Salvatores non
ha paura di giocare con Ammaniti
di Federica Ivaldi
Seduti in poltrona,
immersi nel buio e nel silenzio, si aspetta curiosi.
Lo schermo fiuta e alimenta i segni dell'attesa.
I titoli sono dei più classici: bianco su nero, nessun accompagnamento
musicale. Finalmente un suono, il ritmo metallico di una goccia, e gli
occhi cominciano a indagare l'ombra: emergono appena forme di rocce umide.
Come se la vista s'abituasse lentamente al buio, la pellicola si fa poco
a poco più chiara… al martellare della goccia si sostituisce, leggerissimo,
un pianoforte. L'occhio ancora indaga la caverna: su una parete una scritta
in gesso Io non ho paura.
Ci siamo. La macchina da presa, mossa finora in una carrellata orizzontale,
si solleva, lascia il buio, attraversa terra e radici e fra vermi ed insetti
sale al giallo di un campo di grano e, più in alto, al blu abbagliante
di un cielo estivo. Un unico movimento di macchina ci ha portati dall'angoscia
alla più piena felicità: bambini corrono fra le spighe. Le cicale coprono
il pianoforte. Il percorso del protagonista, Michele, è opposto: rendendosi
conto che in mezzo al grano alto e pieno di sole c'è un buco nero che
nasconde qualcosa, passerà dalla spensieratezza dei giochi alla consapevolezza
adulta; dalla luce dei campi al buio; dal dialogo con la natura, al silenzio
delle cose; dalla paura dei mostri a quella degli uomini, al coraggio.
"E tutto si è fermato. Una fata aveva addormentato Acqua Traverse. I giorni
seguivano uno dopo l'altro, bollenti, uguali e senza fine". Niccolò Ammaniti
ha ambientato il suo splendido romanzo nell'agosto del '78, l'estate più
calda del secolo, l'anno del rapimento Moro.
Ma per gli occhi di un bambino la storia resta fuori dall'esperienza e
il caldo non è che l'incantesimo di una fata. L'infanzia è il momento
meraviglioso in cui ci si dimentica di tornare per pranzo, facendo arrabbiare
la mamma, e si sfida il caldo infernale, perché la fantasia sta lavorando.
La scuola è chiusa e gli adulti tappati in casa, sopraffatti dall'afa.
I ragazzini vagano liberamente fra la campagna e il microscopico paese
a caccia di emozioni, giovani esploratori in terra d'Africa. Le pedalate
nel grano sanno di sfida all'ignoto, di contee da conquistare e mostri
da sconfiggere.
L'infanzia è il periodo fantastico in cui tutte le stranezze si spiegano
con la fantasia; i misteri degli adulti, le lacune, si colmano con l'immaginazione.
Quando Michele scopre che nel buco nero c'è un bambino magrissimo quasi
cieco e sporco che, accudito per strane ragioni da qualcuno, mangia in
pentole uguali a quelle di casa sua, la spiegazione è una: quel bambino
è un suo fratello pazzo; suo padre doveva ucciderlo, non ha avuto la forza
e l'ha rinchiuso lì. Filippo, il bimbo della buca, crede invece di essere
morto - altrimenti perché i suoi genitori non verrebbero a prenderlo?
- e crea una topografia infernale in cui i buchi sono i posti dove si
sta da morti e c'è un signore dei vermi che porta cibo e acqua, e gli
orsetti lavatori che fanno compagnia.
E il bambino pulito e sorridente che scende nella buca è per forza l'angelo
custode. In poche giornate, Michele si fa quasi adulto, si svincola dall'incondizionata
fiducia nei confronti dei genitori, scopre che come lui sbagliano e hanno
paura. Sa che i grandi sono alle strette e che Filippo rischia di essere
ucciso.
È il suo angelo custode. Inforca la bici e va: non ha più paura di affrontare
mostri e animali notturni - li sfida uno ad uno con una splendida cantilena
- né di violare il veto dei genitori. Se gli adulti hanno sbagliato (nel
goffo tentativo di raggiungere il benessere e trasferirsi al Nord) lui
solo può rimediare. Cosa resta nel film? Tutto: la paura e il coraggio
di Michele; il fascino e la nostalgia del mito creato dai bambini per
spiegare la storia; la distanza fra i due mondi. Un'equivalenza perfetta.
Salvatores aggiunge l'evidenza dell'immagine, la potenza del colore, la
densità della fotografia, la chiarezza significante della scenografia:
i bimbi si muovono in 'esterno-giorno'; gli adulti e Filippo, il bimbo
rapito, al chiuso e al buio. La luce naturale e calda che accompagna Michele
si contrappone a quella violetta, fredda e irreale che illumina Filippo
e gli adulti.
Ma il raggio quasi sovrannaturale che dall'alto cala sul bambino è il
segno del dubbio, perché la buca è il luogo della prova; la luce che accompagna
le riunioni dei grandi è il prosaico riflesso della televisione, che tutto
può - o crede - di spiegare. A unire i due mondi, il buio dei grandi e
quello di Filippo, stanno le corse fra il grano di Michele. Salvatores
esalta alcuni oggetti-simbolo: gli occhiali rotti: la paura per l'infrazione
al mondo dei grandi; il grande pane dorato: i bisogni primari, fame solidarietà
e amicizia; le trebbiatrici che irrompono mentre Michele gioca: la fine
dell'infanzia e delle illusioni; la gondola di plastica: le aspirazioni
di benessere degli adulti, incomprensibili ai bambini…
Filtro costante è il punto di vista dei bambini. Se il protagonista è
alto un metro e trenta, la macchina sarà posizionata a un metro e trenta
da terra; se corre fra le spighe, vedremo il grano piegarsi e sfilare
veloce ai bordi dell'immagine; se dimentica lo scorrere del tempo, la
narrazione si dilaterà in un montaggio capace di raccontare il tempo pigro
di un'estate bambina.
Da Salvatores ci aspettavamo personaggi in fuga, territori aridi, zone
di confine - questa campagna meridionale, lontana dalla modernità, come
un immaginario midwest mediterraneo lo è, a suo modo.
Ma il film è ben diverso dai precedenti. Contamina thriller e romanzo
di formazione, horror e riti d'iniziazione, raccontando un potenziale
noir attraverso il filtro non realistico degli occhi di un bambino.
Abbandona le tematiche consuete (la fuga, il viaggio, il sogno) e i personaggi
tipici (gli uomini immaturi, di cui Abatantuono, squisita e infedele autocitazione,
è rappresentante di spicco). Si apre un capitolo nuovo, già preannunciato
dal patetico boss ciccione alla fine di Amnésia: "è la fine
dei viaggi e dei sogni"… Il cambio tematico ha ovviamente riscontro sul
piano formale. Salvatores elimina le invenzioni surreali di Nirvana
e Denti, la cronologia sperimentale tarantiniana, lo spleet-screen
e il multiprospettivismo di Amnésia, e torna a una fotografia e
a un montaggio più pacati, a espedienti classici, come le dissolvenze.
Meno ardimento e maggiore efficacia, ma non senza marche d'autore e vezzi:
molte riprese con la macchina a mano, inquadrature spesso marcate (plongée
e contre-plongée, forti contrasti luminosi, punti di vista straniati),
addirittura 'sbagliate' (oggetti e animali in primissimo piano disturbano
i campi medi e lunghi, i personaggi sono tagliati dal quadro), montaggio
che infrange volentieri le regole dei raccordi… sono vezzi equivalenti
al linguaggio bambino e qua e là sgrammaticato di Ammaniti nel libro.
Tornando bambino Salvatores è cresciuto. Il film finisce, i titoli abbandonano
lo schermo. Buio e silenzio. Si esce dalla sala stupiti e soddisfatti:
il libro è rinato in una nuova forma.
Il film, fedele fino alla perfezione, ma senza essere servile, ha confermato
all'immaginario che quelle campagne e quei bambini esistono, come li avevamo
immaginati leggendo Io non ho paura.
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