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La storia dell'arte nella società contemporanea


Se coltivi l'Evento, trascuri il Museo

di Vittorio Emiliani

[estr. da "Quaderni del Circolo Rosselli", fascicolo 84, dedicato a "Ragionamenti su Roma"]

Roma è certamente una città in molti sensi straordinaria. Ha conservato, pur fra sventramenti, ricostruzioni e altre traversie, il centro storico più ampio e probabilmente più bello del mondo. Vanta un patrimonio archeologico, dalla prima Romanità al Medio Evo, inarrivabile, un apparato di Musei (i più diversi) ricco di un centinaio di strutture, di recente potenziato, a livello statale e comunale, un complesso di chiese e di conventi sensazionale (anche senza contare la Città del Vaticano), il catalogo dei palazzi patrizi o cardinalizi che sovente sono il museo di se stessi con gallerie, gipsoteche, affreschi è formidabile, lo scenario delle sue strade e piazze, delle ville e dei parchi storici, a cominciare da quello leggendario dell'Appia Antica, attrae da secoli visitatori ammirati da tutto il mondo. E l'elencazione dei tesori diffusi di Roma potrebbe continuare ancora a lungo. Magari coi dintorni, come ci insegna la recentissima e lodevole Guida pubblicata dalla Provincia di Roma per i 66 Musei dell'intorno della città eterna.

Eppure Roma è fra le nostre città quella che ha subìto i più vasti traumi dopo la sua promozione a capitale d'Italia sotto la pressione, soprattutto, della sinistra risorgimentale, mazziniana e garibaldina, e delle componenti liberali più convinte, in testa a tutti Quintino Sella, teorico e realizzatore della Terza Roma, moltiplicando per quattordici-quindici volte la sua popolazione iniziale. All'atto della storica breccia di Porta Pia la città dei cesari e dei papi contava appena 212.000 abitanti ed era la terza in Italia, dopo Napoli e Milano, alla pari con Torino, nonostante venisse da un periodo - la seconda parte del papato di Pio IX - piuttosto dinamico sul piano dello sviluppo economico e infrastrutturale (e anche speculativo-immobiliare, con le operazioni promosse dal cardinale De Merode). Un trentennio più tardi, all'epoca della Giunta Nathan, la sua popolazione era già raddoppiata con ricorrenti "febbri" e crisi edilizie (e bancarie). Alla vigilia della Marcia su Roma stava sui 660.000 residenti, con molti immigrati irregolari, cioè ufficialmente non censiti. Durante il regime mussoliniano fu la sola città libera di crescere senza limiti in modo da raggiungere la dimensione "imperiale" di Cesare Augusto: un milione-un milione e mezzo di abitanti. Puntualmente raggiunti con Roma "città aperta" e quindi ufficialmente registrati nel primo dopoguerra. Al censimento del 1951 (pur con molti inurbati ancora senza residenza) i romani erano 1.651.393. Trent'anni dopo avrebbe sfiorato il raddoppio delle residenze. Per poi calare, come tutte le città italiane, a favore dell'area metropolitana. Oggi sta sui 2 milioni e mezzo scarsi (ma si sono pure costituiti, per distacco, i Comuni di Ciampino e di Fiumicino).

Saliva tumultuosamente il numero dei romani con punte di centomila immigrati all'anno, si dilatavano a macchia d'olio periferie spesso abusive, a colpi di lottizzazioni legali e illegali oltre che di case della domenica, con consumi di terra enormi (si parla di 18.000 ettari), cominciava a svuotarsi per contro il centro storico. Qui gli abitanti venivano calcolati alla fine della guerra in 450.000. Nel mezzo secolo successivo sarebbero diminuiti di due terzi (- 66-67 per cento) facendo sempre più posto alla City politica, alle Ambasciate (doppie Ambasciate), alle sedi centrali di banche, assicurazioni, enti di Stato, nonché a studi professionali, ateliers di moda, maison de beauté, uffici di ogni tipo, ecc. Un fenomeno che ha investito tutte le città italiane ed europee (tranne Napoli intensamente popolata nei quartieri spagnoli) e che, in fondo, a Roma, ha prodotto una desertificazione minore di quella riscontrabile a Milano e a Torino (o anche a Firenze). Ma non c'è da dormire sugli allori perché quei 150.000 residenti fissi del centro storico romano rappresentano l'ultimo valido presidio per la vita quotidiana della città antica e anche per una sua corretta fruizione ludica e turistica. Senza di essi o con un numero decisamente minore di abitanti fissi, sparirebbe quasi totalmente il tessuto commerciale e artigiano ancora esistente, sparirebbe quel controllo sociale che è l'antidoto più efficace contro la trasformazione e degenerazione dei centri storici : di giorno in centri direzionali, amministrativi e terziari ; di notte in veri e propri "divertimentifici" senza orario con forme diffuse e radicate di criminalità.

Ecco perché il bene - fondamentale "in sé", beninteso, al di qua di ogni utilizzazione economica - della bellezza di Roma (come di tutte le città d'arte italiane) ha bisogno di un presidio e di un supporto essenziale formato dal persistere di una vita sociale vera, di una rete di residenze vere e non precarie, cioè di una popolazione autentica, radicata, la quale la anima e la fa esistere, magari mutando socialmente e però restandone il motore strategico, giorno per giorno, ora per ora. Fra l'altro, una delle caratteristiche di Roma che gli stranieri hanno amato e amano di più è proprio questo suo essere, nonostante tutto, una città "umana", con alcuni rioni - come Monti o Ponte - tuttora "paesi" vivi.

A differenza di altri centri storici i quali rischiano di morire per il venir meno di ogni funzione che non sia quella para-turistica, Roma rischia invece di morire per un eccesso di funzioni. Essa concentra entro le Mura Aureliane troppe attività direzionali e anche commerciali : governo e parlamento si sono negli ultimi anni ulteriormente espansi nel cuore stesso di Roma. I tentativi di decentramento rsultano pochi e stentati. Lo SDO pare ormai superato e comunque limitato. I principali Ministeri rimangono in centro. Come le Ambasciate e doppie Ambasciate, ovviamente. Il Comune ha decentrato nei Municipi una parte delle proprie strutture e altre, fra quelle accentrate, progetta di portarle per lo meno all'Ostiense. Troppo poco rispetto ad una City politica che muove ancora decine di migliaia di persone e quindi di veicoli a motore. Qualche anno fa si calcolava che ogni giorni entrassero nella città antica per lavorarvi circa 400.000 persone al giorno. Un esercito di pendolari locali o regionali che confermava l'eccessiva concentrazione di funzioni nell'area storica della capitale.

A scapito della sua vivibilità, delle residenze e anche del turismo, cioè di una corretta utilizzazione della bellezza di Roma. Difatti, nonostante un certo miglioramento del trasporto pubblico (per ora di superficie, ovviamente, le metropolitane impiegano anni, decenni) ed una risalita dei viaggiatori trasferiti da bus e tram, la situazione del traffico e quindi dell'inquinamento rimane quanto mai preoccupante. Dunque una minaccia costante grava, con la nuvola di smog e di polveri sottili, su chi vive nei rioni antichi e sui monumenti che fanno la bellezza della città eterna : basta vedere come sono già annerite, dopo pochissimi anni, le facciate di travertino di certe chiese barocche, per esempio di Sant'Andrea della Valle su Corso Vittorio Emanuele, o come stanno ingrigendo San Marcello al Corso e la stessa Colonna Antonina pur liberata dal parcheggio delle auto blu.

Una seria politica di conservazione del centro storico romano non può prescindere da una più incisiva e crescente limitazione del traffico veicolare privato (motorini compresi, quelli a due tempi sono pestiferi) e dall'incremento del trasporto pubblico non inquinante con tram, filobus e autobus magari a metano (come fu proposto, purtroppo invano, una decina d'anni fa in una conferenza stampa a due fra l'allora ministro dell'Ambiente Valdo Spini e la Snam). E senza queste politiche non si agevola l'esistenza né di quanti hanno scelto di vivere a Roma né di quanti hanno scelto di venirla a visitare. Oltre 6 milioni di persone nel 2002, delle quali 3,7 milioni stranieri e 2,3 italiani, secondo le registrazioni alberghiere (nel 2003 sono calate le presenze estere). Per un complesso di 14.655.947 pernottamenti, il che vuol dire soltanto 2,4 giorni di presenza, troppo pochi. A queste cifre bisogna peraltro aggiungere tutto l'apparato - notevolmente dilatato col Giubileo del 2000 - delle case e delle residenze gestite dagli ordini religiosi e che schierano alcune decine di migliaia di posti letto. Nel 2001 l'intera provincia di Roma ha segnato il record di 6.390.000 arrivi (per un 64 per cento stranieri) e di 15.030.240 presenze negli alberghi.

I tour operators hanno creato nel nostro Paese una sorta di "turisdotto" o di condotta forzata del turismo di massa che, per le città d'arte, parte da Venezia (che è poi Rialto-San Marco), passa per Firenze (essenzialmente Uffizi-Accademia), arriva a Roma (Fori Imperiali e Musei Vaticani) e si dirama poi per Assisi e per Napoli-Pompei. A Roma dunque un immenso apparato e patrimonio di musei (oltre il centinaio), di chiese, di cappelle, di palazzi, di scavi, di ville storiche rimane mal fruito o poco fruito. Un dato che occorrerebbe contrastare ben più efficacemente. Vediamo un po' di cifre.

Nella classifica nazionale dei monumenti e dei musei statali più frequentati Roma si segnala (Musei Vaticani a parte, che sono di un altro Stato) anzitutto per il Colosseo al primo posto con poco meno di 3 milioni di visitatori l'anno (2.713.000 nel 2001) avendo superato gli scavi e la città di Pompei. Al terzo posto il Pantheon con 1.677.808 ingressi, questi gratuiti e quindi registrati con una certa approssimazione (anch'io, passandoci davanti, vi entro sovente, per qualche attimo). Al decimo posto Villa d'Este a Tivoli (572.887) e all'undicesimo Palatino e Foro Romano (quasi 498.000). Più staccata la Galleria Borghese col suo Museo rilanciata di recente dopo annosi restauri con 415.581 visitatori nel 2001. La rete dei musei comunali - che comprende a Roma i Musei Capitolini, l' Archeologico della ex Centrale Montemartini, la Galleria comunale d'Arte Moderna, il Museo di Roma a Palazzo Braschi, ecc. - ha registrato nel 2003 circa 814.000 visitatori per una metà non paganti, regredendo così ai livelli di due anni prima dopo la breve ripresa del 2002. Tuttavia il picco dei fruitori di musei comunali si situa a Roma nel 1997 con oltre 952.000 ingressi.

L'intero complesso monumentale, archeologico e museale del Lazio (parliamo di nuovo dello Stato) ha fatto registrare, nel corso del 2002 , 9.408.000 frequentatori - il più alto numero, di gran lunga, fra quelli delle regioni italiani, prima di Campania e Toscana - dei quali il 53 per cento circa non paganti (fra Istituti gratuiti per tutti e Istituti dove invece c'è chi paga un biglietto). Per concludere questa breve analisi statistica regionale, il Lazio e quindi, in primo luogo, Roma (compresa Ostia Antica, ovviamente) attraggono il 30,3 per cento dei frequentatori annuali di tutti i musei e siti archeologici statali, fra italiani e stranieri. Il che porta gli introiti lordi della rete regionale laziale di musei e aree archeologiche appartenenti allo Stato a 28.588.520 euro (l'equivalente di 55,5 miliardi di vecchie lire), un terzo esatto degli incassi lordi di tutti i siti e gli istituti statali. I quali introitano dunque 85.833.472 euro al lordo delle trattenute.

Se confrontiamo queste e altre cifre - per esempio quelle dei cosiddetti servizi aggiuntivi - con lo sterminato panorama di 734 aree archeologiche, di oltre 700 musei e di centinaia e centinaia di monumenti appartenenti allo Stato, vediamo che non si tratta di grandi numeri. Nel 2002, agli incassi sopraesposti, vanno in gran parte addizionati i servizi aggiuntivi, appaltati a privati, di caffetteria, ristorante, bookshop, visite guidate, ecc. : nel complesso dell'apparato statale essi hanno registrato 7.174.184 utenti per un incasso lordo di 29.816.959 euro (spesa pro-capite, poco più di 4 euro soltanto) dei quali alle Soprintendenze ne sono toccati 4.598.287 euro (l'equivalente di 8,9 miliardi di vecchie lire). Nel Lazio i clienti dei servizi aggiuntivi sono risultati 1.888.937 per un introito lordo di 8.108.043 euro (spesa pro-capite, 4,3 euro) dei quali 1.092.580 euro alle Soprintendenze statali.

Mi scuso per la minuzia delle citazioni statistiche, ma essa era necessaria per far intendere meglio quanto sto per dire. Con l'avvento del centrodestra al governo e di Giuliano Urbani al Ministero per i Beni e le Attività Culturali si è accentuata di molto la tendenza a considerare i nostri beni culturali e ambientali, in stragrande maggioranza pubblici, come un patrimonio da "far fruttare", da "far rendere", anche direttamente e non soltanto (come mi parrebbe corretto) sul piano dell'indotto turistico. Si pretende cioè che i Musei e i siti e monumenti archeologici siano "redditizi", "facciano incassi", e consentano così l'ingresso nella gestione stessa e non soltanto nei servizi aggiuntivi di guardaroba, libreria, ristorazione, ecc. dei soggetti privati. Come Urbani va riproponendo da tempo e come si comincia a fare, partendo ovviamente dalla "polpa" dei musei più ricchi di visitatori lasciando a Stato, Regioni e Comuni, naturalmente, l'"osso", cioè la stragrande maggioranza. Lo stesso progetta di fare Altero Matteoli coi Parchi di vario livello pensati non come grandi polmoni naturalistici della biodiversità e dell'ambiente bensì come luoghi di turismo anche intensivo, di svago, sorta di luna-park consumistici. Idea simile a quella di chi pensa ai nostri centri storici - una volta liberati dagli abitanti - come a tante Disneyland del Medio Evo, del Rinascimento, del Barocco, ecc.

Il criterio è sbagliato in radice, nel senso che stravolge o capovolge un'idea democratica e progressiva secondo cui i beni culturali e ambientali hanno uno straordinario valore "in sé e per sé", indipendentemente dal fatto che "rendano" o "non rendano", e come tali vanno conservati, tutelati, restaurati : per noi e ancor più per le generazioni che verranno. Si tratti della chiesa di montagna abbandonata o del Pantheon, del borgo murato più isolato o di Venezia. Senza gerarchie poiché dell'uno e dell'altra è fatto il Bel Paese.

I dati soprariportati confermano quanto siano, oltretutto, fallaci quelle idee di "sfruttamento" intensivo e privatistico del nostro patrimonio museale. Confermati dalla situazione del Grand Louvre dove appena il 18 per cento delle entrate è formato dalla gestione dei servizi aggiuntivi o da quella dello stesso Metropolitan Museum di New York, dove il 46 per cento viene da servizi e merchandising (il restante 64 sono donazioni o denari pubblici). Per fortuna nel nostro Paese - a differenza di quanto avviene, per restare in Italia, nei Musei Vaticani - le categorie esentate, in tutto o in parte, dal pagamento del biglietto d'ingresso (anziani, scolaresche, studiosi, ecc.) formano circa la metà dei fruitori. Secondo un'idea che i laburisti inglesi applicarono su larga scala e che nei grandi Musei britannici - a cominciare dalla National Gallery di Londra e dal British Museum (qui per legge regale dal XVIII secolo) - vige tuttora e sta trovando nuovi estimatori. Gratuità, o libera offerta, vuol dire infatti la possibilità di fare continuamente della attività didattica, di far entrare i bambini nei musei meglio attrezzati per questi scopi, di creare cioè fin dall'infanzia l'abitudine "naturale" a frequentare i musei e le aree archeologiche. Come a Roma avviene, per esempio, nello splendido percorso che attraversa l'intero Foro Imperiale, dall'Arco di Tito a quello di Settimio Severo sotto il Campidoglio.

Sono fatti, questi, che hanno tanto più senso in una grande città antica che ha subito gli stravolgimenti e sventramenti di Roma (prima papali, poi umbertini e mussoliniani) dove centinaia di migliaia di persone vivono in quartieri per murati vivi costruiti dalla speculazione più selvaggia negli anni '50 e '60, quando la città cresceva al ritmo di 100.000 immigrati l'anno, affamati e senza lavoro, sradicati dal Lazio rurale, dall'interno della Campania, dell'Abruzzo, delle Marche, della Sicilia e così via. Sradicati e quindi estranei all'area metropolitana che li avrebbe ospitati. Tanto più bisognosi, loro e i loro figli e nipoti, di ritrovare anche nella memoria e nella storia di Roma nuove radici culturali, nuove consapevolezze, nuove appartenenze civili.

Il fatto che tanti sensazionali luoghi archeologici e storico-artistici siano tuttora poco frequentati, dagli abitanti stessi di Roma in primo luogo, ci dice che una politica in tal senso va molto potenziata e, a volte, addirittura attivata. Prendiamo alcune delle più belle e ricche Gallerie romane in palazzi strepitosi che sarebbero già da ammirare per sé soli : la Galleria Corsini alla Lungara conta appena 15.000 visitatori l'anno (e su quel livello o poco sopra si situa la formidabile Galleria Doria Pamphili tuttora privata), la Galleria Spada segna 23.600 ingressi, un po' meglio la Galleria d'Arte antica di Palazzo Barberini dove, da oltre settant'anni dovrebbe essere creato - quando il Circolo Ufficiali finalmente se ne andrà - un grande "polo" museale, nella quale si sale a quota 69.200 ingressi. Cifre che certo non sono granché adeguate alla qualità/quantità del patrimonio esposto e di quei palazzi patrizi e cardinalizi.

Discorso analogo si può fare per il circuito dei Musei Archeologici pubblici : il riallestito Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano nel 2001 era sotto i 90.000 fruitori, superati di poco nella splendida cornice di Villa Giulia, nel suo Museo Etrusco, mentre il recuperato e centralissimo Palazzo Altemps, dove è stata collocata la collezione Ludovisi, supera a stento i 60.000 ingressi l'anno, che quasi si dimezzano nella interessantissima Crypta Balbi di Botteghe Oscure. Né vanno meglio le cose nella ex Centrale Elettrica Montemartini all'Ostiense dove archeologia romana e archeologia industriale si sposano in maniera eccezionalmente suggestiva. Con non molti visitatori purtroppo. Del tutto immeritatamente.

Anche se a queste cifre poco incoraggianti va aggiunta una quota di visitatori i quali acquistano il ticket per l'intero circuito archeologico, siamo lontanissimi dai picchi del Colosseo e del Pantheon, ma pure dal risultato importante della Galleria e del Museo Borghese. O della stessa Domus Aurea riaperta pochi anni or sono (circa 190.000 ingressi, ma le visite sono di necessità contingentate). Del resto l'Istat ci dice che nel 2001 soltanto 25-26 abitanti oltre i sei anni del Lazio (superato in graduatoria dalla Lombardia), poco più della bassa media italiana, hanno frequentato siti archeologici e monumenti. Situazione che si ripete, leggermente in meglio, per mostre e musei : 30,7 nel Lazio (nettamente battuto però da Veneto, Lombardia e Piemonte) contro il 28 della media italiana.

Del resto, una delle "piaghe" nazionali è proprio questa : nella graduatoria dei Paesi nei quali le persone hanno frequentato almeno una volta all'anno un museo, pur con la nostra strepitosa, ineguagliabile rete di oltre 3.500 strutture museali (molte gratuite fra quelle civiche), figuriamo soltanto al decimo posto su quindici nazioni col 23 per cento. Siamo sotto la media europea (30 su cento) e lontanissimi dalla capolista Svezia (52 su cento), dalla Danimarca, dalla Gran Bretagna (42 su cento), e pure distanti da Finlandia, Olanda, Germania e Austria. L'Italia si situa poco sotto la Francia e appena sopra la Spagna e l'Irlanda. Pur con la nostra formidabile e capillare dotazione, ripeto, di patrimonio visitabile. Oggi molto più di ieri grazie agli sforzi realizzati negli anni del centrosinistra dallo Stato, e pure da Regioni e Comuni.

Dato che dovrebbe incoraggiare ulteriormente una politica decisamente più attiva nel campo della didattica, della educazione permanente. La quale invece col governo di centrodestra e con Urbani ministro sta subendo colpi su colpi venendo nettamente dopo una politica di "immagine" e di privatizzazione che "usa" il bene culturale anziché porlo al centro di una strategia educativa generale e coinvolgente. Al Comune di Roma poi sono stati sottratti con l'ultima Finanziaria tutti i fondi un tempo abbastanza copiosamente destinati alla legge per Roma Capitale (quella che ha consentito, per intenderci, la costruzione del nuovo Auditorium, anzi dell'intero Parco della Musica al Flaminio, al tempo del governo Dini, ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Baratta). In forza di questi e di altri tagli anche il Campidoglio ha meno risorse da destinare a tutto ciò.

Un'ultima considerazione che da sola meriterebbe un articolo. Questa indispensabile maggior valorizzazione del circuito museale-monumentale-archeologico romano sul mercato turistico interno e internazionale ma anzitutto fra gli stessi romani non confligge, alla fin fine, con una politica di mostre d'arte che dispone e disporrà di sempre più contenitori e che sembra sempre più difficile alimentare con esposizioni di qualità e di interesse elevato ? Personalmente temo di sì. Vi sono state, nel recente passato, mostre straordinarie d'arte o di archeologia che erano tali perché rappresentavano l'impegno speso da alcune persone in una intera vita di ricerca. Per citare le prime, penso alla mostra sull'Idea del Bello a Roma nel Seicento, a quella sul Futurismo o all'altra su Valori Plastici. Ma se i grandi contenitori si moltiplicano dopo Palazzo delle Esposizioni (in restauro), le Scuderie Papali del Quirinale, Mercati Traianei, Palazzo Venezia, il Vittoriano, Palazzo Ruspoli, ex Birra Peroni, il rinnovato Museo di Roma, non è che si scadrà nella "mostromania"? Non è che si sottrarranno, insomma, troppe idee e risorse ad un circuito di musei, collezioni, gallerie d'arte antica e moderna, ville e parchi storici (per non parlare di chiese che sono a loro volta grandi musei viventi) come nessun altra città al mondo può vantare ed esibire e che spesso poco ingrana? La macchina dei contenitori che ci sono, che costano e che bisogna alla fine riempire di continuo può essere infernale. Mentre una mostra seria, importante, se nasce da una ricerca, costa anni e anni di lavoro (quella sulla Celeste Galeria dei Gonzaga ne ha impegnati sette di anni). Personalmente, quando sento parlare di "evento", metterei volentieri mano alla fondina della pistola. Almeno per sparare a salve, o in aria. "L'evento si scava la fossa nella quale cadrà il giorno dopo", ha scritto il sociologo Jean Baudrillard. Dovremmo ricordarlo ed essergliene tutti più grati. Specie quanti abitano e operano a Roma.

La storia dell'arte nella società contemporanea

di Antonio Pinelli

Viviamo nell'era della cultura di massa e della civiltà dell'immagine: ce lo sentiamo ripetere di continuo e lo diciamo noi stessi, ad ogni occasione. Ma abbiamo mai riflettuto sul fatto che la recente irruzione dei media elettronici nella nostra vita quotidiana ha impresso un'ulteriore, formidabile accelerazione alla dirompente rivoluzione antropologica di cui sono state protagoniste e testimoni le generazioni che si sono succedute nel secolo scorso e in questo primo scorcio del nuovo millennio? E abbiamo consapevolezza di quale sia la portata dei cambiamenti in atto? Di come tutto ciò si rifletta sullo statuto della nostra disciplina, oltre che sulle condizioni effettive di svolgimento del nostro lavoro di storici dell'arte? Abbiamo idea di come tali mutamenti stiano di fatto imponendoci nuovi compiti e nuove responsabilità, che mutano profondamente il profilo deontologico della nostra professione?
Uno dei maggiori storici dell'arte viventi, Paul Zanker, così esordisce in un suo recentissimo e lucido intervento, intitolato I nuovi musei archeologici e la mancanza di visitatori: "Attualmente ci troviamo nel mezzo ad una svolta di cui non riusciamo ancora a misurare realmente la portata e il significato. Quelli che finora erano i media fondamentali della comunicazione si stanno, per così dire, smaterializzando, perdono la loro realtà tangibile, la loro concretezza. Parallelamente a ciò, le immagini sono diventate onnipresenti in una misura inaudita: qualsiasi tipo di informazione e di immagine può essere richiamato da ogni parte del mondo semplicemente battendo un tasto, e anche ciò in misura che minaccia di soffocare la riflessione, o anche solo la possibilità di conferire un ordine ai dati e alle impressioni sensoriali. Al tempo stesso, però, le immagini che ci vengono comunicate sono diventate manipolabili in una maniera tale che per ogni impressione che rivesta importanza ai nostri occhi dovremmo chiederci se possiamo fidarci dei nostri sensi".
Molti di noi, del resto, hanno esperienza di quanto sia facile per chiunque, anche per il più disabile, apportare le più strabilianti integrazioni, alterazioni, modifiche cromatiche, prospettiche, luminose ad un'immagine elettronica. Basta manovrare pochi tasti di quella portentosa diavoleria elettronica che risponde al nome di Photoshop e chiunque di noi entra nei panni di Andy Warhol. Moltiplica all'infinito le immagini, le distorce, le solarizza, le ricolora, con la differenza che Warhol, nella sua Factory, utilizzava in proprio o faceva utilizzare ai suoi collaboratori mezzi meccanici, ma in buona parte ancora manifatturieri, come la serigrafia o il riporto fotografico su tela emulsionata. C'era ancora un qualche residuo di manualità e di perizia artigianale nel suo lavoro di dissacrazione del mito dell'autografia e del "pezzo unico". Ora a noi è invece più che sufficiente compiere un breve apprendistato informatico, spendendo un paio d'ore nella lettura di un libretto d'istruzione. O meglio, data la notoria astruseria del gergo informatico con cui sono compilati questo genere di libretti, bastano ed avanzano quei pochi consigli che può dispensarci al riguardo chi è già esperto di quel mirabile software. Meglio ancora se non si tratta di un informatico di professione e, al pari di noi, è beatamente ignaro dei vertiginosi misteri del calcolo binario e si limita a fornirci i primi rudimenti della materia, introducendoci ai piccoli segreti di quell'operosa fucina di Vulcano che è Photoshop, dove l'immagine può essere sottoposta ad infinite variazioni e metamorfosi, sotto l'azione di strumenti tanto silenziosi quanto duttili, potenti e infallibili. Se non altro perché ogni applicazione errata può essere immediatamente scartata, oppure modificata e corretta, senza lasciare la minima traccia dell'errore compiuto.
La pervasiva invadenza delle immagini, che, sgargianti e cangianti, affollano il nostro panorama quotidiano, irrompendo nella nostra vita attraverso l'ipnotizzante flusso elettronico che si irradia dal tubo catodico o che illumina lo schermo a cristalli liquidi del nostro computer, alimentato dal reticolo ubiquitario del web, è né più né meno come tutte le grandi mutazioni indotte dal progresso tecnologico. Da una parte ci offre un'innegabile infinità di vantaggi di cui già non possiamo fare più a meno, ma dall'altra presenta risvolti negativi che non vanno sottaciuti, ma identificati, analizzati e fronteggiati. Tutto è diventato a portata di mano, anzi di tasto, ma il rischio è di restare sommersi dalla quantità e irretiti dallo spettacolo affascinante e ininterrotto del "flusso di superficie". Torna di prepotente attualità il tema della "perdita dell'aura", posto da Benjamin analizzando la prima e decisiva irruzione della "riproducibilità tecnica" dell'immagine, quella introdotta a partire dalla metà del XIX secolo dalla fotografia. Ma in replica alle tesi apocalittiche di chi si strappa le vesti, profetizzando la morte dell'arte, ha risposto una volta per tutte proprio Andy Warhol, quando ha impugnato senza esitazione la bandiera della "perdita dell'aura", ha esaltato l'eclisse dell'unicità e la morte dell'autografia e del "pezzo unico", esibendo immagini programmaticamente replicate in serie, proprio come prodotti industriali, procurando loro un nuovo riverbero luminoso. Una sorta di aura riciclata e di recupero, un'aura catturata con furbizia e inventiva, giocando in contropiede, di cui è eloquente emblema quella sua tela in cui sono allineate trenta immagine del "capolavoro unico" per antonomasia, la Gioconda leonardesca, che si fregia dell'esplicito titolo: Thirty better than one.
Scartiamo dunque le facili e sterili geremie degli apocalittici, ma non chiudiamo gli occhi di fronte alle nuove sfide e responsabilità imposte dalla rivoluzione in atto, e dunque cerchiamo risposte e rimedi ai risvolti negativi di un sovvertimento dei paradigmi, che ha però l'innegabile pregio di imprimere una formidabile spinta alla diffusione e democratizzazione della cultura.
Un esempio di queste meditate e concrete risposte è proprio nell'intervento di Zanker che ho citato poc'anzi. Dopo aver esordito con quella presa d'atto della rivoluzione informatica di cui vi ho detto, lo studioso infatti passa a considerare ciò che accade nei Musei archeologici, e non può fare a meno di constatare che, se da una parte le opere d'arte antica e perfino gli antichi oggetti della vita quotidiana in essi contenuti conservano intatto il loro potere di fascinazione, dall'altra è purtroppo evidente una crescente disaffezione da parte dei visitatori. Visitatori che però accorrono a frotte e sono disposti a sopportare anche lunghe file di attesa, quando quegli stessi oggetti sono esposti in mostre temporanee, adeguatamente reclamizzate. Tocchiamo qui, uno dei punti essenziali della situazione odierna. Nell'era della sua ubiquitaria riproducibilità tecnica, l'opera d'arte non ha per nulla perso le sue attrattive, anzi, le ha viste potenziarsi a dismisura, anche per contrasto con l'effimero e cangiante caleidoscopio di immagini che ci assedia. Per dirla di nuovo con Zanker: " Nessun medium elettronico può sostituire gli oggetti - le opere d'arte, le immagini i manufatti - che nel museo sono fisicamente presenti, afferrabili, autentici, ciascuno con la sua propria storia, con il tempo trascorso che inerisce singolarmente ad esso. Grazie alla loro fisicità, questi oggetti resistono ampiamente alle manipolazioni derivanti dal modo di presentazione e conservano la loro autenticità, la loro aura. Ed è quest'aura dell'oggetto tangibile che suscita la nostra curiosità, che pone domande, che ci attira e ci conduce all'interno della storia particolare di esso. A differenza della maggior parte delle immagini mediatiche, che intendono catturarci e imporsi a noi mediante la loro quantità, il ritmo e la psicagogia - la manipolazione della nostra mente - le immagini e gli oggetti storici concreti agiscono attraverso la loro silenziosa presenza. Essi concedono all'osservatore tutto il tempo che desidera; ognuno può avvicinarsi ad essi a suo modo, con le proprie domande e problemi; può osservarli in maniera fugace oppure intensamente, o anche passare oltre trascurandoli del tutto. Gli oggetti storici non si rivolgono a noi urlando un qualche messaggio, ma parlano raccontando di altri tempi. In tal modo essi creano uno spazio di distanza per in nostri occhi, per il nostro pensiero, per la nostra sensibilità, rendendo possibili, proprio in virtù di ciò, nuovi sguardi non solo sugli oggetti in quanto tali, ma non di rado anche su noi stessi".
Ma lasciamo ora Zanker, anche se consiglio i responsabili dei Musei romani di leggere attentamente i saggi e concreti rimedi da lui suggeriti per contrastare la diminuzione dei visitatori nella pur rinnovata e potenziata rete dei musei archeologici di Roma, e proviamo a formulare, sulla base di quanto esposto finora, qualche considerazione di carattere più generale.
Dunque non c'è stata "perdita dell'aura", anzi, come tutti abbiamo potuto constatare nell'era della cultura di massa e della civiltà dell'immagine, l'arte, in una società qual è quella occidentale che va sempre più secolarizzandosi - è diventata una sorta di nuova religione di massa. Le sue cattedrali sono non tanto i Musei - anche se i maggiori lo sono e come, con i loro milioni di visitatori annui che alimentano un pellegrinaggio che non conosce soste - ma le "città d'arte", con le loro chiese e i loro monumenti e, non ultima, la fitta rete dei templi laici in cui si celebra il rito magnetico e galvanizzante della grande mostra.
Credo di essere stato tra i primi a denunciare su un quotidiano il rischio della "mostrite", ovvero della tendenza infestante alla proliferazione delle mostre. Ma anche se rivendico la perenne attualità di quel grido di allarme, che intendeva soprattutto mettere in guardia sugli eccessi di un meccanismo di spettacolarizzazione disposto anche a macinare il vuoto pur di riproporsi e riprodursi di continuo, mi è ben chiaro quanto la formula della mostra risponda ai canoni e alle esigenze di una società di massa che ha nel clamore mediatico il suo vitale tam tam comunicativo di cui non può fare a meno, ma anche di come il modello dell'esposizione temporanea sia perfettamente funzionale ad un'esigenza che spesso i Musei o le Gallerie, con la loro labirintica dispersività, non riescono a mettere sufficientemente a fuoco. Mi riferisco ovviamente al fatto che la mostra, in linea di massima, presuppone un progetto, un'intenzionalità, un ben preciso disegno storico, sia esso monografico o di più ampio orizzonte.
Il modello della mostra ha dunque una quantità di pregi che non possono essere in alcun modo messi in dubbio: sono i suoi risvolti negativi che vanno capiti, isolati e, per quanto possibile, combattuti. Questi risvolti ed eccessi sono un po' sotto gli occhi di tutti, e poiché sono quanto mai rappresentativi di ciò che, più in generale, siamo chiamati oggi a fronteggiare e, se possibile, a correggere, proverò ad enumerarne i principali, che raggrupperei in due grandi categorie: quella dei guasti derivanti dalla fretta e quella dei guasti derivanti da un uso improprio o banalizzante della spettacolarizzazione. Ma, a ben vedere, spesso i due tipi di cause sono strettamente intrecciati.
La fretta è, per così dire, nel DNA delle mostre, anche laddove si fa una saggia e lungimirante politica di programmazione. Chi, come me, ha un'annosa dimestichezza, non tanto con la realizzazione di mostre, ma con chi le produce e con il giorno, sempre elettrizzante, della loro inaugurazione, non ha mai visto un curatore di mostra che non arrivi a quell'appuntamento spossato e trafelato, né ha mai visto una vernice che non necessitasse ancora degli ultimi ritocchi, e a volte di assai più di qualche ritocco marginale. Ma se la fretta è il principio attivo e per così dire la linfa vivificatrice di ogni mostra, talvolta può essere anche il germe patologico, quello che le impedisce di rispondere alla sua più solida e incontrovertibile giustificazione: l'essere prodotto e testimonianza di un preciso disegno storico, adeguatamente motivato, progettato, sostanziato. Quante mostre denunciano invece un'allarmante approssimazione, mancano di un preventivo lavoro di scavo, di una ricerca che le giustifichi, tessendo un solido ordito su cui si disegni e risalti con chiarezza la sua trama espositiva?
Qui in Italia, in particolare, il germe patologico si manifesta in tutta la sua virulenza, e ne sono quasi sempre fedele specchio i cataloghi, spesso tanto più sovradimensionati ed elefantiaci, quanto più si rivelano disorganici, colmi di interventi eterogenei e privi di un progettato aggancio con le esigenze della mostra e perfino con le legittime curiosità da essa suscitate nel visitatore: puro sbocco abusivo di pubblicazioni che, nel migliore dei casi, andrebbero destinate alle riviste specializzate, e nel peggiore sono puro esercizio retorico, fiere della vanità, o materia bruta per rimpinguare i pacchi di "titoli" da presentare ai concorsi.
Al cinismo e alla corrività incentivati dalla fretta si aggiungono poi i guasti della spettacolarizzazione forzata, che punta in modo ossessivamente ripetitivo sempre su quei quattro o cinque grandi nomi: la politica delle "grandi firme". Caravaggio, Michelangelo, Leonardo, gli Impressionisti, Monet, Manet, Picasso, e tutto il selezionato e abusato Pantheon degli "eternamente esposti" ed "eternamente restaurati", di coloro che vengono presentati e ripresentati in tutte le salse, perché richiamano le folle e garantiscono un sicuro "ritorno d'immagine" per sponsor pubblici e privati. O che magari non ci sono materialmente in questa o quella grande mostra, ma vi sono rappresentati per procura da pallidi surrogati - repliche, copie, opere di epigoni, originali più che dubbi - salvo poi comparire con i loro nomi di richiamo a far da specchietto delle allodole nei titoli gridati ai quattro venti dai media.
Si potrebbe continuare a lungo, ma vi faccio volentieri grazia di tante lamentele già scritte e lette infinite volte, per passare immediatamente a quali siano secondo me le conseguenze che vanno tratte a livello di deontologia professionale. Le più mascroscopiche sono intuibili e non mi ci soffermerò più di tanto. È ovvio che mi auguro che ogni storico dell'arte che si rispetti promuova solo progetti espositivi sostanziati da ricerche concrete e originali, che resista alle pressioni della fretta, della corrività, della spettacolarizzazione forzosa che si appoggia sempre e soltanto sui "soliti noti" o sulla panna artificiosamente montata delle scoperte più o meno fasulle.
Ma ci sono anche altre questioni che mi stanno ugualmente a cuore e di cui forse si parla meno. L'arte è ormai diventata "religione di massa". Bene: io mi auguro che noi, cui spetta, per così dire per statuto, la funzione dei sacerdoti di questo culto, non gettiamo altri pezzi d'incenso nel già colmo braciere della mitizzazione acritica. Il nostro compito, quando siamo chiamati a dare il nostro contributo ad una mostra, o comunque ad un'occasione di tipo divulgativo, è quello di far da tramite, di favorire il muto dialogo tra l'opera e il pubblico. Siamo chiamati a dar conto delle cose, dunque dobbiamo esser chiari, meglio se concisi, sempre concreti, capaci di dare piena e soddisfacente risposta alle curiosità suscitate. Non si tratta dunque di far risuonare a vuoto le fanfare della retorica, ma se mai di suscitare nel pubblico il senso critico, di aiutarlo a ricostruire il contesto materiale e culturale cui l'opera originariamente apparteneva, a ripercorrerne la storia critica, a orientarlo nel giudizio, e così via. In questi ultimi decenni tutti noi abbiamo visto crescere esponenzialmente la richiesta di svolgere una funzione di mediazione e di divulgazione nei confronti del grande pubblico, ed è anche questa crescita che rende un po' meno problematico l'inserimento nel mondo del lavoro dei tanti giovani che in questi ultimi anni si sono accostati sempre più numerosi alla nostra disciplina nelle Facoltà universitarie. Schede e didascalie nei cataloghi delle mostre, dépliants turistici, CD con itinerari e visite guidate nei Musei grandi e piccoli, recensioni giornalistiche, su carta o in rete, sono divenuti il pane quotidiano dei nostri laureati, dei nostri specializzati o specializzandi, dottori di ricerca o dottorandi: sradicare dal linguaggio e dalla mentalità di questi giovani le cattive abitudini contratte nelle aule universitarie o nelle biblioteche, quando sono inevitabilmente venuti a contatto con la nostra tradizionale cultura storico-artistica, ancora così impregnata di verbosità, fumosità, scarsa chiarezza e concretezza, falsa e pedante erudizione, sterile e arcadico stile paraletterario. Orbene: sradicare questi vizi non è un compito da poco, anche se può essere di grande aiuto l'esempio di Paesi come la Francia, l'Inghilterra, l'Olanda o gli Stati Uniti, dove la storia dell'arte soffre, se mai, di altri mali, ma non di questo. Che è un vizio antico della storia dell'arte, ma alligna soprattutto da noi.
Essere chiari, concisi, concreti, non significa però essere piatti e noiosi. Né significa che occorre semplificare o banalizzare ciò che per sua natura è invece denso di significati, variegato, cangiante, problematico: in una parola, complesso. Sono fermamente convinto che dietro l'oscurità e la vaghezza di certa scrittura storico-artistica (e non solo di quella) ci sono in genere due cause, non necessariamente connesse tra loro. Una è che scrivere bene, in modo chiaro e al tempo stesso capace di suscitare e tener desto l'interesse di chi legge è difficile, richiede fatica, un lungo e laborioso travaglio, che non consiste solo nel pur indispensabile labor limae. L'altra è che spesso l'oscurità della scrittura maschera la scarsa chiarezza del pensiero di colui che scrive. E magari la sua riluttanza a dichiarare i propri dubbi. Che a volte sono peraltro dubbi più che legittimi, perché il cammino della ricerca è lastricato di dubbi. Non bisogna celare la complessità dei problemi storici, e neppure sottacere ciò che è ancora avvolto nel mistero o nell'incertezza. Il dubbio - e la curiosità - sono l'inesauribile alimento del nostro lavoro di critici. Scherzando, ma non troppo, dico sempre ai miei allievi che il critico d'arte dovrebbe scegliere come proprio motto la frase "Dubito ergo sum" e che il suo patrono altri non può essere che l'impagabile San Tommaso, l'apostolo curioso e diffidente, che vuole sempre "toccare con mano".
A questo proposito, mi viene in mente un gustosissimo parallelo che ho sentito proporre tempo fa, in una memorabile conferenza, dal grande italianista Carlo Dionisotti. Egli ci faceva notare che la più vistosa differenza esistente tra le due vite, peraltro pressoché parallele dei due eruditi settecenteschi Girolamo Tiraboschi e Luigi Lanzi, che non solo furono contemporanei ma ebbero modo di conoscersi bene, essendo l'uno l'autore di una fondamentale raccolta di fonti della Letteratura italiana e l'altro di una non meno fondamentale Storia dell'arte in Italia, è che Tiraboschi passò praticamente tutta la sua vita dentro la Biblioteca Estense di Modena, mentre Lanzi non fece che attraversare in lungo e in largo l'Italia e l'Europa. Perché l'uno aveva come oggetto delle proprie investigazione i libri, l'altro le opere d'arte. Che vanno viste dal vero, e, quando ciò è possibile, nel proprio contesto originario, perché solo così dispiegano tutto il loro potere di attrazione e sono in grado di trasmettere il proprio più autentico messaggio. Un modello, quello dell'abate Lanzi, il "viaggiatore in arte", che vale la pena di proporre con forza ai giovani storici dell'arte che si affacciano alla disciplina oggi, in un'epoca in cui la rete di Internet rischia di paralizzarci, facendoci impigliare nella sua ragnatela luccicante e ingannevole, che ci consente di compiere da fermo ogni incursione e avventura, viaggiando dappertutto, ma finendo per girare a vuoto come criceti a compiere sempre lo stesso giro, un eterno voyage autour de notre chambre.
Tornando alla chiarezza e concretezza del discorso critico, va detto che se è ovvio che diverse sono le esigenze a seconda dell'interlocutore, e dunque che una cosa è quel che è necessario quando si fa della divulgazione - che peraltro può essere diversificata a seconda delle circostanze e del tipo di pubblico - un'altra è quando si scrive in sedi specialistiche, io tuttavia penso che i due livelli debbano essere in qualche modo collegati e che non debbano mai essere separati da un fossato incolmabile. In altre parole, auspico che la comunicazione divulgativa abbia la serietà, concretezza e profondità argomentativa della comunicazione scientifica, e questa, a sua volta, non si discosti troppo dall'agilità, dall'assenza di pedanteria e verbosità di una recensione di giornale o di un altro scritto destinato ad una larga diffusione. I due livelli devono essere comunicanti: in questo modo la ricerca non sarà staccata dal momento, divenuto ormai così importante, della divulgazione, e questa si alimenterà della ricerca migliore e più qualificata, allontanando da sé le facili tentazioni del già detto, visto e risaputo.
Ma veniamo ai mutamenti profondi subiti dalla storia dell'arte come disciplina negli ultimi decenni. C'è un primo cambiamento che è di carattere brutalmente quantitativo. Quando Giulio Carlo Argan, che è stato il mio maestro, si affacciò, negli anni Trenta, alla professione, gli storici dell'arte in Italia - ma mi verrebbe da dire, nel mondo - erano poche decine. La biblioteca di uno storico dell'arte era composta da pochi scaffali. Quando mi sono affacciato io, una trentina d'anni dopo, eravamo già qualche centinaio. Ma oggi siamo legioni. Basta guardare le nostre biblioteche o gli sterminati repertori bibliografici. Sono quasi quarant'anni che frequento la Biblioteca Hertziana, e in questo lasso di tempo l'ho vista non raddoppiare ma quadruplicarsi, quintuplicarsi.
Ma una mutazione non meno incisiva è quella che si è prodotta a seguito della crescente sensibilizzazione dell'opinione pubblica che siamo riusciti ad ottenere riguardo a questioni cruciali come la difesa del patrimonio artistico e la sua tutela. Insomma, riguardo a tutto ciò che ruota attorno al tema dei cosiddetti Beni Culturali.
So bene che quest'affermazione può oggi suonare amaramente beffarda. Da qualche anno a questa parte non facciamo che mobilitarci, cercando di parare, colpo su colpo, gli attacchi di ministri rapacemente cartolarizzatori, di codici che elevano a norma di legge la pratica del silenzio-assenso, di governi che inalberano gioiosamente la spettrale insegna del condono permanente e, come si usa dire, tombale. Non facciamo che firmare appelli accorati e indignati, scrivere articoli, promuovere convegni e incontri per arginare questa premeditata e micidiale offensiva, che mi auguro possa essere bloccata, una volta per tutte, con l'arma più affilata ed efficace di cui disponiamo in democrazia: il voto elettorale. E speriamo davvero che questo voto si possa darlo al più presto, perché ad ogni giorno che passa il terreno resta sempre più ingombro di macerie. Servirà parecchio tempo per sgombrarle e rimettere insieme i cocci di una civiltà giuridica andata in frantumi. Occorrerà tempo per operare un restauro che dovrà essere anche e prima di tutto un restauro delle coscienze.
Ma torniamo al tema dei cambiamenti prodotti nella Storia dell'arte dalla questione, sempre più viva e sentita, della tutela. Sono nati i Corsi di Laurea in Beni Culturali e sono cresciute, nelle nostre Facoltà, le cattedre di materie come Legislazione dei Beni Culturali o come Storia e tecniche del restauro. Per non dire di quelle che permettono agli storici dell'arte in erba di familiarizzare con questioni che ruotano attorno alla prassi della conservazione e del restauro: nuove filosofie della prevenzione e dell'intervento conservativo, fondate su nuovi e più sofisticati strumenti d'indagine che consentono di conoscere meglio i materiali costitutivi dell'opera d'arte e le cause che ne danneggiano l'integrità. Tutte queste nuove discipline hanno ampliato positivamente l'orizzonte della storia dell'arte, arricchendola di nuovi contenuti tecnico-scientifici e di una nuova e più matura consapevolezza riguardo alla storia materiale delle opere d'arte e alla questione centrale della loro conservazione.
Occorre però fare chiarezza, perché anche questo fenomeno, pur costituendo un chiaro progresso disciplinare cui non vogliamo rinunciare, ha i suoi risvolti negativi. Il rischio è sostanzialmente uno solo: e cioè che si perda contatto con la ragione prima, costitutiva della nostra disciplina. Che è disciplina storica, con tutto ciò che questo termine comporta, di piena appartenenza alle scienze umane, alle discipline umanistiche. Una cosa è acquistare familiarità con le tecniche diagnostiche o con gli aspetti tecnico-scientifici della conservazione, in modo che lo storico dell'arte sappia interagire con coloro i quali mettono le loro competenze tecniche e scientifiche al servizio del restauro e della tutela. Un'altra è far abusivamente transitare la Storia dell'arte nel novero delle discipline tecnico-scientifiche.
Che non si tratti di un rischio teorico, ma di un pernicioso fraintendimento che ha attecchito nella cultura di chi oggi ci governa, lo dice l'aberrante tentativo che abbiamo appena respinto - mi auguro definitivamente - di abolire la Laurea specialistica (o magistrale che dir si voglia) in Storia dell'arte, accorpandola con quella in Scienze e tecniche della conservazione dei Beni Culturali. Tentativo che poggiava proprio su questo interessato equivoco. Dico interessato, perché non dubito che un Governo qual è quello attualmente in carica si troverebbe a suo agio con dei Soprintendenti che ab origine, dalla loro formazione universitaria, siano stati allevati non come storici, ma con un curriculum ibrido, che non ne farebbe né degli scienziati né degli umanisti, ma dei mediocri tecnici, incapaci di avere una visione complessiva del problema conservativo e quindi puri esecutori di ordini provenienti dai vertici politico-amministrativi del Ministero.
Va invece ribadito che così come la tutela non può essere disgiunta da quella consapevolezza storica che solo un curriculum incardinato nelle scienze umane può conferire, l'approccio tecnico scientifico non è nella matrice identitaria della nostra disciplina, né della nostra specifica vocazione. Chi di noi storici dell'arte farebbe questo mestiere se quando ci iscrivemmo all'Università ci avessero proposto di laurearci in Scienze e tecniche della conservazione dei Beni Culturali?
Su questo tema faccio mie le giustissime osservazioni contenute nell'intervento in questo stesso Convegno di Mauro Matteini. È importante che vi sia una convergenza ed una collaborazione tra storici dell'arte e scienziati che si occupano di tutela e restauro, ma non nel senso che, a livello della formazione iniziale (per intendersi la laurea triennale e quella magistrale), si debba creare un ibrido, che porterebbe a snaturare sia l'una che l'altra identità. Gli storici dell'arte debbono formarsi come tali, e dunque nell'ambito di un curriculum incardinato nelle scienze umane, gli scienziati in un curriculum incardinato in quelle naturali. È però importante che questi due "soggetti diversi", come dice Matteini, "siano preparati ad interagire", e, a questo scopo vedo con molto favore la nascita di Scuole di specializzazione post-laurea magistrale o di Master anch'essi post-laurea magistrale, in cui si addestrino e specializzino coloro che, provenendo dai due diversi canali di formazione, abbiano capacità e interesse a sommare e a fondere, ad un più alto livello, le proprie competenze d'origine. Ma sarà necessariamente un numero abbastanza limitato (mi auguro non troppo) di "specialisti", rispetto a quelli che, formatisi come storici dell'arte, vorranno specializzarsi in altri aspetti della nostra disciplina.
Già perché il punto è proprio questo. La sensibilità che abbiamo suscitato nell'opinione pubblica a proposito del problema della tutela rischia, per certi aspetti, di ritorcersi paradossalmente contro di noi. Non si parla altro e non si pensa ad altro che in termini di tutela, valorizzazione, restauro. Ma la nostra disciplina (e gli sbocchi professionali dei nostri giovani allievi) non si esaurisce in questi pur importantissimi obiettivi della tutela del patrimonio. Va respinta con forza la "Beniculturalizzazione" a tutto campo della Storia dell'arte, e lo dice uno che, come tanti in questa sala, ha qualche titolo per rivendicare di aver contribuito a sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della tutela del nostro patrimonio artistico.
Il "nostro petrolio", i "giacimenti culturali", tutta quest'enfasi su una parola quanto mai equivoca "valorizzazione": è una deriva che in tempi di cartolarizzazioni e mercificazioni di vario genere va corretta e in gran fretta, perché ha prodotto e sta producendo guasti che rischiano di divenire irreparabili. Va ribadito con forza e chiarito, innanzi tutto alla classe politica, che la nostra disciplina non si esaurisce nell'orizzonte della tutela e del restauro, e soprattutto che è una disciplina storica a tutti gli effetti. Certo, come scriveva Argan in un memorabile saggio che inaugurava la sua rivista - un saggio e una rivista che volle intitolare non a caso "Storia dell'arte" - la nostra è una storia speciale, anche perché "si fa in presenza degli eventi". Lo storico dell'arte, a differenza dello storico tout court, non ha bisogno di evocare o narrare gli eventi di cui si occupa, ma di interpretarli
I nostri documenti storici sono le opere d'arte - quadri, affreschi, statue, edifici - i nostri archivi sono le chiese, i musei, i palazzi, le raccolte. La città stessa è per noi un immenso e stratificato archivio, da classificare, studiare, decifrare. Ma sono per noi altrettanto vitali gli archivi cartacei, ovvero quegli stessi che sono frequentati dagli storici in senso stretto. È lì che andiamo a cercare i contratti, gli inventari ed ogni altra traccia giuridica o amministrativa riguardante gli artisti e le loro opere
La storia e il giudizio storico sono il nostro orizzonte. Solo in questa luce, per riprendere, parafrasandola, la bella immagine proposta da Paul Zanker, le opere d'arte si aprono a noi raccontandoci di altri tempi. Solo così esse creano uno spazio di distanza per i nostri occhi, per il nostro pensiero, per la nostra sensibilità, rendendo possibili nuovi sguardi su di esse, e di riflesso, anche su noi stessi.


* Il presente contributo costituisce il testo dell'intervento letto in occasione del convegno Lo storico dell'arte: formazione e professioni. Scuola, università, tutela e mondo del lavoro, tenutosi a Roma, nella Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati, il 15 novembre 2004, organizzato dalla Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli con il contributo di Anastar, Anisa, Assotecnici, Comitato per la bellezza, Italia Nostra.

ASSOCIAZIONE BIANCHI BANDINELLI
Istituto di studi e ricerca fondato da Giulio Carlo Argan


Mozione conclusiva del convegno: "Lo storico dell'arte: formazione e professioni - Scuola, università, tutela e mondo del lavoro"

La giornata di discussione sul tema "Lo storico dell'arte: formazione e professioni", organizzata dall'Associazione Bianchi Bandinelli con il contributo di A.Na.St.Ar., A.N.I.S.A., Assotecnici, Comitato per la bellezza, Italia Nostra, che si è svolta nella Biblioteca della Camera dei Deputati, a Roma, il 15 novembre 2004, ha messo in evidenza l'allarmante gravità della situazione che si sta delineando, anche in rapporto alle riforme in corso, per l'insegnamento della storia dell'arte nella scuola e nella università italiana, da una parte, dall'altra per le professioni connesse alla conoscenza, conservazione, gestione, promozione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, sia nelle istituzioni del settore pubblico - Stato, Regioni, Enti locali - sia nel mercato del lavoro privato.

Per quanto riguarda l'insegnamento della storia dell'arte nella scuola e nell'università si è confermato irrinunciabile e urgente:

· che l'educazione all'arte e la disciplina storica dell'arte vengano rafforzate, oltre che nella scuola dell'obbligo, nei programmi in via di ridefinizione del secondo ciclo di istruzione, in particolare nell'ambito del nuovo sistema dei licei, ma possibilmente anche in quello della formazione professionale, in continuità con una tradizione che caratterizza la scuola italiana ormai da un secolo e che costituisce un modello a cui sempre più guardano gli altri paesi europei;

· che sia salvaguardata la formazione specifica degli insegnanti di storia dell'arte in ambito universitario, anche in collaborazione con le Accademie di Belle Arti tramite apposite convenzioni, ma non esclusivamente all'interno di queste ultime. Nell'attuazione dei nuovi ordinamenti didattici la presenza della disciplina storica dell'arte nelle Accademie di Belle Arti è prevista infatti in misura inadeguata rispetto agli altri insegnamenti e limitata per lo più agli sviluppi dell'arte contemporanea;

· che nella revisione in corso degli ordinamenti didattici universitari, articolati nei due cicli delle lauree e delle lauree specialistiche (in futuro "magistrali"), venga garantito un iter formativo specifico e coerente per lo storico dell'arte, nel contesto delle facoltà umanistiche che ne assicurano il radicamento nella cultura storica, più che mai necessaria come fondamento anche delle attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, pur nell'apertura al dialogo con le discipline scientifiche e con le nuove tecnologie;

· che non tardi oltre immotivatamente il decreto istitutivo delle nuove Scuole di specializzazione in Storia dell'arte (e di tutte le analoghe del settore dei beni culturali), biennali dopo la laurea magistrale e con accesso per pubblico concorso, come previsto dall'art. 6 della Legge 23 febbraio 2001, n. 29, affinché - nella progettata collaborazione tra MIUR e MBAC - venga assicurata quell'alta qualificazione culturale e professionale, omogenea per Stato, Regioni, Enti locali e privati che operano nel settore pubblico, che dovrà continuare a contraddistinguere i responsabili della tutela del patrimonio storico-artistico italiano, pena il suo inevitabile progressivo degrado;

· che si proceda, dopo tre anni di sperimentazione, all'indifferibile riordino dei Master - attivati in numero abnorme e con le modalità e i contenuti più diversi nel settore dei beni culturali -, sia sul piano quantitativo, attraverso forme di programmazione almeno a scala regionale, sia sul piano qualitativo, evitando l'attuale confusione di livelli e armonizzando i sistemi di validazione di tali corsi con i profili professionali e le competenze effettivamente richiesti da enti pubblici, associazioni di categoria e imprese, in definitiva per aumentarne la possibilità di presidiare precise posizioni di mercato.


Per quanto riguarda lo stato delle professioni è emerso chiaramente che:

· è ormai quasi inoperante nel Ministero per i beni e le attività culturali - all'interno del quale gli storici dell'arte rappresentano soltanto il 2% del totale del personale, come del resto rispettivamente archeologi e architetti - un sistema di reclutamento che premi l'elevata specializzazione da sempre richiesta alle figure responsabili dei complessi compiti di salvaguardia dei beni storico-artistici, essendo bloccato da anni l'accesso per concorso pubblico dall'esterno, mentre si è proceduto a un imponente processo di "riqualificazione" del personale interno, non sulla base dei titoli di studio e delle competenze scientifiche ma della sola anzianità di servizio e relativi compiti, processo che ha portato alla saturazione di pressoché tutti i posti disponibili per i funzionari tecnici e a una oggettiva perdita di qualità dell'amministrazione della tutela, già in progressivo indebolimento anche quanto al numero degli addetti;

· Regioni ed Enti locali, a seguito dell'unificazione delle carriere del personale, generalmente non riservano alle professioni speciali - quale appunto quella dello storico dell'arte - un trattamento peculiare, privilegiando spesso, ad esempio per la direzione dei musei, personale amministrativo privo dei titoli di studio e delle competenze scientifiche necessarie. Inoltre, operando in regime di autonomia, generano un multiforme sistema di reclutamento del personale preposto alla tutela dei beni storico-artistici, disomogeneo nella definizione dei profili professionali, dei requisiti di accesso (tra i quali raramente figura la laurea specifica, né tanto meno il diploma di specializzazione) e della mappa delle competenze richieste;

· a fronte del crescente affidamento ai privati delle attività di gestione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico pubblico, come sancito dal Titolo V della Costituzione e dal nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, manca qualsiasi norma o atto d'indirizzo che definisca in modo vincolante i profili professionali e gli standard qualitativi degli operatori - storici dell'arte, archeologi, antropologi, storici, architetti - cui viene di fatto affidato lo svolgimento di tali attività. Manca perciò qualsiasi garanzia circa la qualificazione scientifica del lavoro svolto in questo ambito, di cui pure si prevede una progressiva espansione, mentre si assiste a una continua crescita della piaga del precariato.

Le Associazioni promotrici, i relatori e i partecipanti all'incontro chiedono pertanto:

· che vengano ripensate in rapporto alle effettive esigenze della tutela le dotazioni organiche del Ministero per i beni e le attività culturali, destinando alle figure di elevata specializzazione scientifica un ruolo decisamente meno marginale. Imprescindibile a tal fine è riaprire al più presto concorsi pubblici per l'assunzione di personale altamente qualificato tra i diplomati delle Scuole di Specializzazione e dei Dottorati di ricerca del settore;

· che si giunga, a partire da un atto d'indirizzo della Conferenza Stato-Regioni, a una definizione dei profili professionali, legati sì alle competenze ma soprattutto e con chiarezza ai percorsi formativi, e di standard qualitativi omogenei per Stato, Regioni, Enti locali e per i privati che operano nel settore pubblico, ai fini del reclutamento delle figure scientifiche che operano nel campo dei beni storico-artistici;

· che per conseguire gli obiettivi sopra indicati la Conferenza Stato-Regioni si faccia promotrice di un'indagine conoscitiva in termini quantitativi e qualitativi sulla presenza dello storico dell'arte sia nel settore pubblico locale (Regioni, Enti locali) sia in quello privato, soprattutto presso quei soggetti che lavorano al servizio delle istituzioni pubbliche;

· che si arrivi a forme incisive di coordinamento tra gli storici dell'arte in generale e in particolare tra le associazioni professionali che li rappresentano, al fine di giungere a forme adeguate di riconoscimento e tutela della professione, come delle analoghe professioni specialistiche operanti nel campo dei beni culturali.

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