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Cinema e teatro

 

Dirò d'Orlando: tempo e tempi di una maratona letteraria

di Giovanna Rizzarelli

Dirò d'Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d'uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m'ha fatto,
che il poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti finir quanto ho promesso.

Sembrava di sentir risuonare continuamente questi versi del proemio, mentre si svolgeva la maratona letteraria Dirò d'Orlando. Lettura dell'Orlando Furioso (Pisa, Vecchi Macelli, 2-5/7/2003; produzione: Scuola Normale Superiore di Pisa; regia e direzione artistica: Roberto Fratini Serafide; allestimento scenografico: Beatrice Meoni): lotta contro il tarlo del tempo, che ha fatto da padrone in questi lunghi quattro giorni e notti in cui due sale chirurgiche bianche con il marchio della crudeltà stampato in controluce, sono state vivificate da un verdissimo prato e dalle cadenzate ottave del Furioso.
Tempo che passa, tempo del racconto e tempo della lettura che si mescolano in una serrata competizione che bissa nelle cellette laterali dei macelli gli eventi già snocciolati: serpente ininterrotto che contraddice la narrazione e la riporta là dove è iniziata. In questo ripetersi, meccanico come la cruenta cerimonia della macellazione, il poema svela le sue ragioni: tra donne alchimiste che con belletti e ricostituenti sconfiggono il mago Atlante, incatenato al suo libro come un nobile ottocentesco ancorato alla sua poltrona e difeso da una coperta di lana; e vergini assassine che imbandiscono polli, beffarde e crudeli dinanzi al pubblico armato di coltelli.
La storia si ripete e sfugge al tortuoso procedere delle mille avventure e al difficile ascolto delle troppe storie, dei troppi nomi che vengono alla ribalta, solo per un attimo, su di una quercia-leggio e un labirinto-orchestra, per poi scomparire e lasciare l'uditorio con il fiato sospeso e forse un po' inconsapevole, disperso dinanzi a tanta forza di sensazioni, musiche, luci, immagini, che spesso molto dicono ma poco guidano nel difficile scorrere dei canti.
In questa lunga corsa, che lascia il fiato corto, tutto tende lì dove precipita il destino di Orlando: il gorgo della pazzia, giro di boa prima della risalita.
Lì il tempo si mostra con tutta la sua urgenza, il tempo che scade e rimette insieme le ore parziali, gli orologi fermi degli eventi ripetuti messi a raccolta prima della scoperta sconcertante che annulla il tempo e precipita nell'oblio, inceppando l'ingranaggio della mente che non sa e non vuole procedere più, oltre la scoperta lancinante della delusione, e ripete meccanica l'interrogativo al quale non trova risposta: What time is it?
Il paladino folle esce dal tempo, dalla Storia e li cancella con l'ira inconsapevole: nulla può esistere dopo quell'istante che in sé tutto contiene con la sua enormità.
Ma neanche questo può fermare la lettura, anzi le dà un nuovo corso, una cronologia alternativa e pervicace che non conosce proroghe fino al compimento di un altro destino, dei mille destini che si intersecano in ricamo caotico che mima la vita e le fa il verso.
Tutto si annoda per poi sciogliersi nell'ultima composta scena che chiude e riapre, restituisce e consegna a chi ascolta il viatico per una nuova attesa. Il poema - piccolo universo - comprende e prevede anche chi lo ascolta, lo mette in scena come parte della storia sul quale puntare le luci prima di poter pronunciare l'ultimo verso: il buio accoglie la corte che ha offerto il suo orecchio, dame in nero dagli occhi coperti da vetri scuri e con la bocca serrata da un piccolo specchio, amuleto della loro effimera bellezza.
Dopo il congedo a questo pubblico, bloccato in eterno negli ingranaggi del libro che legge, tocca a chi per caso un sabato sera di luglio ha atteso paziente la parola fine. La maratona è quasi conclusa, le nozze costrette all'ultimo indugio, mentre gli occhi come candele accese si consumano sprofondando nei versi finali, come l'arma che si incide nella fronte del fiero antagonista spegnendo per sempre la sua anima sdegnosa.
Le ultime parole sono state pronunciate e non resta che scrivere il motto che enigmatico apre il tempo nuovo, un nuovo rebus: pro bono malum. Non resta che accettare che il sapore di qualcosa di incompreso resti in fondo alla gola, che troppi sentieri ci siano sfuggiti e sperare magari che la prossima volta tanta bellezza, pura creatività estetizzante, ci conduca per vie meno accidentate; e magari dopo i sentieri già percorsi della poesia omerica, dantesca e ariostesca attendiamo le note di un epos moderno.

 

Salvatores non ha paura di giocare con Ammaniti

di Federica Ivaldi

Seduti in poltrona, immersi nel buio e nel silenzio, si aspetta curiosi.
Lo schermo fiuta e alimenta i segni dell'attesa.
I titoli sono dei più classici: bianco su nero, nessun accompagnamento musicale. Finalmente un suono, il ritmo metallico di una goccia, e gli occhi cominciano a indagare l'ombra: emergono appena forme di rocce umide.
Come se la vista s'abituasse lentamente al buio, la pellicola si fa poco a poco più chiara… al martellare della goccia si sostituisce, leggerissimo, un pianoforte. L'occhio ancora indaga la caverna: su una parete una scritta in gesso Io non ho paura.
Ci siamo. La macchina da presa, mossa finora in una carrellata orizzontale, si solleva, lascia il buio, attraversa terra e radici e fra vermi ed insetti sale al giallo di un campo di grano e, più in alto, al blu abbagliante di un cielo estivo. Un unico movimento di macchina ci ha portati dall'angoscia alla più piena felicità: bambini corrono fra le spighe. Le cicale coprono il pianoforte. Il percorso del protagonista, Michele, è opposto: rendendosi conto che in mezzo al grano alto e pieno di sole c'è un buco nero che nasconde qualcosa, passerà dalla spensieratezza dei giochi alla consapevolezza adulta; dalla luce dei campi al buio; dal dialogo con la natura, al silenzio delle cose; dalla paura dei mostri a quella degli uomini, al coraggio.
"E tutto si è fermato. Una fata aveva addormentato Acqua Traverse. I giorni seguivano uno dopo l'altro, bollenti, uguali e senza fine". Niccolò Ammaniti ha ambientato il suo splendido romanzo nell'agosto del '78, l'estate più calda del secolo, l'anno del rapimento Moro.
Ma per gli occhi di un bambino la storia resta fuori dall'esperienza e il caldo non è che l'incantesimo di una fata. L'infanzia è il momento meraviglioso in cui ci si dimentica di tornare per pranzo, facendo arrabbiare la mamma, e si sfida il caldo infernale, perché la fantasia sta lavorando. La scuola è chiusa e gli adulti tappati in casa, sopraffatti dall'afa. I ragazzini vagano liberamente fra la campagna e il microscopico paese a caccia di emozioni, giovani esploratori in terra d'Africa. Le pedalate nel grano sanno di sfida all'ignoto, di contee da conquistare e mostri da sconfiggere.
L'infanzia è il periodo fantastico in cui tutte le stranezze si spiegano con la fantasia; i misteri degli adulti, le lacune, si colmano con l'immaginazione. Quando Michele scopre che nel buco nero c'è un bambino magrissimo quasi cieco e sporco che, accudito per strane ragioni da qualcuno, mangia in pentole uguali a quelle di casa sua, la spiegazione è una: quel bambino è un suo fratello pazzo; suo padre doveva ucciderlo, non ha avuto la forza e l'ha rinchiuso lì. Filippo, il bimbo della buca, crede invece di essere morto - altrimenti perché i suoi genitori non verrebbero a prenderlo? - e crea una topografia infernale in cui i buchi sono i posti dove si sta da morti e c'è un signore dei vermi che porta cibo e acqua, e gli orsetti lavatori che fanno compagnia.
E il bambino pulito e sorridente che scende nella buca è per forza l'angelo custode. In poche giornate, Michele si fa quasi adulto, si svincola dall'incondizionata fiducia nei confronti dei genitori, scopre che come lui sbagliano e hanno paura. Sa che i grandi sono alle strette e che Filippo rischia di essere ucciso.
È il suo angelo custode. Inforca la bici e va: non ha più paura di affrontare mostri e animali notturni - li sfida uno ad uno con una splendida cantilena - né di violare il veto dei genitori. Se gli adulti hanno sbagliato (nel goffo tentativo di raggiungere il benessere e trasferirsi al Nord) lui solo può rimediare. Cosa resta nel film? Tutto: la paura e il coraggio di Michele; il fascino e la nostalgia del mito creato dai bambini per spiegare la storia; la distanza fra i due mondi. Un'equivalenza perfetta. Salvatores aggiunge l'evidenza dell'immagine, la potenza del colore, la densità della fotografia, la chiarezza significante della scenografia: i bimbi si muovono in 'esterno-giorno'; gli adulti e Filippo, il bimbo rapito, al chiuso e al buio. La luce naturale e calda che accompagna Michele si contrappone a quella violetta, fredda e irreale che illumina Filippo e gli adulti.
Ma il raggio quasi sovrannaturale che dall'alto cala sul bambino è il segno del dubbio, perché la buca è il luogo della prova; la luce che accompagna le riunioni dei grandi è il prosaico riflesso della televisione, che tutto può - o crede - di spiegare. A unire i due mondi, il buio dei grandi e quello di Filippo, stanno le corse fra il grano di Michele. Salvatores esalta alcuni oggetti-simbolo: gli occhiali rotti: la paura per l'infrazione al mondo dei grandi; il grande pane dorato: i bisogni primari, fame solidarietà e amicizia; le trebbiatrici che irrompono mentre Michele gioca: la fine dell'infanzia e delle illusioni; la gondola di plastica: le aspirazioni di benessere degli adulti, incomprensibili ai bambini…
Filtro costante è il punto di vista dei bambini. Se il protagonista è alto un metro e trenta, la macchina sarà posizionata a un metro e trenta da terra; se corre fra le spighe, vedremo il grano piegarsi e sfilare veloce ai bordi dell'immagine; se dimentica lo scorrere del tempo, la narrazione si dilaterà in un montaggio capace di raccontare il tempo pigro di un'estate bambina.
Da Salvatores ci aspettavamo personaggi in fuga, territori aridi, zone di confine - questa campagna meridionale, lontana dalla modernità, come un immaginario midwest mediterraneo lo è, a suo modo.
Ma il film è ben diverso dai precedenti. Contamina thriller e romanzo di formazione, horror e riti d'iniziazione, raccontando un potenziale noir attraverso il filtro non realistico degli occhi di un bambino. Abbandona le tematiche consuete (la fuga, il viaggio, il sogno) e i personaggi tipici (gli uomini immaturi, di cui Abatantuono, squisita e infedele autocitazione, è rappresentante di spicco). Si apre un capitolo nuovo, già preannunciato dal patetico boss ciccione alla fine di Amnésia: "è la fine dei viaggi e dei sogni"… Il cambio tematico ha ovviamente riscontro sul piano formale. Salvatores elimina le invenzioni surreali di Nirvana e Denti, la cronologia sperimentale tarantiniana, lo spleet-screen e il multiprospettivismo di Amnésia, e torna a una fotografia e a un montaggio più pacati, a espedienti classici, come le dissolvenze.
Meno ardimento e maggiore efficacia, ma non senza marche d'autore e vezzi: molte riprese con la macchina a mano, inquadrature spesso marcate (plongée e contre-plongée, forti contrasti luminosi, punti di vista straniati), addirittura 'sbagliate' (oggetti e animali in primissimo piano disturbano i campi medi e lunghi, i personaggi sono tagliati dal quadro), montaggio che infrange volentieri le regole dei raccordi… sono vezzi equivalenti al linguaggio bambino e qua e là sgrammaticato di Ammaniti nel libro. Tornando bambino Salvatores è cresciuto. Il film finisce, i titoli abbandonano lo schermo. Buio e silenzio. Si esce dalla sala stupiti e soddisfatti: il libro è rinato in una nuova forma.
Il film, fedele fino alla perfezione, ma senza essere servile, ha confermato all'immaginario che quelle campagne e quei bambini esistono, come li avevamo immaginati leggendo Io non ho paura.

 

Un fotogramma tratto dal film

 

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