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Lo storico dell'arte: formazione e professioni. Scuola, università, tutela e mondo del lavoro

di Claudio Gamba (Associazione Bianchi Bandinelli)

(versione modificata e ridotta per "Predella" dell'intervento per la Presentazione degli Atti del convegno)

Roma, 9 giugno 2005

Il 15 novembre 2004 si è tenuto a Roma il convegno "Lo storico dell'arte: formazione e professioni. Scuola, università, tutela e mondo del lavoro". A distanza di soli sei mesi, come è tradizione dell'Associazione Bianchi Bandinelli che quel convegno ha promosso e fortemente voluto, sono ora stati pubblicati gli Atti della giornata, che contengono oltre agli interventi anche ulteriore utile documentazione, soprattutto in tema di formazione. A nome del gruppo organizzativo del convegno, composto da dieci storici dell'arte coordinati da Marisa Dalai Emiliani, riepilogherò in questo intervento le motivazioni che ci hanno indotto a organizzare l'iniziativa e traccerò un rapido quadro sull'attuale situazione in materia di riconoscimento delle Associazioni professionali.
Il convegno era incentrato sul problema del nesso tra Formazione e Professioni, cioè sul legame (e non equivalenza) che dovrebbe esserci tra la sfera formativa e quella lavorativa, nesso che invece, in particolare nel settore dei Beni Culturali, risulta essere molto debole: da una parte il mondo delle professioni è sempre più indifferente ai titoli formativi, sfrutta e avvilisce le alte competenze, precarizza il presente e genera angoscia per il futuro, dall'altra l'Università tende a snaturare le sue funzioni per rincorrere un modello di precoce professionalizzazione, salvo poi dimenticare di verificare cosa e quanto il mondo del lavoro possa realmente assorbire. Si genera così il paradosso di volere a tutti i costi una immediata specializzazione che non porta benefici né alla formazione né alle professioni: "la specializzazione non può essere scelta all'inizio, - scrisse Argan nel 1991 - ma solo al compimento di un organico corso di studi. Una specializzazione preliminare non è l'approfondimento di una disciplina, ma semplicemente l'ignoranza del resto: invece di essere un vertice è la distruzione di una base".
Il secondo elemento che volevamo evidenziare nel titolo del convegno era la centralità, prima ancora che della Storia dell'arte, dello Storico dell'arte. Da molti anni infatti si discute di tutela e di valorizzazione dei Beni Culturali, concentrando giustamente l'attenzione sui beni in pericolo ma trascurando chi di quei beni deve o dovrebbe occuparsi, la questione del "chi fa che cosa". Noi volevamo ribadire che i beni non si proteggono e non si salvano se non ci sono persone che li conoscono e che diffondono strumenti per conoscerli, specialisti che vengono invece sempre più emarginati o sottoutilizzati o utilizzati sotto falsi travestimenti che li rendano più appetibili o sfruttabili.
Se proprio dovessimo ricorrere alla nota e abusata metafora petrolifera dovremmo dire che i "giacimenti" dell'Italia sono anche composti da quell'insieme di conoscenze che fanno sì che gli oggetti e i contesti che costituiscono i Beni Culturali non rimangano inerte materia ma si colleghino alla dimensione identitaria, di conoscenza e di memoria del Paese. Insomma il "tesoro degli italiani", per usare la demagogica formula del nostro ex ministro, non è costituito solo dal patrimonio ma anche da chi permette a quel patrimonio di avere valore, cioè chi da una parte ne garantisce la sopravvivenza e l'integrità e chi dall'altra (ma i due processi sono indissolubili) ne riscopre i significati e ne ricostruisce la storia. Fanno parte del "tesoro" quindi le competenze degli storici dell'arte, così come quelle degli architetti e degli archeologi, degli archivisti e dei bibliotecari, degli storici e dei demoetnoantropologi, dei restauratori e di quanti concorrono, anche nelle discipline scientifiche, alla tutela e alla conoscenza. Per quanto utili alla gestione economica, le strategie di marketing e di coercizione pubblicitaria non possono sostituire queste competenze: la pubblicità si basa sul consumo mentre, lo sappiamo tutti, i Beni Culturali possono essere fruiti, non consumati. Quello che produce ricchezza, dobbiamo ripeterlo fino alla nausea, non è il bene in sé ma l'indotto che si genera attorno ai Beni Culturali, e nel generare questo indotto gli storici dell'arte sono elemento fondante e non accessorio.
Non si può, è evidente, staccare la riflessione sugli storici dell'arte da quella generale sulla storia dell'arte, della quale non si dà definizione che non sia tautologica: la storia dell'arte è ciò che la comunità degli studiosi, in relazione anche alle altre discipline del sistema del sapere, sono d'accordo nel ritenere che essa sia. Gli storici dell'arte sono da una parte "formati" dalla storia dell'arte, cioè da una tradizione di studi, dall'altra la "formano", cioè ne elaborano e ne modificano lo statuto disciplinare. La storia dell'arte non è una forma eterna del pensiero o una condizione immanente del sapere, è un prodotto storico e in quanto tale pone il suo destino nelle mani degli uomini: come è nata, attraverso il faticoso processo che tutti conosciamo, così può morire e finire tra le discipline non resuscitabili, oppure, ma è lo stesso, snaturarsi e negarsi a tal punto da diventare altro da sé. Non è escluso, lo vediamo anzi giorno per giorno, che di quelle cose e contesti di cui finora si sono occupati gli storici dell'arte, in futuro se ne occupino in modo esclusivo altre figure del tutto diverse e lontane dalla storia del nostro patrimonio. Noi siamo convinti però che il meccanismo del consumo dei beni non potrà portare ad altro che a un progressivo depauperamento del patrimonio e della stessa società, perché questa psicosi della degustazione immediata dei Beni Culturali, della fruizione inconsapevole e fugace, dell'effimera politica degli eventi, non produce una crescita civile ma solo un movimento di denaro.
E allora gli storici dell'arte devono riaffermare la centralità e non sostituibilità del loro operato e debbono farlo senza giocare al ribasso, cioè senza dequalificare la propria identità professionale fino all'indistinguibile. Per questo alcune mansioni, come tutte le forme della didattica, non possono essere affidate a operatori di cui non si conoscono i percorsi formativi. Bisogna essere molto chiari su questo, non è che tutti possono fare tutto, non è che in un ospedale l'incaricato delle pulizie, già che c'è fa anche un prelievo o opera un trapianto. Servono regole e chiarezza, e regole che nel sistema delle esternalizzazioni e nel processo di decentramento siano uguali per tutti. Dobbiamo quindi insistere, come fa uno dei punti della Mozione conclusiva del convegno, perché a partire da un atto d'indirizzo della Conferenza Stato-Regioni si giunga a definire "standard qualitativi omogenei per Stato, Regioni, Enti locali e per i privati che operano nel settore pubblico", e quindi per le Fondazioni e le Società di servizi, con la definizione di profili professionali "legati sì alle competenze ma soprattutto e con chiarezza ai percorsi formativi".
Oggi, infatti, il mercato del lavoro e le direttive europee tendono a spostare l'attenzione dalle 'professioni' alle 'competenze'. Ma cosa sono queste competenze di cui tanto si parla e su cui c'è, non a caso, tanta confusione e fluttuazione di significati? Sono l'insieme dei saperi che costituiscono le specifiche abilità di ogni uomo e donna, oppure sono l'elenco delle 'esperienze lavorative'? Insomma la laurea, la specializzazione e il dottorato sono o non sono competenze? La visione che prevale nel mercato del lavoro è quella di ritenere i titoli di studio solo requisiti accessori per l'ingresso nel mondo delle professioni, mentre la vera formazione è quella permanente che si acquisisce sul campo; lo dimostra l'insistenza per collocare, accanto allo studio, tirocini o stage presso le aziende, perché solo questi fornirebbero competenze spendibili.
È la ragione per cui i titoli di studio stanno sparendo dai requisiti dei concorsi, spesso attraverso la formula subdola dell'equivalenza con altri titoli (la laurea e/o altro; un discorso a parte andrebbe fatto poi per i master). Noi vogliamo ribadire che nessuna esperienza lavorativa può sostituire quella coscienza che viene da un iter formativo universitario prolungato e approfondito; se proprio si vuole spostare l'attenzione sulle competenze, per garantire maggiore flessibilità al mercato del lavoro, bisogna però affermare che i titoli di studio e in particolare quelli di specializzazione sono, non solo competenze non intercambiabili con altre, ma anche presupposto di altre competenze, le quali non si possono acquisire senza prima sentirsi parte della storia di una disciplina, di una tradizione di studi che per quanto frastagliata e frutto di lotte e divisioni ha pur sempre una sua identità.
Il discorso sulle competenze ci porta dritti dritti al problema di chi deve o può certificare queste competenze, perché il futuro è tutto in questa direzione. Dieci anni fa si è avviato un processo che ha portato il CNEL (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) a istituire una Consulta e un Osservatorio sulle nuove professioni ('nuove' anche se centenarie) e a sollecitare le Associazioni che raccolgono i professionisti che non dispongono di un Ordine perché adottassero idonei statuti, curassero la formazione e l'aggiornamento professionale degli iscritti e garantissero il rispetto di regole deontologiche. Con questi requisiti le Associazioni potranno diventare uno dei pochi strumenti di tutela delle professioni non ordinistiche. Tra le Associazioni è poi nato un Coordinamento, il COLAP, che ha la finalità - recita lo statuto - di "riunire in uno spirito di collegialità e di mutua collaborazione le Libere Associazioni Professionali per ottenere il loro riconoscimento giuridico in ambito europeo, nazionale e regionale". Nonostante le molte promesse degli ultimi tre governi la Legge sulle professioni, circolante in molte bozze e versioni fino alla cosiddetta "Vietti bis", è stata ora accantonata. A sorpresa si è tentato di inserirne alcuni punti nel decreto sulla competitività, ma il riconoscimento delle Associazioni che vi era contenuto si è presto rivelato una trappola perché abbinato all'estensione del potere degli Ordini e le molte opposte reazioni negative, venute sia dal COLAP (che ha istituito un'unità di crisi) che dagli stessi Ordini che si sentono minacciati, nonché la bocciatura dell'Antitrust, hanno fatto saltare questa parte del decreto, e l'ex sottosegretario alla Giustizia Vietti ha infine dichiarato che per questa legislatura non se ne farà niente. Tuttavia una Legge nazionale è veramente urgente, anche perché alcune Regioni, come la Lombardia e la Toscana, hanno già emanato delle disposizioni in materia di Libere Professioni prevedendo la creazione di registri regionali delle Associazioni, e si rischia il caos più totale. Inoltre negli stessi giorni in cui saltavano i commi del decreto sulla competitività (maggio 2005), il Parlamento Europeo approvava una direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali, suddividendole in cinque livelli e rendendo così più facile la circolazione dei professionisti; una direttiva che, per quanto non intacchi i sistemi nazionali, sollecita però il superamento del nostro sistema duale Ordini-Associazioni che non ha riscontro nel resto d'Europa. Insomma in futuro gli Ordini dovranno diventare più elastici e flessibili e le Associazioni molto più rigorose.
In questa logica di libera concorrenza, il COLAP riunisce al suo interno Associazioni che in parte o in tutto si sovrappongono come campo di professionisti; così, per rimanere al nostro caso, sono entrate nel COLAP l'ANASTAR, che è l'Associazione Nazionale degli Storici dell'Arte (ma sostanzialmente ristretta all'ambito romano), l'ANACONS, che riunisce i laureati in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali (attiva in Calabria), l'Associazione "ARTICOLO 9 - Professionisti dei Beni Culturali" che raccoglie laureati delle Facoltà di Beni Culturali (per ora limitata all'ambito napoletano), e infine da ultimo l'ASSOTECNICI (storica associazione dei tecnici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali); di recente si è costituita anche una CONFEDERAZIONE ITALIANA ARCHEOLOGI che ha intenzione di entrare nel COLAP. Durante gli Stati Generali del COLAP, che si sono tenuti nel maggio 2004, è stato organizzato un incontro tra le diverse Associazioni che in qualche modo afferiscono all'area culturale, incontro che è stato possibile grazie all'opera organizzativa dell'Associazione Italiana Biblioteche. Per completare il quadro bisogna però ammettere che al contrario dell'AIB, che opera da 75 anni ed ha oltre quattromila iscritti (e dal 1998 ha creato un albo che conta oggi quasi un migliaio di bibliotecari), lo stato di salute delle nostre Associazioni è tutt'altro che buono. Attualmente gli storici dell'arte sono rappresentati dall' ANASTAR, fondata nel 1999: va riconosciuto il merito dei fondatori e dei primi sostenitori di questa associazione, e il traguardo raggiunto in breve tempo dell'entrata nella Consulta del CNEL e di conseguenza l'adesione al COLAP. Questo merito non deve però far passare in secondo piano il fatto che da qualche tempo l'Associazione si trova in uno stato di ristagno che ne impedisce un vero decollo con l'avvio di una attività a ritmo serrato e una vera rappresentatività sia dal punto di vista numerico, che tipologico, generazionale e soprattutto geografico. E qui la colpa non è tanto e solo del consiglio direttivo quanto degli storici dell'arte in genere che non si vogliono prendere a cuore questa situazione.
Con queste premesse mi sembra che oggi sia quanto mai urgente un rilancio delle Associazioni che dovrebbero raccogliere le professioni dei Beni Culturali, come è stato auspicato anche nella Mozione conclusiva del convegno: è necessario far finalmente funzionare una Associazione professionale di storici dell'arte (in coordinamento certo con le altre Associazioni che riguardano i Beni Culturali presenti nel COLAP). È inoltre auspicabile una forma più generale di raccordo e di dialogo con i professori della Scuola e dell'Università, cioè con l'ANISA (Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell'Arte) e la Consulta dei docenti universitari di Storia dell'arte che si è costituita di recente.
Non bisogna aver paura che per tutte queste forme di coordinamento si possa essere tacciati di difese corporative, dacché gli storici dell'arte hanno dentro di sé il germe atavico delle divisioni e la ricerca di po' d'unità servirà appena da correttivo. In questo gli storici dell'arte si differenziano, ad esempio, dagli architetti, che hanno un loro albo con centomila iscritti e lo hanno anche perché sono abituati a lavorare in gruppo: infatti l'architetto 'progetta' mentre il critico (e uno storico è sempre un critico) 'distingue', cioè individua e separa. Ma oltre che critici siamo appunto storici e lo storico riconduce all'unità del discorso i frammenti del passato, e se non vogliamo la sparizione della nostra disciplina è bene che una volta tanto prevalga questa nostra, diciamo, "competenza" e si superino divisioni e immobilismi.

 

Il patrimonio culturale in Francia

Giornata di Studio, Scuola Normale Superiore di Pisa, 24 maggio 2005

di Veronica Carpita

Con il titolo "Il Patrimonio culturale in Francia" si è tenuta lo scorso 24 maggio, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, una giornata di studio organizzata dal Laboratorio Interdisciplinare per il Patrimonio culturale.
Come ha puntualmente illustrato Salvatore Settis nella sua introduzione, l'incontro si inscrive nell'attività che da circa un anno sta svolgendo questo Laboratorio della Scuola Normale, diretto prima da Paul Zanker e attualmente dallo stesso Settis. Questo giovane gruppo di lavoro è nato come "modesta ma strutturata reazione" al contesto istituzionale preoccupante che in Italia, da qualche anno a questa parte, grava sui beni culturali e sugli operatori del settore. Di fronte ad "una guerra di parole che rischia di sommergere i fatti", la creazione di questo piccolo Laboratorio ha come scopo quello di "avviare una riflessione che parta dai fatti, ma che si misuri anche con le parole". In base al presupposto che i problemi dell'attualità, anche più spicciola, vadano compresi proiettandoli in una dimensione più ampia nello spazio e nel tempo, il Laboratorio ha iniziato a raccogliere sistematicamente tutta la normativa sui beni culturali (recente e storica) prodotta dallo Stato e dalle regioni italiani, come anche dai paesi europei. Fra quelli fino ad oggi presi in considerazione nel lavoro di raccolta (Francia, Spagna, Gran Bretagna, con un prossimo allargamento alla Germania, alla Russia e ad alcuni paesi del bacino del Mediterraneo), la Francia costituiva un logico punto di partenza per l'esplorazione della situazione relativa ai beni culturali. Da un lato infatti la Francia ha prodotto una significativa ed originale elaborazione della nozione di patrimonio culturale, dall'altro esistono molteplici punti di contatto e di scambio tra questo paese e l'Italia: basti pensare, ha ricordato Settis, al trauma della rivoluzione in Francia e delle requisizioni napoleoniche in Italia come comune elemento che ha innescato una riflessione straordinariamente interessante sul patrimonio, il cui maggior esponente fu Quatremère de Quincy.
Presieduta da Philippe Sénéchal, la sessione mattutina è stata aperta da Dominique Poulot con un intervento intitolato "La naissance de l'idée de patrimoine en France de la Révolution à la monarchie de Juillet". Dapprima simbolo della comunità, oggetto di attrazione dei viaggiatori del Grand Tour, studiato dagli eruditi, disegnato e reinterpretato dagli artisti, Poulot ha evidenziato come nella Francia rivoluzionaria il monumento acquisisca un nuovo ruolo politico-ideologico. Il passaggio dal vandalismo rivoluzionario al controllo di Stato (con Guizot e la monarchia di Luglio) segna il successivo farsi strada di un rapporto storico con il monumento e non piùi ideologico.
Il giurista Pierre-Laurent Frier è intervenuto ad illustrare le tappe salienti della produzione legislativa dell'ultimo secolo, in particolare dalla fondamentale legge del 1913 al "Code du patrimoine" del 2004. Organizzando l'intervento in due macro-temi, il patrimonio immobile e quello mobile, Frier ha efficacemente illustrato da un lato il progressivo ampliamento del concetto di patrimonio immobile dal monumento isolato al perimetro di rispetto, all'insieme urbanistico o rurale; dall'altro l'ampliamento della tutela anche ai beni mobili privati con la legge del 1913, e la progressiva organizzazione dello statuto dei beni mobili demaniali fino ai nostri giorni.
Alain Schnapp e Michel Gras hanno entrambi affrontato il tema delle "antiquités nationales". Schnapp si è concentrato sul problema delle indagini archeologiche fino al Regime di Vichy, offrendo nuove interessanti chiavi di lettura del ritardo storico delle pratiche archeologiche e della attinente legislazione in Francia. Gras ha efficacemente ripreso il tema sviluppato dal collega portandolo fino alle più recenti e dibattute normative in materia di archeologia preventiva, tema di attualità anche in Italia dalla nomina del nuovo ministro Buttiglione.
L'interessante dibattito che ha concluso i lavori della mattina ha messo in luce, fra le altre cose, che l'uso della parola "patrimoine" è abbastanza recente: mai comparsa nelle diverse costituzioni francesi, l'espressione è impiegata per la prima volta nella legge del 24 luglio 1959 con la quale si creava il primo ministero incaricato degli Affari culturali.
In apertura della sessione pomeridiana, ha preso la parola Roberto Balzani che, nel suo intervento "Tutela del patrimonio, "politiche della bellezza" e identità nazionali fra '800 e '900: un confronto fra Italia e Francia", ha ricostruito l'"uso politico" dei beni culturali (tanto artistici quanto naturali) condotto da Barrès e D'Annunzio nel periodo delle crisi di fine Ottocento. Al giurista Sergio Foà è toccato il compito di introdurre una riflessione sull'attuale struttura amministrativa francese competente in materia di patrimonio, proponendo un confronto con quella italiana. Dal conseguente dibattito sorto intorno a questo tema, è parso evidente che il processo di decentramento in materia di patrimonio in Francia è controllato e coordinato dallo Stato con maggior coerenza di indirizzo di quanto invece avvenga in Italia dove, a partire dal Decreto legislativo n. 112 del 1998 che disciplina il "Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali", la Corte Costituzionale è costretta a dirimere numerosissimi casi di disfunzioni amministrative in materia di legislazione concorrente.
Ha chiuso la giornata di studio Daniel Soutif illustrando un tema anch'esso molto importante sul quale Francia e Italia possono confrontarsi: il patrimonio contemporaneo nei musei e nelle collezioni pubbliche. I numerosi dati offerti dal relatore hanno ben evidenziato la sproporzionata distanza tra la Francia che può contare su una lunga tradizione museale supportata da strutture recenti (Délégation aux arts plastiques e Frac), e l'Italia dove non esiste una tradizione simile e dove la nuova creazione della DARC e di alcuni nuovi musei (il Castello di Rivoli, il Mart di Trento, il Centro per l'arte contemporanea Pecci di Prato e il prossimo MAXXI di Roma) ancora deve essere rafforzata e dotata di regole e strumenti d'azione.
La pubblicazione degli atti è prevista per la fine del 2005, inizi del 2006, e sarà arricchita da altri interventi volti a presentare alcuni temi e dibattiti patrimoniali che, per limiti di tempo, la giornata pisana non poteva affrontare.

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