col Bambino nel campo principale e dei due San Giovanni sulle facce interne delle ante, così come le aureole, mostrano invece una sorprendente varietà di tecniche (a missione, graffito, punzonato, brunito). Analoga profusione e raffinatezza tecnico-decorativa caratterizza il trittico francescano di S. Croce, accuratamente esaminato dalla Scudieri, che ha ripercorso la vicenda critica dei tre pannelli principali, la Madonna col Bambino con la Trinità nella cuspide al centro e i due laterali, molto rovinati, con i SS. Gerolamo e Giovanni Battista a sinistra (e angelo annunciante nella cuspide) e Francesco e Onofrio a destra (e Annunciata nella cuspide): il restauro ha finora rilevato la non pertinenza dei listelli laterali della cornice, conseguentemente rimossi, e la decurtazione di 2,5 cm per lato del pannello centrale, mentre ancora dubbi restano sulla configurazione originaria dell'insieme. La predella, ricostruita per la prima volta da Henderson e Joannides nel 1991 (ai quali si deve pure la scoperta del documento di allogagione nel 1429) è stata analizzata invece da Manzke - in particolare lo scomparto con "San Francesco davanti al sultano" del Lindenau Museum, recentemente restaurato e restituito ad una ottimale leggibilità -, il quale ha dedotto dall'analisi tecnico-fisica delle tavole che esse siano state decurtate di alcuni centimetri ai lati. Manzke ha inoltre discusso i tre santi in origine incolonnati in uno dei pilastrini laterali della pala di S. Marco, Rocco, Bernardo e Girolamo (tutti del Lindenau Museum), ipotizzando che la pala fosse in origine più alta e che potessero di conseguenza esservi cinque santi in ciascun pilastrino, anziché quattro come solitamente creduto.
Infine, Ester Moench del Musée du Petit Palais di Avignone ha anticipato alcune delle novità contenute nel nuovo catalogo del museo, in corso di pubblicazione, di cui è autrice insieme con Michel Laclotte ed altri studiosi, scelte tra i dipinti fiorentini del Tre e Quattrocento della Collezione Campana. Oltre ai puntuali aggiornamenti bibliografici, ingenti a quasi vent'anni dall'ultima edizione del catalogo, nuove attribuzioni riguardano ad esempio i due cassoni con "Storie di Susanna", da Laclotte assegnati a Zanobi Strozzi e al Pesellino. [G.d.S.]

 

Lorenzo Monaco, Cristo Crocifisso adorato dai santi Benedetto, Francesco e Romualdo, Altenburg, Lindenau Museum

 

Arnolfo's Moment.
Un convegno a Villa I Tatti e un grande progetto espositivo tra Toscana e Umbria.

di Chiara Balbarini

Si è aperta di recente, in due suggestive sedi espositive, la sala Podiani della Galleria Nazionale dell'Umbria di Perugia e la chiesa di Sant'Agostino di Orvieto, una delle due grandi mostre dedicate ad Arnolfo di Cambio, figura chiave del nostro "Rinascimento", invero ancora sottovalutata. È proprio sull'acquisizione critica del ruolo di fautore delle principali novità architettoniche e scultoree moderne, base fondamentale per gli artefici del Quattrocento (si pensi solo a Brunelleschi e a Donatello), che punta il progetto espositivo umbro (Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell'Umbria medievale, fino all'8 gennaio 2006), analogamente a quello fiorentino - stando alle generose anticipazioni dei curatori - in programma per dicembre presso il Museo dell'Opera del Duomo (Arnolfo. Alle origini del Rinascimento fiorentino, fino al 21 aprile 2006).
Ripercorrere gli studi su Arnolfo ed affrontare i problemi complessi che riguardano l'opera di questo straordinario artista universale non è stata operazione semplice, tanto più nella prospettiva ampia del contesto storico, politico e sociale, oltreché artistico, dei "Roaring 90s". È questo, credo, il merito più grande del Convegno che si è tenuto dal 26 al 27 maggio nella splendida cornice di "Villa I Tatti" per iniziativa dell'Harvard University Center for Italian Renaissance Studies.
Le principali problematiche che fanno da sfondo all'attività di Arnolfo a cavallo tra XIII e XIV secolo sono articolate in quattro sezioni tematiche: Definition and Identity, Artists and Ideas on the Move, Transformation of the City, Santa Maria del Fiore and its Liturgy. Nella prima, alcune proposte attributive di Luciano Bellosi conducono all'interno del modus operandi di Arnolfo scultore, della sua cifra stilistica più peculiare rispetto a quelle del maestro Nicola Pisano e dei compagni di bottega Giovanni e Lapo, tutti impegnati nel Pulpito della Cattedrale di Siena. Un ordine geometrico quasi astrattivo è il punto di arrivo di un percorso maturato, secondo Bellosi, tutto all'interno della bottega di Nicola; del quale Arnolfo esclude peraltro gli accenti patetici e le veementi caratterizzazioni fisiognomiche, che Giovanni porta alle estreme conseguenze nel Giudizio di Siena, come, più tardi, in quello ed in altri specchi del Pergamo della Cattedrale di Pisa. La raffinata lettura di Bellosi - incursione in un campo mai prima d'ora praticato dallo studioso, come egli stesso premette - propone dunque la risoluzione di uno dei nodi più dibattuti dalla critica, che ha visto studiosi del calibro di Carlo Ludovico Ragghianti, Enzo Carli e Angiola Maria Romanini su posizioni ben diverse.
L'organizzazione della taglia di Nicola non è il solo oggetto di querelle tra gli studiosi di Arnolfo. Serena Romano ritorna con magistrale chiarezza sul problema del "Maestro di Isacco" e degli affreschi di Assisi, che un'ardita proposta della Romanini attribuiva allo stesso Arnolfo. La Romano punta peraltro l'attenzione non sull'annoso problema attributivo, bensì sul sistema impaginativo e sulla tecnica narrativa degli affreschi. La "rivoluzione" che essi rappresentano nella pittura duecentesca italiana si basa sulla ripresa di un modello antico, attestato nei dipinti murali di Pompei, Stabia e Bosco Reale, conferma di un atteggiamento culturale condiviso in questi anni da pittori e scultori: basti pensare ai reimpieghi dello stesso Arnolfo nel monumento De Braye di Orvieto.
La volontà politica e sociale alla base della trasformazione della città duecentesca è il tema delle relazioni di George Dameron, David Friedman e Paula Spilner. A partire almeno dal XIII secolo i governi dei comuni italiani controllavano, ordinavano e promuovevano lo sviluppo di ambienti urbani. Riprendendo i suoi fondamentali studi sulle "terre nuove", Friedman indaga i modelli delle nuove fondazioni fiorentine, depositarie di un'ampia gamma di conoscenze che gli urbanisti duecenteschi derivarono dall'antichità. Tali fondazioni testimoniano come la forma delle città, non diversamente da quella di una grande chiesa, sia depositaria delle idee più forti dell'immagine che una società ha di sé stessa. Così le "terre nuove" fiorentine cristallizzano i risultati raggiunti da una lunga schiera di fondatori di città, e, nello stesso tempo, stabiliscono un punto di partenza per la moderna urbanistica. Un altro potere condiziona peraltro le imprese cittadine, quello del papa - come ricordano, nella discussione, Valentino Pace ed Enrica Neri Lusanna - e lo fa commissionando opere-chiave, come le chiese cattedrali, al proprio artista ufficiale, ovvero Arnolfo. È così che nasce la facciata della cattedrale di Firenze - di cui, secondo Pace, spettano ad Arnolfo solo le sculture, non il progetto architettonico - in contrapposizione e in competizione con quella di Siena.
Il ruolo di Arnolfo quale innovatore dell'architettura e degli arredi ecclesiastici è ribadito da Sible de Blaauw che analizza i cibori di San Paolo e di Santa Cecilia in rapporto agli usi liturgici e nei confronti della tradizione dei cibori medievali.
Spetta invece a Valerio Ascani il compito di affrontare il difficile problema della formazione e della prima attività di Arnolfo. Sulla base di riscontri formali, in particolare in alcuni capitelli, Ascani rileva elementi cistercensi e legami con Volterra tra le possibili matrici del linguaggio arnolfiano. Lo studioso esamina inoltre l'eredità di Arnolfo in Toscana, le tracce del suo lessico, ad esempio, a Pisa, nella chiesa di San Francesco e nel ciborio di San Pietro a Grado.
L'ultima sezione del convegno è interamente dedicata a Santa Maria del Fiore. Anna Benvenuti e Timothy Verdon ne indagano gli aspetti cultuali, liturgici ed iconografici, nonché il ruolo simbolico all'interno delle dinamiche politiche del Comune fiorentino. La Benvenuti richiama in particolare l'attenzione sul processo che portò al cambiamento dell'intitolazione della cattedrale, da Santa Reparata a quella ben più prestigiosa della Vergine Maria. I temi mariani sono del resto onnipresenti negli apparati iconografici dei codici miniati in questo periodo per la chiesa, come mostra la bella relazione di Marisa Tacconi. Essi rappresentano inoltre una testimonianza fondamentale per la conoscenza dell'antica facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore, rappresentata nel Messale Edili della Biblioteca Laurenziana.
La conoscenza della tecnica e dello stile del grande artista si avvale inoltre oggi di uno strumento sempre più perfezionato: il restauro, come indica Enrica Neri Lusanna, curatrice della mostra di Firenze; la quale rivela anche alcune recentissime scoperte, come quella di un frammento di statua forse proveniente dall'antico protiro della cattedrale: il che ne suggerisce il paragone con un manoscritto - intricato palinsesto - di cui ci rimangono solo poche carte sciolte.

The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies
An International Conference
ARNOLFO'S MOMENT
26-27 May 2005
Villa I Tatti, Via di Vincigliata 26, 50135 Firenze

Arnolfo di Cambio, Santa Reparata (part.), Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

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