L'Opera
Segreta: intervista a Mario Martone
di Andrea
Lanini
Caravaggio,
Leopardi, Ortese: tre sensibilità di non-napoletani che, in epoche
diverse e in diversi modi, si compenetrarono con l'essenza di Napoli e
con le sue tante facce, e che seppero cogliere, attraverso la trasfigurazione
permessa dall'arte, parte di un affascinante mistero nel quale finirono
per riconoscersi.
L'opera segreta, lavoro ultimo di Mario Martone (i testi sono di
Enzo Moscato: L'opera segreta è una sua raccolta tratta
dalle opere di Anna Maria Ortese), è un trittico che raccoglie
quei tre straordinari punti di vista, condensandoli nella costruzione
di un'opera mirata a raccontare una città difficile da raccontare
e difficile da vivere: un'opera su Napoli e sulla sua pulsante energia
vitale che finisce per accogliere e abbracciare tutti, per poi far sentire
tutti un po'estranei, sradicati - compreso chi, come Mario Martone, a
Napoli è nato e ha passato gran parte della propria vita. L'opera
segreta si apre con un film, Caravaggio, l'ultimo tempo, in
cui Martone restituisce un ritratto di Napoli attraverso le suggestioni
che si sprigionano dai dipinti del periodo napoletano di Michelangelo
Merisi. Una voce fuori campo accompagna le immagini, leggendo i bellissimi
testi che Enzo Moscato ha scritto rielaborando frammenti di opere della
Ortese; la seconda parte è una messa in scena de "I sette
snodi di Inferno e nessun Eden", testo di Moscato tratto da La
città involontaria, racconto della Ortese incluso nella raccolta
Il mare non bagna Napoli; chiude il trittico un monologo, 'A
ginestra 'e pontone, tratto da Partitura di Moscato - straordinario
serbatoio di spunti e di prospettive drammaturgiche che Martone utilizzò
già nel 1991 per Rasoi. A Mario Martone abbiamo chiesto
di parlare di questa sua ultima regia, del suo rapporto con Napoli, delle
tracce che la distanza che da anni lo separa dalla sua città imprime
sul suo lavoro e sulle sue scelte.
D: "L'opera segreta nasce dalle sensazioni e dalle emozioni
di tre grandi personaggi che, come lei scrive, "furono colpiti a
morte da Napoli"
R: "Caravaggio, Leopardi e Anna Maria Ortese sono tre artisti - ma,
naturalmente, non sono gli unici - che in Napoli hanno saputo trovare
una rivelazione rispetto al senso della vita: in epoche diverse, sono
stati profondamente colpiti da una città che da sempre è
disincantata, che da sempre, dietro alla sua maschera di allegria e di
vitalità nasconde un grande senso di morte, di consapevolezza della
vanità del tutto".
D: Questo è uno dei grandi fascini della "napoletanità"
R: "Sicuramente è un carattere molto forte della mia città:
come nella vita stessa, nella sua essenza c'è sempre una grande
contraddizione. Credo che sia un luogo che, per essere capito fino in
fondo, deve essere visto da entrambe queste prospettive. Purtroppo tende
sempre a prevalere un'immagine stereotipata e superficiale di Napoli.
Caravaggio, Leopardi e la Ortese seppero cogliere questo abbraccio tra
vitalità e senso della fine come qualcosa di assoluto: non credo
sia un caso se, per quanto riguarda Giacomo Leopardi e Caravaggio, Napoli
sia anche diventata la città dove la loro vita si è conclusa.
Anche il fatto che questi tre personaggi non siano napoletani non è
un caso: il loro sguardo permette l'attraversamento di un "sentimento
di estraneità" che fa parte del mistero di questa città.
Non è un sentimento che solo i non-napoletani possono provare:
anche noi napoletani lo conosciamo benissimo. E' qualcosa che fa di Napoli
una città inafferrabile, eternamente dolente (e purtroppo anche
la nostra cronaca lo dimostra) ma anche assoluta, con al suo interno una
verità molto forte".
D: Da molti anni lei abita e lavora a Roma: come vive la lontananza dalla
sua terra, dai luoghi dove tante esperienze importanti hanno avuto origine?
R: "Vivo questa lontananza come un'esperienza dolorosa. Doloroso
si può definire anche il lavoro che ho fatto per L'opera segreta,
perché percepisco la distanza che mi separa da Napoli con un sentimento
di lacerazione: credo che questo si trasmetta nello spettacolo. Si tratta
di un lavoro sicuramente dolente, è in una lingua impervia, e lo
spettatore deve essere pronto a misurarsi con dei testi dei quali non
sarà possibile cogliere tutto.
D: La lingua che Enzo Moscato usa per i suoi testi è di una vitalità
lavica, incredibilmente composita, sempre al limite: proprio come i personaggi
- spesso indefinibili - che popolano le sue opere e ai quali essa dà
voce
R: "I testi di Enzo e la lingua che usano sono straordinari anche
per questo: nonostante non lascino capire tutto di sé, permettono
a chi ascolta di arrivare perfettamente a cogliere la loro essenza. Lo
spettacolo, dopo il debutto di Napoli, è stato a Modena e a Ferrara:
la reazione estremamente positiva del pubblico di fronte alle difficoltà
presenti nei testi ci ha colpito molto".
D: Per un artista napoletano che cosa significa lavorare a Napoli? Quando
feci la stessa domanda a Enzo Moscato, qualche mese fa, mi rispose che
portare avanti dei progetti in una città come Napoli è sempre
molto difficile, faticoso
R: "E' vero, Napoli è una città faticosa, un luogo
in cui gli sforzi finiscono fatalmente per avvitarsi su se stessi. Sono
contento di aver partecipato alla nascita del Teatro Stabile di Napoli:
la sua stagione è ricca, molto nuova, e le sue produzioni aprono
le porte a registi giovani e assolutamente interessanti; ma non credo
che in futuro porterò avanti la mia attività di gestione
e di programmazione. Sinceramente sono stufo di subire attacchi continui,
che non ho mai smesso di ricevere dai tempi del Teatro di Roma. Credo
che in un sistema teatrale malato e corrotto come quello italiano non
ci sia posto per una visione come la mia, quindi è forse meglio
lasciar perdere: preferisco fare il mio lavoro di regista, e basta. Anche
in questo, Napoli non è una città che riesce a renderti
le cose facili: al suo interno è avvertibile un grido che, purtroppo,
rimane impossibile da superare".
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