Gilles
Deleuze e il clamore del cinema
di Marco Settimini
Le cinéma c'est le mouvement de la pensée. Le cinéma
est deleuzien.
Serge Toubiana*
Un "pensiero nomade", quello di Gilles Deleuze; un metodo ambiguo,
"contro il metodo", disarmonico, per certi versi, e dunque difficilmente
codificabile, com'egli desiderava, non sistematizzabile. Un movimento
senza posto, nel mezzo, sempre in fieri, anche ora che non può
essere scritta una nuova parola dal filosofo francese. È forse
in questa "insistemabilità" che produce il disinteresse
accademico nei confronti delle sue riflessioni, estetiche e non. E, se
non una nuova parola può giungere da Deleuze, qualcosa c'è
da riportare, di quanto ha scritto sul cinema (o molto meglio: col cinema,
ovverosia mediante il cinema).
Un rapporto, quello tra Deleuze e il cinema, che s'è definito in
maniera identica a quelli che hanno delineato la filosofia di Deleuze:
Deleuze/Spinoza, Deleuze/Lucrezio, Deleuze/Nietzsche, Deleuze/Leibnitz,
Deleuze/Bergson e infine Deleuze/Foucault; nonché Deleuze/Kafka
e Deleuze/Bacon. Rapporti tra termini d'un "concatenamento"
invertibili e reversibili. Precisamente, invertibili e reversibili poiché
Deleuze ha parlato-con le loro parole, e loro hanno ri-parlato con le
sue, secondo il modello del pasoliniano "discorso libero indiretto".
È c'è anche un Welles/Deleuze, un Rossellini/Deleuze e un
Antonioni/Deleuze, un Godard/Deleuze e un Rivette/Deleuze, e forse anche
un (ipotetico) Cronenberg/Deleuze (Videodrome, Il pasto nudo).
Insieme, lungo questa strada, il cinema ha rivelato una capacità,
inscritta nel movimento ch'è intrinseco alle immagini (e non una
illusione aggiunta), di "mettere in pensiero". E di poterlo
fare in diverse maniere, nella sua storia, che sembrerebbe ripercorrere,
per certi versi, il percorso del pensiero, dalla "identità
& trasparenza" di Platone e Cartesio, Lang e Ford, alla "differenza
& opacità" di Bergson e Nietzsche, Godard e Resnais.
Precisamente, Deleuze non è il "filosofo del cinema",
quanto l'inventore d'un "pensiero-cinema" (col cinema, nel cinema),
del cinema come momento riflessivo, nel quale l'essere è pensato
senza distaccarsi dal movimento (il divenire). Con l'insegnamento, per
il critico, certamente, ma forse anche per l'analista e il teorico, di
portare l'"essere-con" come aisthesis della visione filmica,
che muove il pensiero, nel "parlare-con" il cinema: nel clamore
del cinema. Sapendo di (ri)crearlo e (s)piegarlo, come nel caso del "divenire-moderno"
del classicissimo Hitchcock, con Truffaut e Chabrol&Scherer, e poi
con Deleuze stesso. E al di là delle pagine, splendide, sui cineasti-pensatori,
rimane una gamma di possibili sviluppi a livello teorico che potrebbero
andare a fondare una "nuova teoria" cinematografica, o comunque
offrire un importante contributo alla presente, in particolare sul versante
estetico, troppo spesso dimenticato. Fondativa, per esempio, è
la lettura deleuziana del classico e del moderno: del cinema della "prepotenza"
e della "differenza" - quest'ultima non nel senso volgarizzato
di "diversità", bensì nel senso originale, ontologico.
Ovvero, il cinema della certezza e della credenza (del pensiero), delle
azioni e delle visioni, dell'être (è) e dell'entre
(e). Con i loro episodi assoluti (Ejzenstejn, Vigò e Ford, Godard
e Resnais) ma anche le mediazioni e le ibridazioni, e gli inevitabili
slittamenti (Hitchcock, Hawks e Herzog, Dreyer e Altman). Il cinema, soprattutto,
nella sua "guerra" contro i cliché che invadono e saturano
le nostre visioni.
La scoperta del corpo, nelle sue posture, in Antonioni e in Cassavetes,
tra quotidianità e celebrazione (con l'Underground , e la Nouvelle
Vague ), è un altro momento decisivo: il capovolgimento del filosofico
nel quotidiano, del pensiero non più al di là del corpo
(o contro), ma nel corpo e dal corpo. Il che, con la sua immanenza lucreziana-spinoziana,
rimanda alla macchina po(i)etica della "Figura-Materia" descritta
nei Mille piani, indicando una prospettiva semiotica peierciana-pasoliniana
di Deleuze, opposta alla semiologia di Metz, e forse più consona
alle sperimentazioni del moderno. Una prospettiva che potrebbe dispiegare
una nuova ontologia del cinema, e una diversa estetica, evidentemente
in debito con la "poesia della realtà", e prossima agli
scenari tecnici futuri(bili) alla Strange days. È la circolarità
del segno, anziché la sua struttura (significato/significante);
la sua presenza assoluta, affermativa, anziché una presenza-assenza,
disgiuntiva (l'immagine e il suo oggetto). È un il-y-a (un
esser-ci), un "si è" asoggettivo e inorganico - che
svolge l'On merleaupontyano e l'Es liberato da Lyotard -
anziché il "complesso baziniano" della rappresentazione.
E può essere che, come sognava Foucault, il Novecento diverrà
"deleuziano", in futuro (almeno quant'è foucaultiano),
e che anche la teoria del cinema diverrà più attenta ai
contributi del filosofo francese. Ma ciò che è certo, è
che Deleuze (citiamo Badiou), è "il nostro grande fisico",
per il quale, non casualmente, il cinema è un dato materialistico:
"sensorio-motorio", concreto, corporeo (e insieme non-soggettivo),
energetico e pulsionale, e molecolare. (Esemplare, in questo senso, è
il cinema "lucreziano" del Godard anni Ottanta e Novanta, da
Je vous salue, Marie a Prénom Carmen e Nouvelle Vague.) Deleuze
"ha contemplato per noi il fuoco delle stelle", che sono poi
simulacri, immagini-fantasmi delle stelle, che non sono meno "reali",
e anzi sono le stelle stesse: l'unica realtà, specie nel "mondo
tecnico"; tant'è vero che il filosofo s'è rivolto alle
immagini filmiche per comprendere il pensiero, e la realtà, nel
momento che v'è uno scollamento tra l'uomo e il mondo.
Deleuze "ha calato le nostre misere traiettorie nella immensità
del virtuale" (sempre Badiou), come ci si siede nella buia sala del
cinematografo. La sua è una predizione senza promesse: un'affermazione,
ch'è innanzitutto della potenza delle immagini creatrici, al di
là delle psicologie della figurazione (Bazin, contro il quale il
"suo" cinema s'è ritorto), del sogno e del reale (del
realismo); e la ricerca creativa di pensieri impensati. Proseguire, e
quindi "divenire", è operazione inscindibile dal durare,
dal "ritorno eterno". Ritornare (a) Deleuze, a un decennio dalla
sua scomparsa - una morte stoica, il suo volo, e perciò religiosissima:
affermativa della vita, anche nella morte. Rileggere la sua opera, che
resisterà, opposta alle malattie d'un pensiero immobile. Rileggerla,
ritornarla e ripiegarla: ri-s-piegare le pagine del cinema, nei cui fotogrammi
c'è l'accesso alla molteplicità e alla inorganicità
del Tutto. Pensarlo, pensarci (col), pensarvi (nel), pensare. Il cinema,
all'ultimo respiro.
* S. Toubiana, Le cinéma est deleuzien, "Cahiers du
Cinéma", 497, 1995, p. 20
(Arcore, agosto 2004)
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