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Predella: in vista di un numero speciale

A quattro anni dall'uscita del primo numero (marzo 2001), e con il quindicesimo ora in linea, "Predella" può annunciare ai propri lettori un'iniziativa programmata per il prossimo numero, previsto per ottobre: uno speciale monografico dedicato al tema delle mostre, eccezionalmente destinato ad essere pubblicato anche in forma cartacea, oltre che, come di consueto, su internet.
Il tema, di grande attualità (basti ricordare il pungente editoriale del "Giornale dell'arte" dello scorso aprile, eloquentemente intitolato "Moltiplicazione dei pani e delle mostre"), verrà affrontato da una pluralità di punti di vista, volti a evidenziarne la complessità e la problematicità in tutte le sue sfaccettature. Un insieme di autorevoli studiosi, appositamente invitati a collaborare, tratteranno delle varie tipologie di mostre con contributi brevi ma densi e mirati, in termini critici e non compiacenti.
Saranno così discusse le mostre cronologicamente definite, da quelle di arte antica a quelle di arte contemporanea - passando per quelle di arte medievale, moderna e dell'Ottocento italiano -; le mostre di architettura, di fotografia, quelle di arti applicate, di miniatura; le mostre legate alle arti dello spettacolo, dal teatro e dalla scenografia al cinema, alla videoarte e alle arti multimediali in genere. Saranno inoltre analizzati temi intimamente connessi con l'organizzazione e l'attività espositiva, dalle implicazioni economico-finanziarie alla pubblicità, dalla regolamentazione legislativa - ad esempio dei prestiti e degli spostamenti delle opere d'arte - alla didattica, per arrivare al biglietto d'ingresso e al catalogo.
Sarà investigato il rapporto tra mostre, musei e territorio, attraverso i casi esemplificativi, nella loro diversità, delle mostre organizzate dalle Soprintendenze territoriali e dell'attività espositiva legata a singole istituzioni. Un approfondimento sarà poi dedicato al confronto tra le mostre italiane e quelle allestite nel mondo anglosassone.
Come si vede, un insieme ben nutrito e articolato di contributi che, ce lo auguriamo, possa suscitare l'attenzione dei lettori e stimolare il dibattito, sia tra gli studiosi che tra i non specialisti, su di un tema, o meglio forse dovrebbe dirsi su di un 'fenomeno' che, interessi o meno, ha assunto proporzioni tali da non poter esser più eluso da chi intenda coscienziosamente interrogarsi su quello che oggi significa, e su quello che comporta, "fare cultura".

La Redazione

Letteratura e arte/ 1

La sovrabbondante tridimensionalità di Paolo Volponi

di Fabio Rocchi

Nell'opera dello scrittore Paolo Volponi (1924-1994) numerosi sono i riferimenti all'arte pittorica. Coltivata con passione da antiquario e da collezionista, la costante attrazione verso l'arte figurativa contraddistingue una dimensione complementare all'interno dell'esperienza di una delle personalità più stratificate nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento: alto dirigente d'azienda alla Olivetti e alla FIAT, poi parlamentare nelle liste di Rifondazione e, contemporaneamente, romanziere, saggista, poeta, intellettuale in senso pieno, assieme, appunto, alle ulteriori determinazioni relative al ruolo di collezionista appassionato e di intenditore d'arte.
È inevitabile che il versante letterario venga così contaminato attraverso alcune sensazioni desunte da quello pittorico. Tralasciando volutamente i molteplici riferimenti che vengono offerti soprattutto all'interno degli otto romanzi scritti da Volponi - nei quali è possibile ritrovare, commentati e citati, dipinti realmente esistenti -, vorrei soffermarmi su alcune considerazioni relative ai periodi che più influenzarono la capacità percettiva dello scrittore: sto parlando del manierismo e del Seicento caravaggesco. Mi pare, infatti, che all'interno di questi due ambiti vengano poi rielaborate in sede narrativa alcune suggestioni che hanno una ricaduta prima di tutto formale. Da una personale concezione del manierismo, Volponi recupera una peculiarità fondamentale, relativa al rapporto con una tradizione che potremmo definire classica in un senso perenne: il capolavoro viene cioè metabolizzato e riprodotto attraverso un filtro in grado di restituire le sue forme in maniera distorta, ossessionante nella ricerca del dettaglio. Un ricordo privato riportatomi dal professor Romano Luperini, amico e importante interprete dello scrittore, racconta una coinvolgente lettura della "Deposizione" di Volterra del Rosso Fiorentino, nella quale Volponi metteva in evidenza proprio i dettagli tipici di quella ricerca dello spazio deformato di cui stiamo parlando. In questo tratto risiede tutta la forza dell'espressionismo di Volponi, capace di dare vita a raffigurazioni inquiete, connotate da espedienti formali che alla ricerca dell'equilibrio stilistico - ad esempio mirabile in Calvino - sostituiscono quella della sovrabbondanza e dell'accumulazione caotica. La pagina di Volponi è programmaticamente imperfetta e difficile, dominata da una concezione dello spazio che ricerca non una disposizione sistematica e razionale degli oggetti, ma l'illogica congestione dei volumi. La sovrapposizione si sostituisce così, all'interno delle possibili opzioni retoriche, all'enumerazione ordinata. La lettura di Masaccio, al quale Volponi dedicò uno scritto destinato a fungere da introduzione al catalogo della collana "I Classici dell'Arte" Rizzoli, è non a caso giocata, e talvolta forzata, a partire dal dato della tensione spasmodica, dell'equilibrio che appare collocato su un punto di imminente rottura: "ogni figura scaturisce ed è fissata nella sua stessa ansia, disposta in un ambiente che è quello vero, assunto per la sua verità fino allo spasimo". Volponi, dunque, ne "Il principio umano della pittura-scienza" rilegge, ad uso e consumo di una propria idea di raffigurazione pittorica dominata dall'inquietudine, un maestro del Quattrocento; ne isola l'elemento di apparente, ma per lui vibrante, "ansiosa emergenza": così Roberto Longhi, che influenza la sua impostazione di lettore dell'opera d'arte, e che compare tra l'altro citato in un passo del romanzo "Le mosche del capitale". La sua impostazione anti-naturalistica è spontaneamente affine alle tendenze volponiane, assai adatta per costituire uno dei riferimenti privilegiati, assieme a Fortini, in questa particolare teoria della narrativa.
Se Piero della Francesca, - un altro pittore del Quattrocento esplicitamente legato a quel cronotopo urbinate che costituisce una parte fondamentale dell'immaginario poetico di Volponi -, viene chiamato in causa con la sua "Flagellazione" per riflettere sulla possibilità del buon governo del territorio secondo un'utopia di matrice rinascimentale più volte inseguita attraverso ambizioni riformiste, scevra da implicazioni ideologiche è invece l'evocazione della pittura del Seicento, in particolare dei caravaggeschi. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad alcune preziose indicazioni di carattere formale, che arricchiscono la tecnica compositiva e descrittiva messa in atto nella pagina di Volponi. La cupa e drammatica raffigurazione di fondali senza determinazione, e l'improvviso e talvolta innaturale getto di luce che attraversa lo spazio e ne mette in risalto i dettagli in primo piano, è una costante che viene recuperata e approfondita anche e soprattutto in scene dal valore allegorico - altro evidente portato desunto dall'arte pittorica e dal duplice valore conferito alla risorsa della descrizione. Il cavallo imbalsamato de "La strada per Roma" e la straordinaria scena della tromba marina in "Corporale" ne sono testimonianza.
Giova non poco rileggere il procedimento stilistico di Volponi alla luce di queste influenze. Le costanti della deformazione e dell'accumulazione contribuiscono nell'elaborare quello che potrebbe essere denominato il paradigma della sovrabbondanza. Una sovrabbondanza che però non si limita allo spazio concesso dal limite descrittivo imposto dalla pagina. L'iconismo verbale, di chiara matrice espressionista, si compenetra con l'ambizione ad una raffigurazione totalizzante, in cui la ricerca del dettaglio venga privilegiata. Volponi insegue cioè l'ideale di un'opera che sia in grado di incorporare, quanto più possibile, il reale, in maniera vorace e onnivora. Il tentativo di una mimesi di così vasta portata induce spesso all'errore strutturale, al caos, alla schizofrenia progettuale che si traduce poi in evidenti squilibri tra le varie sezioni, appartenenti ad iper-narrazioni visionarie e contorte. Ma se questa riflessione viene integrata dalle annotazioni relative all'influenza pittorica del periodo manierista e di quello dei caravaggeschi, il dato di fatto assume senza dubbio connotazioni polisense. Di qui l'idea di una sovrabbondanza tridimensionale, capace di forzare il dato di realtà per avventurarsi in direzioni altre, in più di un senso profonde, prospettiche. Volponi agglomera spunti eterogenei, nella sua ansia di dire e di riprodurre l'esistente accosta grumi di significato e di materia, inseguendo, in uno sforzo conoscitivo senza soste, la sporcata imperfezione tipica ad esempio del modernismo, assieme ad una concezione dell'esistenza parziale e sempre transitoria e irrilevante, perché privata di unitarietà e progettualità. La crisi dell'esperienza, tipica delle poetiche posteriori al trauma della fine del moderno, è infatti il quadro di riferimento in cui Volponi è costretto a collocare la propria ricerca di senso, assieme al proprio tentativo di rilanciare, attualizzandola, una rivoluzione formale in realtà datata, correlata al trauma da cui la cultura e la consapevolezza europea sono attraversate da più di un secolo. L'angoscia e la parzialità del dettaglio stravolto e straniante - nel manierismo ad esempio indizio di un'euforia e di un sovvertimento non solo legati all'arte - sono per questo ancora intese come le uniche vie per un'ermeneutica del mondo.

Per approfondimenti specifici sul tema, rimando ad alcuni riferimenti bibliografici: E. CAPODAGLIO, "La qualità storica della luce: "La strada per Roma" di Paolo Volponi", in "Strumenti critici", n. 5, 1994, pp. 49-79; M. MANGANELLI, "Volponi tra scrittura e pittura", in "L'immaginazione", n. 143, 1997, pp. 25-26; G. SANTATO, "Follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa di Volponi", in "Paolo Volponi. Il coraggio dell'utopia", Transeuropa, Ancona 1997, pp. 90-92; E. ZINATO, "Tra scrittura e pittura", in "P. Volponi, Romanzi e prose", a cura di E. ZINATO, Einaudi, Torino 2002, pp. XIX-XXII; F. ROCCHI, "Il mito urbinate", in ID., "Paolo Volponi in video. Note sulle apparizioni televisive dello scrittore", contenuto in "E Volponi ci manca", "Hortus", n. 27, 2004, pp. 54-56; M. MANGANELLI, "Con dipinto a fronte", in "Istmi", 15-16, 2004-2005, pp. 385-401.

Rosso Fiorentino, Deposizione, Volterra, Pinacoteca Civica

 

Letteratura e arte/2

Luigi Capuana e Sebastiano del Piombo: una declinazione eccentrica del tema del ritratto animato in letteratura

di Annamaria Loria

Quello del quadro o della statua che si anima è uno dei temi tipici, e senz'altro a più alto potere perturbante, che la letteratura fantastica annovera. Il simulacro della forma vivente che si sostituisce ad essa o ne assume le prerogative, con effetti sempre nefasti per i personaggi, è vicenda che si ripropone attraverso una serie di testi noti e meno noti. Il pensiero corre subito a "La Venere d'Ille" di Prosper Mérimée, alla terribile statua che (forse) si anima, sposa vendicativa, per assassinare Alphonse. Altro esempio di rara bellezza è "Il ritratto ovale" di Poe, in cui troviamo lo specifico tema del ritratto animato in una delle sue più tipiche declinazioni: quella del potere vampirico esercitato dall'immagine sul modello, motivo che coniuga l'effetto sinistro collegato al ritorno di credenze animistiche superate (come Freud insegna) alla problematica, tutta moderna, dell'estetismo e della separazione fra vita e arte. Non ci sarebbe neanche bisogno di richiamare alla memoria il celebre romanzo di Oscar Wilde, in cui il tema fa il suo ingresso secondo la variante del 'dipinto rivelatore': lungi dal suggere energia vitale a Dorian Gray, il ritratto animato si fa specchio della vecchiaia e del vizio che invisibilmente corrompono il protagonista, e il tema è così reimpiegato in chiave allegorico-moralistica.
Non ce ne sarebbe bisogno, se non fosse che il testo di Wilde, come quello di Poe del resto, vengono presi a modello e al contempo sistematicamente variati da un racconto sicuramente meno noto, ma non per questo privo d'interesse: "La redenzione dei capilavori", che Luigi Capuana pubblica nella rivista "Natura ed arte" nell'aprile del 1900. Se non sorprende che il tema del ritratto animato sia penetrato anche nella tradizione letteraria italiana (perché, sebbene in ritardo rispetto al contesto europeo, anch'essa finisce per conoscere una modesta fioritura del filone fantastico), sorprende sicuramente di più che a farne oggetto di narrazione sia proprio l'autore che nella vulgata scolastica è celebrato quasi esclusivamente come fautore e primo araldo del verismo. Ma l'elemento veramente sorprendente del racconto, anche alla luce della tradizione letteraria cui fa capo, è che il ritratto che si anima è questa volta un quadro reale: il 'ritratto d'ignota' di Sebastiano del Piombo, che un vecchio professore di fisiologia fa trafugare dagli Uffizi per condurvi le proprie pratiche mesmeriche. Quindi, con ogni probabilità, il dipinto è da identificare con l'unico ritratto femminile del Luciani presente alla galleria degli Uffizi anche all'epoca della stesura del racconto, il ritratto ancor oggi designato come "la Fornarina", sebbene sia stata smentita definitivamente l'antica attribuzione a Raffaello e la conseguente identificazione della donna con la presunta amante del pittore, Margherita Luti, figlia di un fornaio romano.
Che ad entrare nel testo capuaniano sia proprio l'intensità e la tensione plastica di un ritratto femminile di Sebastiano del Piombo datato 1512, sicuramente non è un caso. Consideriamone, infatti, la trama. L'anziano dottor Maggioli, nel salotto della baronessa Lanari, racconta al gruppo di uditori lì riunito una singolare vicenda occorsagli in gioventù, che starebbe a provare una teoria altrettanto singolare ma di cui si rivendica la 'scientificità': le opere d'arte esteticamente riuscite, in grado di suscitare l'illusione della vita nonché grandi passioni, tali da condurre in più di un caso alla follia, non sarebbero meri simulacri di modelli viventi, bensì esseri dotati di energia vitale propria, che l'artista, non diversamente dal Dio creatore, avrebbe trasfuso entro un mezzo fisico imperfetto (tela, marmo…), ove essa rimane come in incubazione, e da dove potrebbe essere liberata e resa autonoma grazie alla trasfusione di energia vitale ulteriore. Questa la tesi sostenuta dal professore di fisiologia su ricordato, del quale il giovane Maggioli, studente, viene ammesso ad osservare i segreti esperimenti sul ritratto di Sebastiano Luciani: su di esso ricade la scelta del professore perché, come più avanti spiegherà, condizione indispensabile per la riuscita dell'esperimento è che il capolavoro susciti una vivissima impressione sull'operatore. Lo studente, inizialmente scettico, convinto di essere vittima di un'allucinazione, deve alla fine convincersi della realtà dello straordinario fenomeno cui assiste: il professore, esercitando sul dipinto la pratica del magnetismo, giorno dopo giorno, sta portando a compimento l'opera d'animazione della bellissima donna ritratta. Dopo l'improvvisa morte del professore, infine, accade un evento che conferma pienamente la teoria esposta: il giovane Maggioli, rivedendo la tela, vi scopre il volto della donna orribilmente deformato, come se l'energia vitale che vi si stava trasfondendo, venuta meno la sua fonte, fosse stata sottratta tutta insieme al dipinto.
Dietro l'apparente semplicità della vicenda, si nasconde una fitta trama di motivi e innovazioni. Il finale de "Il ritratto di Dorian Gray" è palesemente ripreso e al contempo capovolto, eppure l'esibito richiamo intertestuale non conserva nulla degli intenti allegorici del testo di Wilde. D'altra parte, anche il motivo del ritratto dotato di funesti effetti vampirici sul rispettivo modello (o sull'autore) è sì richiamato ma variato nella struttura diegetica del racconto, e soprattutto non si fa portatore né del sentimento perturbante collegato all'infrazione dei confini fra animato e inanimato, né delle complesse problematiche cui solitamente fa capo il tema nella tradizione europea. Il fatto è che Capuana, in questo come negli altri suoi racconti a tema soprannaturale, riprende alcuni elementi tipici del codice fantastico per reimpiegarli in un'altra chiave, strettamente connessa al contesto storico e ideologico in cui opera nella fase tarda della sua attività letteraria. Oggi si sottovaluta la reale incidenza, nella cultura italiana ed europea della seconda metà dell'Ottocento, del fenomeno che va sotto il nome di 'spiritismo' e che tentava di giustificare l''oggettività' dei fenomeni medianici e mesmerici postulando l'esistenza sia degli spiriti di defunti sia di un'occulta forza psichica; esistenza ritenuta dimostrabile applicando il metodo positivo che il secolo ereditava da uno scientismo non più rifiutabile ma neanche più accettabile come integralmente materialista. Capuana, com'è noto, non fu immune a questo contagio culturale, e fu anzi autore, oltre che di una serie di articoli, anche di due testi di divulgazione 'scientifica', "Spiritismo" nel 1884 e "Mondo occulto" nel 1896: nel secondo afferma recisamente di credere all'esistenza degli spiriti, nel primo non si spinge ancora a tanto ma sostiene di credere comunque all'esistenza di quella energia psichica a-razionale che, manifestandosi in gradi diversi, sarebbe produttrice di fenomeni che vanno dalla creazione artistica alla telecinesi e all'ipnosi. È ancor più singolare notare come questi testi, le tesi in essi contenute e le storie portate a loro riprova, costituiscano un puntuale canovaccio per la narrativa a tema soprannaturale che l'autore riprenderà a coltivare proprio nel 1900, e di cui anche il nostro racconto fa parte. È evidente, a questo punto, come Capuana giochi col canone fantastico, immettendosi entro una precisa tradizione letteraria per trascenderla e modificarla in senso spiritista o fantascientifico, e dunque come i suoi racconti siano importante e rara testimonianza dell'evoluzione del genere in Italia. Ed è allora significativo che proprio all'interno di un simile corpus si collochi un racconto eccentrico rispetto al filone fantastico e, insieme, rispetto al tema specifico del ritratto animato: non ultimo per la scelta di una tela realmente esistente. Ora, se il racconto deve provare la plausibilità di una teoria della creazione artistica che fa capo ad un'esistente 'energia psichica', e se questa si manifesterà solo in opere esteticamente riuscite e di rara suggestione, non meraviglia allora che la scelta del testo ricada su un ritratto del Luciani collocabile esattamente a cavallo fra l'esperienza veneziana e quella romana del pittore. Nel dipinto, infatti, egli riesce a coniugare mirabilmente il forte senso plastico derivante dai passaggi chiaroscurali che mutua dai nuovi esempi raffaelleschi e michelangioleschi, con l'intensità e il calore della pittura tonale su cui si era formato nell'ambiente di provenienza, dominato dalle figure di Giorgione e del Bellini. Il prodotto reale di una simile perizia tecnica e coloristica viene perciò eletto, in sede d'invenzione narrativa, a modello per eccellenza del 'ritratto animato', del simulacro dalla cui perfezione arriva a trapelare il bagliore della vita.
Si può notare per inciso un'altra singolare occorrenza, a riprova della consonanza fra la ritrattistica femminile del Luciani e il nostro suggestivo tema letterario. Attorno al 1923, in tutt'altro contesto geografico e culturale rispetto a quello capuaniano, un ancora giovane autore, Vladimir Nabokov, sceglie, come ritratto animato per il proprio racconto, una tela di Sebastiano del Piombo. Si tratta de "La veneziana", in cui un narratore onnisciente gestisce, fra piano narrativo e metanarrativo, una trama che occhieggia in chiave velatamente parodica alle convenzioni del fantastico, e in cui anche il tema del quadro animato subisce ulteriori variazioni. Ma al di là delle peculiarità di questo notevolissimo racconto, importa rilevare come anche l'autore russo, in cerca di un reale ritratto che desse l'impressione della vita e suscitasse una magnetica attrazione, abbia introdotto nell'invenzione della fabula una tela del maestro veneziano databile, ancora una volta, attorno al 1512: la tela conservata allo Staatliche Museen di Berlino, nota alternativamente come "Giovane romana", "Dorotea" o "La vendemmiatrice".

Sebastiano del Piombo, Ritratto di donna, Firenze, Uffizi

 

 

 

 

 

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