Incontri
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In mostra

Marco Pino trasfigurato a metà / TARLO!

di Gerardo de Simone

Nella costante dialettica dei rapporti tra centro e periferia troppo spesso il secondo termine finisce relegato ai margini, o, peggio, obliato, facendo torto alla verità storica, che non si alimenta mai di monologhi.
La recente mostra di Marco Pino a Napoli (12 aprile-30 giugno 2003) incarna un modello virtuoso, da ripetere e da emulare dove possibile, raro antidoto alle mostre-evento oggi imperanti e imperversanti: un nucleo significativo ma non esorbitante di opere, splendenti per il fresco restauro, esposte e fruite nella loro collocazione originaria, sugli altari e nelle cappelle di cinque chiese del centro storico di Napoli (SS. Severino e Sossio, S. Angelo a Nilo, Gesù Vecchio, Duomo, S. Lorenzo Maggiore). L' "emozione filologica" di godere dei dipinti nel contesto per cui furono pensati, con il relativo contorno architettonico, scultoreo, decorativo, a fresco. In aggiunta, un nucleo di mostra più tradizionale, ospitato nella chiesa sconsacrata, e appena restaurata, dei SS. Marcellino e Festo, a offrire, accanto ad altre opere napoletane di provenienza museale, una campionatura della produzione dell'artista prima dell'approdo partenopeo, tra la natìa Siena e Roma, con il ricco bagaglio appreso da Beccafumi, Raffaello, Michelangelo, Perino, Salviati, Daniele da Volterra.
A Napoli Marco Pino giunse nel 1551, per restarvi, tranne un soggiorno romano tra il '68 e il '70, fino alla morte, nel 1583, imponendosi come caposcuola incontrastato ed elaborando la sua personale declinazione, infiammata e spiritualizzante (affine, per certi versi, al sentire di un Valeriano o di un Giovanni de' Vecchi, e arricchita dalla conoscenza di Polidoro e dei fiamminghi alla Spranger), del manierismo cinquecentesco. Fu attivo anche in provincia; e sarebbe stato merito ulteriore della mostra ricordarsi di questa attività provinciale, qualitativamente non inferiore a quella per la capitale: se si son fatte venire opere da Roma, da Siena, da Firenze, perchè dimenticare la Madonna col Bambino e i SS. Giovanni Battista e Andrea di Nocera (S. Bartolomeo) - una delle rare grandi opere del primo periodo partenopeo - o la Trasfigurazione del Corpus Domini di Gragnano, assai più vicine ma di fatto escluse dagli usuali itinerari turistici? Tanto più che quest'ultima, restaurata nel '95, costituisce un' "opera capitale della tarda attività" (Andrea Zezza, curatore della mostra e del catalogo, e autore della monografia completa appena edita per i tipi di Electa Napoli), oltre la quale, come asseriva Evelina Borea, "c'è solo El Greco"; e ben avrebbe dialogato con la pala dallo stesso soggetto, ma anteriore, esposta nel Gesù Vecchio: a completare la mappatura dell'evoluzione stilistica 'per temi' ben esemplificata in mostra dalle Circoncisioni e dalle Adorazioni dei Magi e dei pastori.

M. Pino, Trasfigurazione, 1578, Gragnano (NA), chiesa del Corpus Domini

 

Le poetiche del nudo. Mutazioni tra Ottocento e Novecento

Palazzo Mediceo di Seravezza, 12 luglio - 5 ottobre 2003

di Massimiliano Bini

Alla metà dell'Ottocento, in virtù dell'impulso a ritrarre la "vita come ella è", si sviluppa in ambito accademico un vigoroso rinnovamento nella rappresentazione del corpo umano che promuove, sull'esempio degli studi dal modello delle quattrocentesche botteghe fiorentine, un nudo 'riformato', non statico, con un' impostazione destinata a permeare le diverse ricerche artistiche dei decenni seguenti.
Declinato, dunque, secondo moduli veristi prima e simbolisti poi, ammantato in vesti esotiche, scomposto dalle avanguardie novecentesche, ridotto all'ordine sino alle soglie della dissoluzione informale, il corpo umano si fa 'metafora', cifra di uno stile e specchio delle trasformazioni sociali.
Di tale evoluzione dà conto la mostra intitolata Le poetiche del nudo. Mutazioni fra Ottocento e Novecento - apertasi al Palazzo Mediceo di Seravezza sabato 12 luglio e visitabile fino al 5 ottobre 2003 - caratterizzata da una ricca scelta di opere tutte funzionali all'originale progetto espositivo.
Il percorso si dipana in quattro sezioni tematiche omogenee e circoscritte che guidano piacevolmente anche il visitatore dall'occhio non educato.
Irrompono per primi i corpi degli umili lavoratori che, sulla spinta della 'questione sociale' dibattuta fin da metà Ottocento, sono tradotti con intento verista in ambientazioni accurate anche se ancora risolti e nobilitati in pose accademiche, trasfigurati nella resa eroica d'un torso michelangiolesco (Innocente Cantinotti, Lo spaccapietre, 1905-1906 ca.).
Emerge poi un simbolismo moraleggiante a tutt'aggio della propaganda politica così che il vero soggetto pare il futuro, meglio se radioso, cacciato in un punto di fuga eccentrico, lontanissimo (Carlo Carrà, L'Allegoria del lavoro, 1905). Segue l' "eterno femminino" popolato di tattili carni opaline e declinato in coeve veneri adolescenti e bagnanti borghesi (Eugenio Cecconi, Bagnante, 1887). Donne colte di sorpresa negano lo sguardo, accentuando così il senso di voyeurismo, o appuntano gli occhi sull'osservatore incantato da tale baldanzosa bellezza (Giovanni Giani, Nudo di donna, 1894). Corpi risolti con una recuperata e rigida precettistica che richiama a scoperti modelli la calda pudicizia giorgionesca e l'esibito ma casto erotismo della "donna nuda" di Tiziano.
La seconda sezione si sostanzia del contrasto fra la rappresentazione del nudo calato nel quadro di storia e quello giocato lungo percorsi simbolisti fineottocento e primonovecenteschi. Ecco dunque le ansie postunitarie farsi attuali e contaminanti nei lividi nudi del Ritrovamento del corpo di Catilina di Alcide Segoni del 1871 od in quelli larvati e sdutti degli Ostaggi di Crema di Gaetano Previati del 1870 ca.
Al contrario, il mito riletto attraverso forme rinascimentali 'primitive' induce alla fuga preraffaellita incontro a gorgoni e chimere dai corpi estetizzanti. Una poetica che muove Sartorio verso un nudo ideale e sfrangiato in Abisso verde (1900 ca.), e che si incarna nei corpi sognati e mitici delle sirene di Dalbono (La leggenda delle sirene, 1871) ed in quelli, infine, dionisiaci e spirituali di De Carolis (Allegoria marina, 1915).
La riscoperta di un oriente mentale e sognato posto a contrappunto di metropoli svilite dal progresso industriale, occupa integralmente la sezione seguente. Liberi nudi femminili carichi d'erotismo si muovono in bagni pompeiani risolti nel doppio registro del recupero archeologico e della ricostruzione fantastica, alla ricerca di una "voluttà semplice" di marca morelliana (Giuseppe Barbaglia, Bagno Pompeiano, 1872).
Un esotismo estenuato carica, invece, la scenografica Semiramide muore sulla tomba di Nino di Augusto Valli del 1893 e condiziona l'ormai 'cinematografica' Salomè di Innocente Cantinotti del 1920.
L'ultima sezione della mostra si configura senza dubbio come la parte più difficile da seguire per gli impliciti rimandi fuori testo delle opere proposte.

E' un nudo di assoluta libertà formale quello delle avanguardie novecentesche da cui derivano nuovi eroi dinamici dal corpo scomposto nei vettori del movimento come nell'Eros di Primo Conti (1919), o, dagli eccessi sulla via dell'ordine, nel Nudo di Boccioni (1915) prossimo a morire. Il complesso 'classicismo' determinatosi post prima guerra mondiale fece sì riemergere il corpo dalla carneficina del conflitto, ma lo gettò irrimediabilmente altrove, in una dimensione astratta e metafisica, creando personaggi straniati pur nell'algido Trombadori (Nudo, 1929) o nel severo Sironi (Studio di nudo, 1927), come certi interni borghesi ormai già "magici" (Ram, La tenda gialla, 1927).
Ciò che pare relazionare queste inquietudini è però la travolgente rivelazione della vulnerabilità della carne: vediamo, infatti, sagome in dissoluzione nel Campigli arcaico ed etrusco (Al balcone, 1931), o figure ridotte ad ironici ibridi dal 'darwinismo metafisico' di Savinio (La Visitation, 1930). Un percorso chiuso dalle ricerche teosofiche di Ferrazzi (L'idolo del prisma, 1925), dai rituali misterici dei sacri bagnanti di Gentilini (Giovani in riva al mare, 1934) e dai Nudi 'grotteschi' di Mafai (1942): visioni di corpi colpevoli ormai prossimi alla disgregazione informale.

 

 

P. Conti, Nudo di giovinetta, 1933, Fiesole (FI), Fondazione Primo Conti

 

"Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore" 50esima Esposizione Internazionale d'Arte.

Venezia, 16 giugno - 2 novembre 2003.

di Alberto Salvadori

Si è aperta la cinquantesima Biennale di Venezia, storica edizione, a cura di Franceso Bonami, dal titolo Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore.
L'edizione della "Grande Mostra", come la definisce Bonami, offre un panorama estremamente variegato del mondo e della realtà, elaborati, trasformati e immaginati dagli artisti.
La presenza di ben undici curatori, lasciati liberi dal direttore artistico di operare le proprie scelte personali e progettare spazi autonomi, rende questa Biennale unica rispetto alle precedenti. Tale scelta non impedisce una visione unificante all'interno delle diverse sezioni in cui è suddivisa la mostra, dove i conflitti appaiono la tematica dominante.
Conflitti intesi come qualunque sistema, segnato da diseguaglianze, facente parte del mondo contemporaneo: se infatti tutti i testi in catalogo rammentano la situazione irachena, non è solo la guerra la questione nodale su cui si intende riflettere.
Lo stesso criterio di omogeneità multiforme spetta ai Sogni, trasformati quasi in una domanda che si pongono tutti i curatori: lo spazio e il ruolo che può e deve assumere l'espressione artistica all'interno dei quotidiani conflitti a cui assistiamo, questo il sogno, e in parte l'Utopia - come recita il nome di una sezione della mostra -, di chi fa arte. Inevitabile forse, ma netta, la percezione di una certa debolezza nella visita alla mostra, passando da una sezione all'altra, dove il livello delle opere e delle scelte curatoriali subisce variazioni di intensità e qualità notevoli, talvolta ammiccando un po' troppo al mercato (vedi la mostra al Museo Correr).
Se un merito va comunque ascritto a Bonami e alla sua Biennale, quello di avere cercato, e trovato, la complicità del grande pubblico - inteso come massa -, è stata però tralasciata una solida e approfondita analisi critica delle opere.
Nonostante la scelta di una tematica potenzialmente efficace e significativa, la ricognizione panoramica della realtà sotto molteplici punti di vista riflette il frenetico mondo della produzione artistica, il quale non si presta, data la mole e la velocità di produzione, ad essere letto attraverso una prospettiva storica e critica.
La parola d'ordine sembra essere consumare; consumare un'esperienza fugace, complessiva, emozionale, che difficilmente dà spazio ad altre sensazioni e che ancor più difficilmente lascia il tempo alla meditazione ed alla riflessione.
Difficile tracciare un percorso preferenziale tra le opere, data l'ampiezza dell'esposizione. Momenti di grande intensità offre la visita all'Arsenale, grazie agli artisti africani presenti nella sezione Smottamenti, a cura di Gilane Tawadros, dove La piste d'atterissage di Kader Attia ci mostra, portandoci nella realtà dell'esperienza vissuta della globalizzazione, i suoi "non-cittadini", privati di fiducia e di diritti, in questo caso travestiti e transessuali algerini, emigranti e sans papiers, accanto alle potenti immagini - purtroppo solo alcuni still frames, presentati in light box, del superbo video presentato all'ultima Documenta - di Zarina Bhimji, testimonianza di migrazione ed esilio, eliminazione e cancellazione; memori degli eventi recenti del Kosovo e del Ruanda.
A Catherin David si deve invece l'affascinante progetto a lungo termine Rappresentazioni Arabe Contemporanee con le presentazioni, le conferenze e gli spettacoli che vedono coinvolti vari autori con il fine di consolidare e incoraggiare la produzione, la circolazione e lo scambio di idee, fra i diversi centri della società araba e il resto del mondo.
La visita all'Arsenale termina alle Tese con la sezione più stimolante e incoraggiante: Utopia Station curata da Molly Nesbit, Rirkrit Tiravanija e dal vulcanico Hans-Ulrich Obrist. La Stazione è concepita come luogo di passaggio, sovrapposizione di molti strati, ognuno dei quali si sviluppa in ritmi, momenti e luoghi diversi, animati, per tutta la durata della Biennale, da seminari, incontri, manifesti e spettacoli, con l'intento di creare, almeno a livello immaginario, uno spazio libero e sicuro, partendo dalla premessa - assunta a vera e propria parola d'ordine dai curatori di questa sezione - di Backminster Fuller che ha scritto "oggi il mondo è troppo pericoloso per qualsiasi cosa, meno che per l'Utopia".
Ai Giardini domina la mostra del Padiglione Italia, Ritardi e Rivoluzioni, dove Francesco Bonami e Daniel Birnbaum tentano un'excursus tra i corsi e ricorsi della produzione artistica degli ultimi anni, intesi come Ritardi ma anche possibili Rivoluzioni. Accanto La Zona, bel progetto architettonico degli A12, spazio appositamente studiato per la giovane arte italiana, che soffre però di una curatela, quella di Massimiliano Gioni, debole e che viene meno ai suoi stessi obiettivi.

D. Hirst, Untitled, 2001-02

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