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In mostra

Ferrara dedica una mostra antologica a Robert Rauschenberg

di Paola Bonani

Un'ampia antologica dedicata al pittore americano Robert Rauschenberg si è aperta il 26 febbraio a Ferrara, nelle sale del Palazzo dei Diamanti. L'esposizione, che durerà fino al 6 giugno, a cura di Susan Davidson e David White, raccoglie un centinaio di opere che illustrano l'intera carriera dell'artista.
Il percorso dell'esposizione inizia con un dipinto della serie White painting del 1951. Quest'opera, con altri due quadri presenti in mostra (Untitled [horizontal black painting] del 1953 e il più piccolo Red Import del 1954), rappresenta - come osserva anche la curatrice nel suo saggio in catalogo - il momento di massimo contatto della ricerca di Rauschenberg con la pittura astratta americana: da un lato, quella di impronta costruttivista, nota al pittore attraverso gli insegnamenti di Josef Albers, già collaboratore del Bauhaus, allora direttore del Black Mountain College di Ascheville, che Rauschenberg frequentò tra il 1948 e il 1952; dall'altro, quella dell'espressionismo astratto, che si stava allora affermando in America e che l'artista conobbe direttamente attraverso l'opera di Franz Kline, anche lui insegnante ad Ascheville in quegli stessi anni.
Red Import, composta di stratificazioni di carta, stoffa e pittura, presenta una costruzione dell'immagine in imperfette zone geometriche di matrice concretista. Una struttura molto simile a quella delle opere di Alberto Burri, che Rauschenberg incontrò durante il primo soggiorno in Italia nel 1952, quando l'artista umbro stava lavorando ai primi Sacchi.
A questo viaggio italiano si collegano anche le fotografie e la serie delle Scatole personali, che Rauschenberg realizzò a Roma e che espose nel 1953 alla Galleria dell'Obelisco, nella stessa città. Si tratta di opere di impianto più concettuale: una serie di contenitori di objets trouvés, di diverse dimensioni e misure, in cui l'intervento dell'artista è limitato alla selezione degli oggetti e alla loro ricomposizione. Per un breve momento Rauschenberg sembra abbandonare la pittura, che riprenderà di lì a poco rinnovandola completamente.
Al suo ritorno negli Stati Uniti, infatti, tra il 1953 e il 1954, ha inizio la sua stagione più alta, con la nascita dei Combines. In questa serie di opere, che lo renderanno uno dei più significativi esponenti del movimento neo-dada, l'artista fonde pittura e scultura, oggetti reali e immagini, superando i limiti del quadro e invadendo lo spazio della vita reale.
A Ferrara sono presenti sei opere di questa serie, composta da centocinquanta dipinti: da Memorandum of Bids del 1956, in cui la pittura resta protagonista accanto al collage di stampo tradizionale, fino al noto Dylaby del 1962, dove, oltre agli inserti di materiali eterogenei, compaiono alcuni elementi grafici di derivazione commerciale. Questi innesti, presenti nelle sue opere già dal 1958, hanno indotto parte della critica contemporanea ad accostare l'opera di Rauschenberg alla Pop Art. Tale lettura sembra ancora più aderente alle opere successive al 1962, anno in cui l'artista, dopo un incontro con Andy Warhol, inizia ad utilizzare la stampa serigrafica, che veicola con sempre maggiore evidenza immagini della realtà americana. Tuttavia, permane sempre nelle sue opere un gusto squisitamente pittorico, una carica espressiva e un diletto per le imperfezioni volutamente esibite, che lo allontanano nettamente dalla freddezza e dall'ironia delle opere della Pop Art.
Nel 1964 Rauschenberg ottenne il Premio Internazionale della Pittura alla XXXII Biennale di Venezia. Subito dopo questo riconoscimento, che storicizzò parte del suo lavoro, l'artista americano smise di dipingere e si dedicò per il resto del decennio alla realizzazione di performances e a diverse collaborazioni teatrali. Questo salto è registrato nel percorso della mostra, che dopo le serigrafie del 1963, presenta quattro opere della serie dei Cardboard del 1971, assemblaggi di scatole di cartone appesi alle pareti. Ricerche che riecheggiano il clima dell'arte povera sono anche le serie successive Venetian del 1973, Jammer del 1975, Kabal American Zephyr del 1981-82, Neapolitan e Glut del 1987. Mentre ancora con la serigrafia e il disegno a transfer (tecnica da lui utilizzata già alla fine degli anni '50, che consiste nel trasferire su un supporto immagini stampate strofinandole sul retro con uno strumento appuntito), sono realizzate le opere della serie Hoarfrost del 1974, Spread del 1978, Anagram (A Pun) del 1997 e Short stories del 2001.
Se la mostra ha un difetto, come accade spesso per le esposizioni realizzate in collaborazione con gli archivi degli artisti (soprattutto se l'artista è ancora vivente, come in questo caso), è quello di uno squilibrio tra la parte storica, dedicata agli anni in cui Rauschenberg è stato un indiscusso protagonista del panorama artistico internazionale, e la parte molto più ampia dedicata alla sua produzione recente. Tuttavia, questa discutibile impostazione permette talvolta di fare interessanti scoperte, come accade per un gruppo di opere realizzate da Rauschenberg tra la fine degli anni '80 e la prima metà dei '90. In Urban Bourbons del 1988-95, Borealis del 1989-92 e Night Shades del 1991, l'artista, attraverso l'ossidazione, lo smalto e la serigrafia, indaga le qualità diverse del metallo e il suo potenziale materico, realizzando immagini di forte suggestione.


"Dylaby", 1962, Combine: olio su metallo, legno e tela cerata, cm 278x221x38, New York, Sonnabend Collection

L'università di Napoleone

di Emanuela Minuto

La mostra sull'"Università di Napoleone", allestita nel bel palazzo Lanfranchi, ha testimoniato con grande efficacia le significative innovazioni in campo universitario e le trasformazioni culturali che si registrarono a Pisa nel breve periodo dell'amministrazione francese (1808-1814); innovazioni e mutamenti che, in alcuni casi, sopravvissero alla dissoluzione del potere imperiale, magari in forma carsica e in qualche circostanza grazie alla memoria e alla biografia di affascinanti personaggi locali.
La riforma istituzionale dell'ateneo pisano, risalente al 1810, e l'avvio nello stesso anno delle pratiche per la creazione della Scuola Normale furono accompagnati da una profonda trasformazione dei contenuti dei corsi dalle vaste e variegate implicazioni di lungo termine. Il progetto napoleonico di istruzione, concepito in termini di immediata applicabilità di un sapere universitario "utile" alla dimensione economica e sociale della realtà imperiale, trovava una rapida declinazione a Pisa. Nella città toscana, le finalità bonapartiane si estrinsecavano soprattutto nel riconoscimento di una autonoma dimensione universitaria delle Scienze, nella rapida circolazione di volumi degli scienziati francesi e nell'introduzione di decisivi cambiamenti negli insegnamenti giuridici imposti dall'adozione dei codici napoleonici. La biblioteca universitaria, oggetto di particolari cure regolamentari allo scopo di farne finalmente un luogo pubblico di cultura, fu di conseguenza investita da un processo di profondo rinnovamento; nel patrimonio librario, infatti, si moltiplicavano i titoli provenienti d'oltralpe e le preziose riviste scientifiche, come la "Bibliothèque britannique" e le "Annales" del Museo di Storia naturale, e ovviamente i codici napoleonici. Così le raffinate raffigurazioni contenute in quest'ultima rivista, i disegni esplicativi delle "Annales de Chimie" e quelli di Lavoisier, Chaptal, Rozier e Davy non potevano non trovare posto nella mostra in uno spazio contiguo a quello del Codice di Commercio e del Code de Napoleon Le Grand, entrambi stampati per i tipi Molini, Landi e C. In quegli anni, questa stamperia pisana, guidata da Giovanni Rosini, aveva sperato, ma con scarso successo, di superare le difficoltà finanziarie che l'affliggevano, scegliendo di inserire in catalogo altri titoli di volumi francesi che andavano ad affiancarsi alla opere alfieriane e alle incisioni del Camposanto monumentale di Pisa, realizzate da Carlo Lasinio. Furono proprio il docente di Letteratura italiana all'Università locale, Giovanni Rosini, e l'incisore Carlo Lasinio a ravvivare l'opaco quadro delle arti figurative di Pisa dove, a differenza di quanto accadeva per esempio a Lucca, Firenze e Siena, non si segnalavano in quegli anni architetti e pittori di buon livello. Solo la scultura marmorea, secondo Da Morrona, conosceva sorti migliori grazie ai contributi del pisano Tommaso Masi e a Michele Van Lint, di cui sono stati esposti a palazzo Lanfranchi il pregevole Busto di Maddalena Andreini (del 1811, ma assai precoce nelle sue evidenze realiste) e un Apollo, modello in terracotta per la Fabbrica Inghirami, che testimonia dunque la formazione dell'artista nel campo dell'alabastro. Così appunto in un panorama figurativo non particolarmente brillante, Giovanni Rosini si distingueva, tra l'altro, per la sua attivissima partecipazione, connotata inequivocabilmente dalla profonda stima per Antonio Canova, al dibattito artistico di quegli anni; al contempo Carlo Lasinio, cogliendo l'opportunità presentatasi dalla trasformazione del Camposanto in un museo di importanza internazionale, si impegnava per l'attivazione di una scuola di disegno. Lasinio, le cui doti sono attestate da due notevoli incisioni, decideva di mettere a disposizione la propria esperienza e le collezioni artistiche di sua proprietà al fine di plasmare giovani allievi che di lì a breve avrebbero assistito alla formazione della seppur sfortunata Accademia di Belle Arti.
Se in generale il settore delle arti non registrava con l'arrivo dei francesi mutamenti sensibili, l'iconografia ad "uso domestico" si arricchiva di ritratti napoleonici, che potevano trovare collocazione nelle case e nei salotti di pisani felicemente legati all'imperatore e, in alcuni casi, definitivamente conquistati al nuovo sapere d'oltralpe. Il breve periodo dell'amministrazione napoleonica lasciò tracce indelebili anche in virtù di quei suggestivi personaggi, quali per esempio i Mastiani Brunacci e i Vaccà, che furono a lungo protagonisti della vita sociale e culturale pisana sia per la fama acquisita nelle gloriose campagne militari sia per le grandi doti scientifiche sia, soprattutto, per la brillante mondanità.


Duccio: At the Origins of Sienese Painting

di Holly Flora

Exhibition Schedule: Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala, Museo dell'Opera del Duomo, and Cathedral "Crypt," October 4, 2003-March 14, 2004.
Catalogue: Alessandro Bagnoli et al., Duccio: Alle origini della pittura senese. Milan, Silvana Editoriale, 2003. 539 pp., 300 ill. (chiefly col.). 48.00 euros (paperback). Italian only; updated English edition available December 2003.
Website: http://www.duccio.siena.it

On June 9, 1311, Duccio di Buoninsegna's Maestà was placed on the high altar of Siena cathedral. A mid-fourteenth-century Sienese chronicle describes its first presentation to the city:


"E in quello dì, chesi portò al Duomo si serroro le buttighe, e ordinò il vescovo una magnia, e divotta compagnia di Preti, e Frati con una solenne pricisione accompagnatto da Signori Nove, e tutti e gl'Uffizialli del comuno, e tutti e popolari, e di mano in mano tutti e più degni erano appresso a la detta tavolla co' lumi accesi in mano, e poi erano di dietro le donne, e fanciulli con molta divozione, e accompagniorno la detta tavolla per infino al duomo facendo la intorno al chanppo, come s'usa, sonando le chanpane tutte a gloria per divozione di tanta nobille tavolla, quanto è questa."

With similar pomp and reverence, almost seven hundred years later the entire city of Siena celebrated the first major exhibition devoted to the art of Duccio. The Sienese pride in Duccio is justified; his synthesis of traditional Byzantine forms, northern Gothic elegance, and the burgeoning Tuscan interest in naturalism had a lasting impact on the early Italian Renaissance. An exhibition devoted to this artist is long overdue. Duccio: Alle origini della pittura senese examined early Sienese art and follows its development from pre-Duccio to Simone Martini and the Lorenzetti brothers. Organized by Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, and Michel Laclotte, Duccio was dominated by panel paintings, though a few illuminated manuscripts, biccherne (account book covers), treasury objects, and sculptures are included.
The vast majority of works came from Sienese collections.Through stylistic analysis and a few new attributions, the exhibition attempted to describe the origins of Duccio himself and to underscore his impact on artists of succeeding generations. The selection of works, beautifully organized and presented, achieved this goal to a large degree.
With introductory essays for each chronological section of the exhibition, and one on the history of Siena in Duccio's time by Gabriella Piccinni, the catalogue also contains helpful reviews of previous attributions for each work, a documentary appendix, and a fully updated bibliography.In the first two galleries at Santa Maria della Scala, a series of works by Duccio's precursors, including Dietisalvi di Speme and Guido da Siena, offered a visual prelude to Duccio himself.
The works here illustrated the impact of Byzantine art on the Tuscan duecento, as seen in panels such as the Virgin and Christ Enthroned, usually cloistered in the Sienese convent of the Poor Clares (Cat. No. 9), and several of the important manuscripts displayed, such as the group of drawings on parchment attributed to Vigoroso da Siena, now in the Uffizi Gallery in Florence (Cat. Nos. 17-19).
The inclusion of manuscripts also alluded to Duccio's assumed, though undocumented, experience as an illuminator.The exhibition continued with a group of Madonna and Child paintings highlighting Duccio's relationship to Giotto and Cimabue, who were otherwise absent from the show. A powerful pairing of the Madonna from Castelfiorentino (Cat. No. 21), attributed to Cimabue and the young Giotto, and Duccio's Crevole Madonna (Cat. No. 22) provided an exercise in discerning the stylistic affinities and distinctions among the three masters. Following these, the magnificent stained glass window from the apse of Siena cathedral (Cat. No. 26) further illustrated the mutual influence of Duccio and Cimabue. In fact, the window was attributed to Cimabue for many years, but after the most recent cleaning and restoration, the exhibition emphatically reasserted Enzo Carli's attribution to Duccio. This window is a rare example of Gothic stained glass production in Italy, and is thus evidence of the multimedia skills of artists such as Duccio.The next gallery featured a painted crucifix from the private Sienese collection of the Salini (Cat. No. 25) attributed to the young Duccio for the first time. If this striking and unusual depiction of the "living" Christ on the cross is by Duccio, he made a tremendous artistic leap that the show failed to explain. The strongest visual comparison in favor of this attribution is that of the face of Christ with that in the Dormition panel of the window, but the catalogue photographs, which pair the two faces on opposite full pages (pp. 182-83), are more convincing than the works in person. The crucifix deserves much further study; an iconographic analysis would be revealing and might help to address problems of attribution and date.Several smaller paintings followed the Salini crucifix as a prelude to the works of Duccio's later period. The jewel-like Bern Madonna (Cat. No. 27) is a delight to see but would have been even more effective paired with the Madonna of the Franciscans (Cat. No. 24), displayed instead next to the Crevole Madonna. Such a pairing would have illustrated Duccio's skills as a miniaturist and his interest in patterns and fabric. These elements were highlighted well, however, by the gorgeous triptych lent by the Royal Collection of Her Majesty Queen Elizabeth II (Cat. No. 29), though here one also wishes that the National Gallery, London, and Museum of Fine Arts, Boston, triptychs had been included.
The part of the exhibition devoted to Duccio's Maestà (Cat. No. 32) was divided between the Museo dell'Opera del Duomo and Santa Maria della Scala. Though the placement of some panels within the main exhibition helped to continue the narrative of Duccio's artistic development, and showcased recent restoration efforts, the precious opportunity to reunite the fragments of Duccio's magnum opus in a single installation was lost.The second floor of the Ospedale was devoted to post-Duccio works, first presenting the three generations of Sienese painters following him, from the Maestro di Badia a Isola (Cat. No. 39) to Bartolomeo Bulgarini (Cat. Nos. 63-66). As the main part of the exhibition concluded, paintings by Simone Martini (Cat. Nos. 67-68) and the Lorenzetti (Cat. Nos. 69-73) highlighted both their debt to and their departures from Duccio, and finally, objects of goldsmiths work and sculpture referenced Duccio's relationship to northern Gothic art. Scholars trained in connoisseurship approaches must have found Duccio's emphasis on attribution and style satisfying and thought provoking, if not always convincing. This narrow focus, however, prevented the exhibition from presenting something new beyond attributions. Both the catalogue and show might have considered context and iconography as well, as studies by Florens Deuchler, Diana Norman, and others have done. There remains much to learn about Duccio in terms of the development of narrative in Trecento painting, and how his work relates to religion and popular piety, for example. One hopes that the compelling combination of works and the solid restoration efforts in Siena will spark future Duccio scholarship and take consideration of this artist in different, new directions.

This review was published in a different form by College Art Association, December 2003. www.collegeart.org.

Duccio,Croce dipinta, Siena, Coll. Salini
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