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In libreria

Liletta Fornasari, Pietro Benvenuti

Firenze: Edifir, 2004, 407 pagine, 323 illustrazioni. ISBN: 88-7970-200-9.

di Alexander Auf der Heyde

Recensendo nel maggio 1831 l'edizione tedesca della Storia pittorica di Luigi Lanzi, lo storico Alfred von Reumont corregge una svista un po' imbarazzante del curatore Johann Gottlob von Quandt secondo cui Pietro Benvenuti era già scomparso: in realtà il pittore aretino in quel momento godeva di ottima salute (e morirà tredici anni dopo). Una curiosa coincidenza, visto che dopo la scoperta dei suoi affreschi nella Sala d'Ercole di Palazzo Pitti (1829) s'intensificavano le voci diffuse per la prima volta nel 1822 secondo cui il linguaggio di Benvenuti era troppo astratto; ricco sì di riferimenti alla cultura figurativa del passato, ma incapace di dialogare con un pubblico i cui gusti si andavano ormai modificando: la pittura non doveva più educare attraverso degli exempla virtutis, bensì attraverso il coinvolgimento emotivo dell'osservatore.
Fu questo l'inizio di una lunga sfortuna critica, protrattasi fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando Carlo Del Bravo individuò il maestro aretino fra gli interlocutori toscani di Ingres (1968) curando l'anno successivo una pionieristica rassegna monografica sul pittore, di cui in quel momento era concepibile presentare soltanto la produzione grafica. A parte lo sporadico interesse (anche collezionistico) di compatrioti aretini come Mario Salmi, iniziavano così le ricerche sul pittore neoclassico ben presto approfondite dalle ricognizioni sistematiche di Sandra Pinto e dagli studi di Klaus Lankheit, il quale, consapevole della fama europea del maestro, analizzava nuovi materiali rinvenuti fuori dall'Italia. Contributi significativi si devono inoltre ad Ettore Spalletti (1992) che illustra la cultura romana dell'artista attraverso il complesso intreccio linguistico di stampe flaxmaniane e rilievi di Thorvaldsen.
Sono queste le premesse da cui le ricerche di Liletta Fornasari sono partite e nell'arco di otto anni - dal 1996 fino ad oggi - la studiosa ha pubblicato una serie di interventi portando alla luce un'impressionante quantità di materiali inediti fra disegni, dipinti e documenti. Il presente volume nasce, dunque, da ricerche quasi decennali volte alla ricognizione del territorio aretino, in cui sono rimaste numerose tracce dell'attività artistica di Benvenuti. Emerge, infatti, il profilo a tutto tondo di un artista, dai suoi primi studi svolti sulla base di testi per lo più appartenenti alla tradizione seicentesca locale (Furini, Martinelli, Allori, Dandini), all'importante soggiorno romano (1792-1804) dove frequenta lo studio di Antonio Cavallucci - fase che lascia le sue tracce nella prima opera significativa, il Martirio di San Donato ad Arezzo (1794). Naturalmente il giovane Benvenuti dovette ben presto immergersi nel vivace ambiente artistico romano, così ricco - nonostante le spoliazioni napoleoniche - di suggestioni antiche e rinascimentali, di cenacoli poco ortodossi come la cosiddetta "Accademia de' Pensieri" di Felice Giani, dove artisti di varia provenienza si esercitavano nella composizione di soggetti letterari. Fu sempre a Roma, grazie anche all'aiuto di generosi committenti come l'irlandese Lord Bristol, che l'artista riuscì ad elaborare - in opere come la Giuditta con la testa di Oloferne (1798, 1804) - un linguaggio limpidamente classico, che unisce una grammatica gestuale di matrice raffaellesca ad esercizi stilistici di vario genere, svolti su fonti antiche e moderne. Tornato a Firenze con la fama di restauratore della pittura toscana, Benvenuti assunse nel 1804 la direzione dell'Accademia fiorentina, incarico che ricoprì per ben quarant'anni, fino alla morte avvenuta nel 1844. Nei primi anni fiorentini, in opere come Elisa Baciocchi e la sua corte oppure Il giuramento dei Sassoni (1811-12) l'artista mette alla prova le proprie qualità "propagandistiche" divenendo, di fatto, una sorta di portavoce figurativo delle ambizioni politiche e culturali dell'impero napoleonico in Toscana. Ormai saldamente inserito nelle istituzioni artistiche fiorentine, il passaggio di potere con la Restaurazione dei Lorena non dovette procurargli grandi problemi; mantenne, infatti, il proprio ruolo di direttore accademico, continuando persino a lavorare alla decorazione della Sala d'Ercole (1817-29), concepita ai tempi del dominio napoleonico. Seguono altre decorazioni monumentali come gli affreschi della Cappella dei Principi (1828-36), che suscitarono non poche perplessità persino da parte dei critici "fedelissimi" come Giovanni Rosini, mentre nell'ambiente più raccolto del salotto di Carlotta Lenzoni si concedeva un avveduto avvicinamento alle poetiche del Romanticismo storico cui il suo entourage fiorentino aveva dichiarato la guerra.
Grazie alle ricerche d'archivio condotte dall'autrice è ora possibile datare con maggiore precisione i dipinti, nonché ricostruire i rapporti stretti con personalità importanti quali Canova e Thorvaldsen. Per meglio comprendere il funzionamento dell'Accademia fiorentina all'interno di un intreccio istituzionale complesso e di scarsa trasparenza non si può certo prescindere dall'"ingombrante" e prepotente personalità di Benvenuti, le cui attività del resto non si limitavano a questioni didattiche: si pensi ai suoi viaggi a Roma dove acquista dipinti antichi destinati alle Gallerie fiorentine, o alle imprese calcografiche che, da lui dirette, erano finalizzate alla divulgazione del patrimonio artistico locale (1819: I monumenti sepolcrali della Toscana; 1822: La Galleria Riccardiana).
Resta soltanto il rammarico che la cura editoriale del volume non sia all'altezza degli sforzi dell'autrice: gli apparati sono troppo ridotti, non agevolano il lettore nella consultazione del volume, ma soprattutto la qualità delle immagini non rende giustizia alle qualità artistiche della sua pittura. Nondimeno, la monografia costituisce per gli studi ottocenteschi un importante strumento grazie al quale possiamo ripercorrere le vicende di uno dei suoi indiscussi protagonisti.


P. Benvenuti, Amore e Psiche, disegno, Arezzo, Fraternità dei Laici, collezione Bartolini

 

Appunti al ristorante con David Mamet per parlare di teatro.
David Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro

di Anna Maria Monteverdi


Esce per Minimum Fax (Roma, 2004) l'edizione italiana di Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro di David Mamet a distanza di quasi vent'anni dalla edizione originale inglese (Writing in Restaurants). Si tratta di brevi o brevissime notes sulla scrittura teatrale e cinematografica (ma anche sulla decadenza della creatività artistica, sulla moda e sulla società americana) di uno dei più eclettici e straordinari scrittori statunitensi del secondo Novecento, da molti paragonato ad Harold Pinter, scritte per occasioni pubbliche (conferenze, commemorazioni, premiazioni) o private. Mamet è autore teatrale (American Buffalo, Glengarry Glen Ross, Speed the Plow) romanziere, ma anche regista (La casa dei giochi), attore e sceneggiatore cinematografico (Il postino suona sempre due volte, Il verdetto, Gli intoccabili, Hannibal). Note in margine a una tovaglia offre memorabili quanto minimali passaggi personali e appunti sulla vita nel teatro (titolo anche di una sua commedia) ovvero su quel gran teatro del mondo che si scontra quotidianamente con Hollywood e Broadway, con la celebrazione del production value, con lo star-system, con l'asservimento ai produttori. Massime o pillole di "verità" che cortocircuitano arte e vita, individuo e società, etica comportamentale e etica teatrale, che sottolineano la vacuità dei "nuovi" riti metropolitani (dalla televisione commerciale alla celebrazione degli Oscar). Due esempi: "L'artista è un esploratore in avanscoperta della coscienza della società" e "Quando ci allontaniamo dai Principi Fondamentali del Teatro impartiamo al pubblico una lezione di vigliaccheria, una lezione di proporzioni enormi quanto il sovvertimento della Costituzione implicito nel nostro coinvolgimento in Vietnam". La varia umanità in gioco nel libro (che già ha abitato molte delle sue commedie e film) la troviamo nel racconto del dietro le quinte del film L'uomo di ghiaccio, pellicola di fantascienza diretta in Canada negli anni Ottanta da Fred Schepisi e interpretata dalla moglie di Mamet, l'attrice Lindsay Ann Crouse, nel comportamento "da vere stronze" della sorella, della madre e della moglie o nella descrizione del carattere dei suoi avversari di gioco a poker nei Quartieri Alti, mentre dal modello narrativo offerto dalle barzellette sporche, o dai radiodrammi, si arriva alla denuncia sulla censura fatta passare per "preoccupazione per la fruibilità commerciale" e alla riflessione sull'attualità di Stanislavskij e del suo metodo.

David Mamet
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