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in mostra

Maria de' Medici. Una principessa fiorentina sul trono di Francia

Firenze, Museo degli Argenti (Palazzo Pitti), 19 marzo - 4 settembre 2005, catalogo a cura di C. Caneva e F. Solinas, Sillabe, € 35,00 in mostra.

di Benedetta Moreschini

È una mostra elegante quella apertasi da poco a Palazzo Pitti, nelle sale del Museo degli Argenti: elegante nell'allestimento, di cui il visitatore si può rendere conto prima ancora di visionare con attenzione le opere esposte; elegante per la preziosità di quanto si ammira nelle prime sale, pezzi unici di rara e celebrata raffinatezza esecutiva, con in più l'indubitabile vantaggio di non avere alle spalle alcun viaggio essendo, per massima parte, patrimonio delle collezioni fiorentine di Palazzo Pitti; elegante anche nel taglio scelto dai curatori di una mostra non eccessiva, ma, al contrario, contenuta nelle dimensioni.
Quattro le sezioni in cui si articola l'esposizione: la prima dedicata all'ambito culturale in cui avvenne la formazione intellettuale della principessa fiorentina; la seconda incentrata sull'evento, nodale, delle nozze per procura con Enrico IV di Francia, celebrate a Firenze il 5 ottobre 1600, e sulle testimonianze figurative, letterarie e musicali pervenuteci, realizzate per celebrare l'avvenimento; la terza rivolta alle arti francesi nei primi due decenni del XVII secolo; infine la quarta vede dispiegarsi per immagini i risultati politici della politica tout court, non solo culturale quindi, della sovrana francese.
Per quanti - penso soprattutto connazionali - abbiano frequentato con una certa assiduità le esposizioni fiorentine dedicate alla ricostruzione della Maniera, immagino che la prima sezione e parte della seconda non possano destare grande sorpresa se non per il piacere, mai finito, di ammirare alcuni pezzi - tessili, oreficeria, bronzistica, carpenteria, commesso di pietre dure - che dimostrano, oltre al gusto e agli indirizzi culturali dell'epoca, anche l'apertura intellettuale dei granduchi toscani e la loro accorta capacità di servirsi dei prodotti usciti dalle manifatture fiorentine - da Ferdinando I organizzate in enti ufficiali che avrebbero tracciato una via economica apprezzata in seguito dal Colbert - come di ambasciatori inanimati presso le corti europee, portatori di prestigio e dignità, talvolta anche superiori alle effettive capacità pecuniarie del granducato. Quando Maria de' Medici - pedina di livello nelle mani degli zii (i cui intensi ritratti ci accolgono nella prima sala) che l'avevano allevata dopo la morte dei genitori - arriva in Francia, trova un ambiente in cui perdura il fascino esercitato da quegli aggiornamenti stilistici e formali introdotti nel quarto decennio per lo più dagli italiani, manieristi di seconda generazione, da Primaticcio a Niccolò dell'Abate, fondatori dell'Ecole de Fontainebleau di cui Caron, Cousin, Dubois e Dubreuil saranno i continuatori: la Galleria di Ulisse costituiva un modello decorativo che, sancendo l'affermazione della colta e raffinatissima scuola emiliana, rimaneva insuperato ancora sul finire del secolo. Al contempo, nel campo della ritrattistica come nella scena di genere, gli scambi culturali con i paesi fiamminghi, avevano portato esiti assai fruttuosi, senza essere peraltro in contrasto con il colto manierismo italiano, con cui anzi andavano a saldarsi; ora con Enrico IV, ugonotto convertito, la nazione fiamminga tornava a godere di nuovo lustro. Il nuovo sovrano, quell'Enrico di Navarra, per il quale Parigi valeva ben una messa, sarebbe passato alla storia non solo come colui che aveva posto fine ad un periodo sanguinoso, ma anche come il monarca che andava impostando su nuove basi lo stato francese, e nella politica culturale non esitò a farsi aiutare dalla consorte Maria. I primi approcci della nuova sovrana come committente in territorio francese si affidano alle mani di artisti locali, Quesnel, Freminet, già coinvolti dal marito in anni precedenti il suo arrivo, quest'ultimo reduce da un formativo soggiorno italiano durato dal 1587 al 1602; mentre il nuovo fervore di contatti fiamminghi andava a saldarsi con l'arrivo in Francia, nell'estate del 1606, di Frans Pourbus il Giovane, ritrattista al seguito di Eleonora Gonzaga, sorella della sovrana, invitata in occasione del battesimo del Delfino, futuro Luigi XIII: il fiammingo dal 1609 si stabilirà definitivamente in Francia fino alla morte, influenzando anche Philippe de Champaigne. Per la prima commissione importante dopo l'uccisione del marito nel 1610, il monumento equestre di Enrico da collocarsi sul Ponte Nuovo di Parigi - qui illustrata da due imponenti Schiavi bronzei superstiti - Maria si affiderà, secondo una prassi già seguita dall'ava Caterina de' Medici per commemorare Enrico II, ad una bottega italiana, quella del Francavilla, che portava avanti la grande tradizione toscana nella bronzistica monumentale. Si apre per la Francia il periodo della reggenza (1610-1631), illustrata da committenze prestigiose, come la grande Felicità Pubblica, dipinta per il Palais du Luxembourg da Orazio Gentileschi, invitato dalla regina in Francia tra il 1623 e il 1625, il cui breve soggiorno fu assai denso di spunti per gli artisti locali, che coglievano nella sua produzione un naturalismo meno sfacciato di quello di Rubens, aggiornato dalle frequentazioni caravaggesche ma mitigato dall'innata eleganza fiorentina; e soprattutto con la serie di tele, celebrative dell'alleanza della Francia con la famiglia Medici, ordinate dalla sovrana per il Cabinet Dorè del Luxembourg ai migliori artisti fiorentini del primo '600, Empoli, Passignano, Bilivert: tutte provenienti da collezione privata ed esposte assieme per la prima volta in Italia. Tuttavia ancora più interessante è constatare l'apertura mentale che la sovrana seppe portare in Francia, incentivando l'aggiornamento in Italia delle giovani leve dell'arte locali: la Morte di Adone di Laurent de La Hyre e la Buona Ventura di Simon Vouet dimostrano come nell'arco di poco più di un decennio la pittura francese era divenuta una delle più aggiornate, raccogliendo la lezione di Caravaggio, ma anche di Reni e Rubens. Da allora lo scambio Francia -Italia non si sarebbe più interrotto: erano state gettate le basi della grande fioritura culturale dell'era di Richelieu prima e Luigi XIV dopo.


  Laurent del la Hyre, La morte di Adone, 1626c., Parigi Louvre

Salvador Dalì tra sogno e realtà. Deliri di forme e colori del "genio cosmico" del Novecento

di Katiuscia Quinci


"Ho sempre visto quello che gli altri non vedevano;
e quello che vedevano loro, io non lo vedevo."


Inauguratasi il 10 settembre 2004, la mostra celebrativa del centenario di Salvador Dalì (1904-1989), allestita nella suggestiva cornice di Palazzo Grassi a Venezia, ha chiuso i battenti lo scorso 16 gennaio con un enorme successo di pubblico: più di 230mila visitatori si sono lasciati catturare dall'affascinante universo dell'artista spagnolo, popolato dalle angosce, dai paradossi e dalle esaltazioni proprie di qualsiasi individuo, a cui egli è riuscito a dare le più molteplici forme grazie alla sua straordinaria padronanza delle tecniche artistiche. Pittore, scultore, scrittore, incisore, scenografo, regista cinematografico, disegnatore di moda, creatore d'oggetti, Dalì ha saputo rendere concrete le sue visioni e le sue paure, utilizzando qualsiasi media espressivo ed è su questo punto che occorre fissare la nostra attenzione per apprezzare a pieno la sua opera, per non smarrirsi e farsi deviare dalla messe di parole riversata dalla critica e dal pubblico sul Dalì-personaggio piuttosto che sul Dalì-artista. Egli è stato etichettato come una "macchietta" scomoda, un manifesto vivente del kitsch, spesso bistrattato dagli stessi colleghi. In questa mostra sono state, però, le opere - ben 334, soprattutto pitture, ma anche disegni, incisioni, oggetti "surrealisti", come il famoso Telefono-aragosta a parlare, raccontandoci dell'artista in una discesa a ritroso nei meandri della sua formazione, delle sue considerazioni teoriche.
L'esposizione - curata da Dawn Ades e da Montse Aguer - era, infatti, organizzata secondo una suddivisione in aree tematiche, ma anche secondo un ordine cronologico inverso, a partire dalla sua ultima opera (La coda di rondine, 1983) per giungere a quelle della sua infanzia. Questa scelta è stata motivata, oltre che da ragioni di tipo pratico - le grandi opere della maturità (quali La stazione di Perpignan del 1965 e il Torero allucinogeno del 1968-70) trovavano uno spazio a loro più adatto nel primo piano nobile di Palazzo Grassi -, anche dalla volontà di compiere una specie di decostruzione della personalità artistica di Dalì, la cui complessità è causata da una sorta di stratificazione di suggestioni pittoriche diverse, che egli ha voracemente attinto da tutte le correnti artistiche moderne. I visitatori, la cui mente è solitamente fossilizzata soltanto sull'immagine del Dalì-surrealista, hanno potuto così scoprire, nelle sezioni finali, anche i suoi "esperimenti" giovanili, i suoi momenti da impressionista, divisionista, futurista e cubista.
Nelle prime sale dell'esposizione, invece, grande importanza era stata data alla produzione post-surrealista, iniziata nel 1936 con l'espulsione dal Movimento. In quello stesso anno la guerra civile spagnola - da lui grottescamente evocata in due quadri angosciosi, la Costruzione molle con fagioli bolliti - Premonizione della Guerra civile e il Cannibalismo d'autunno (entrambi presenti), nei quali mostruose membra disarticolate lottano l'una contro l'altra nel tentativo di divorarsi a vicenda - lo costringe a girare per l'Europa. In Italia il pittore visita i musei di Roma e Firenze, ricavando nuove suggestioni dai grandi maestri del passato, in particolare da Piero della Francesca, da Perugino e da Raffaello. Con l'esilio negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto in seguito allo scoppio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, Dalì si distacca quasi totalmente dall'ortodossia surrealista e affronta i temi pregnanti dell'esistenza umana, quali la mente dell'uomo e la struttura fisica dell'universo, i quanti e la teoria della relatività. Nella cosiddetta fase del "misticismo atomico", le opere del pittore spagnolo scaturiscono da un interesse spasmodico per l'atomo, in cui egli sembra intuire l'esistenza di un Dio, e per i temi cari alla religione cristiana. Muta anche il suo modo di dipingere: i quadri di questo periodo sono "classicisti", ispirati all'"ideale artistico del Rinascimento" che è rappresentato in particolare da Van Eyck, Piero della Francesca, Raffaello, Vermeer e Velasquez. La sua pittura diventa più luminosa, corposamente materica e i contorni sono disegnati con nettezza; Dalì si compiace della propria bravura nel realizzare figure geometriche e composizioni arditamente prospettiche, incendiate da colori sgargianti e fastosi, forme sul punto di esplodere o già esplose, come nel quadro intitolato Testa raffaellesca esplosa (1951), dove oggetti fluttuanti nell'aria vanno a formare l'immagine della testa di una Madonna raffaellesca, all'interno della quale si vede la cupola cassettonata del Pantheon.
Presenza costante delle raffigurazioni di Dalì è Gala, moglie e musa ispiratrice: è lei la protagonista indiscussa delle sue composizioni, siano esse profane (ad esempio la Leda Atomica, 1949) o religiose come la Madonna di Port Llgat (1950), la cui composizione riprende quella della Pala di Brera di Piero della Francesca. In opere come La Croce nucleare (1952) o Natura morta vivente (1956), il pittore, pur mantenendo un ermetico simbolismo degli oggetti, abbandona definitivamente il lessico provocatorio surrealista, basato sulla ripetizione ossessiva d'icone (la gruccia, le formiche brulicanti, le cavallette, le carni putrefatte) che, nella parte centrale della mostra, spiazzavano l'osservatore e lo costringevano ad una continua ricodificazione delle immagini. Questo processo mentale era comunque coadiuvato da un buon apparato didascalico che, in ogni sezione, aiutava lo spettatore a non smarrirsi nei tortuosi sentieri del mondo daliniano, di cui questa mostra ha offerto un ampio spaccato, cercando di ricostruirlo anche a livello scenografico con soluzioni talvolta molto suggestive ed originali, come la reinterpretazione tridimensionale di uno dei suoi quadri presenti - Sogno causato dal volo di un'ape attorno ad una melagrana, un secondo prima del risveglio - realizzata nel cortile di Palazzo Grassi, nel centro nevralgico della mostra. Infatti, come ha affermato l'ideatore di questa composizione, l'architetto Oscar Tusquets Blanca, che cosa c'è di più daliniano che far volare un'enorme melagrana, un pesce con la bocca aperta e due fierissime tigri sopra gli indifesi visitatori?

Seconda sede internazionale della rassegna: Philadelphia Museum of Art dal 16 febbraio al 10 maggio 2005 (orario di apertura: mart.-dom. 10.00-17.00; ven. 10-20.45; chiuso il lunedì).
Il catalogo Dalì. La retrospettiva del centenario, a cura di Dawn Ades e Montse Aguer, è edito da Bompiani.

S. Dalì, L'Angelus architettonico, 1933, olio su tela, Museo Nacional Reina Sofia, Madrid
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