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"Maestà di Roma"?

di Chiara Savettieri

"A cosa è servito alle arti della pittura e della scultura, in Francia, mantenere una scuola a Roma?". A chiederselo (1796) è l'intellettuale francese Pommereul, dopo aver rilevato che Eustache Le Sueur era stato pittore originale senza aver messo piede a Roma. Quattro anni prima, sulla travolgente ondata rivoluzionaria, l'Académie de France a Roma era stata soppressa, seguita (1793) da tutte le accademie francesi.
Ma dopo il Terrore, quando le conquiste della Rivoluzione furono smussate e incanalate nei più rassicuranti alvei della Borghesia in ascesa, fu fondato l'"Institut de France" (1795), una sorta di Accademia rediviva (Pevsner). L'académie di Roma fu ricostituita a Villa Medici nel 1803. Pommereul rilevava l'esigenza di lasciare agli allievi la possibilità di alloggiare in altre città italiane o estere: lo avevano già lucidamente prospettato nel 1791 Quatremère de Quincy e A.L. Girodet, indocile allievo di David all'académie di Roma.
In questi personaggi, la critica nei confronti di un sistema di insegnamento "coercitivo" s'associa a un ridimensionamento dell'universalità di Roma come luogo essenziale per il perfezionamento degli studi. Eppure Roma, grazie al confronto con l'antichità e con Canova, aveva indicato a quel Girodet un po' ribelle la via all'"originalità", spingendolo ad allontanarsi dal virile e "romano" eloquio di David per imboccare una strada "greca", winckelmanniana. Facciamo un balzo in avanti di un po' meno di un secolo. "Roma: al suono di questa parola finiscono i sogni e inizia la conoscenza di se stessi e Roma, l'antica ingannatrice, indica a ogni essere umano il suo posto". Così scrive il pittore tedesco Anselm Feuerbach, per il quale, com'è noto, il mito della classicità, incarnata da Roma, fu nutrimento costante.
Roma come luogo di raccoglimento, rivelazione del proprio destino, conoscenza di se. Perché Roma? Forse perché "Qui tutto è decadenza, tutto è ricordo, tutto è morto. La vita attiva è a Londra e a Parigi" (Stendhal); perché in essa ci si trova faccia a faccia con la storia, la storia come permanenza e rovina, vita e morte, perché "Roma è il simbolo della caducità delle cose e dell'unità del mondo"(Von Humboldt).
Non è la Roma dell'Accademia quella di cui parla Feuerbach: è la Roma come esperienza interiore, patria spirituale di chi affronta la modernità con la coscienza che rinnegare il mondo classico significa rinnegare le radici della cultura occidentale; con la consapevolezza che tali radici sono rintracciabili a Roma e non altrove perché Roma è il contrario di modernità, sinonimo di passato, di morte, archetipo universale.
Due sale della mostra ormai conclusa "Maestà di Roma", divisa in 3 sedi espositive (Villa Medici, Scuderie del Quirinale, Galleria Nazionale dell'Arte moderna) suggerivano tali riflessioni. Mi riferisco all'ultima sala della sezione intitolata "Da Ingres a Degas. Artisti francesi a Roma" presso Villa Medici, in cui opere di Degas, Moreau e Puvis de Chavannes innescavano una serie di rimandi aventi come centro propulsore l'idea di Roma non più come modello, ma come incarnazione "dell'onirico immaginario del classicismo" (Bonfait); mi riferisco anche all'ultima sala della sezione "Universale ed eterna" al Quirinale in cui spiccava l'Ifigenia di Feuerbach: proiezione dell'artista che scruta l'orizzonte alla ricerca della sua Roma, della sua identità, ma anche personificazione della Roma moderna che volge nostalgicamente lo sguardo verso il proprio grandioso passato. Tali sale concludevano due percorsi tesi a mostrare la "Maestà" di Roma nell'800 come centro artistico mondiale fondamentale per gli artisti francesi facenti capo all'Académie, e per quelli italiani e stranieri che si trovarono a risiedervi.
Il pubblico, grazie a questa mostra, ha visto un volto meno noto dell' '800. Invece di Cézanne ha contemplato Moreau, al posto di Monet ha apprezzato Feuerbach, invece di Courbet ha ammirato Cabanel e Delaroche, al posto di Delacroix ha visto i nazareni.
E' il volto meno "progressivo" dell''800, ma non meno interessante; il volto più legato alla "tradizione" di cui solo Roma può essere simbolo e da cui Parigi, con le sue provocazioni, i suoi polemici salons, la sua ridda di critici d'arte, è lontana mille miglia. Il visitatore sarà stato piacevolmente sorpreso scoprendo che anche questo '800 può affascinare, perché - bisogna dirlo - quale piacere per gli occhi riserva la pittura "liscia" e "finita" (il contrario di Delacroix!) di Gerome e L.Robert, con i loro simpatici popolani e le loro floride popolane dai costumi pittoreschi? Con quale charme catturano lo spettatore le donne dalla eletta bellezza, sensuale e un po' decadente, di Cabanel o di Leighton, così distanti dalla volutamente volgare, prosaica fisicità delle demoiselles di Courbet? Il visitatore, poi, incuriosito dal neo-manierismo un po' bizzarro di "eclettici" come Luc Olivier-Merson o Edouard Toudouze, avrà appreso che anche in seno all' académie venivano partorite opere "originali".
Ma che dire della sezione della GNAM, intitolata "Capitale delle Arti"? Il visitatore, colpito dallo strabiliante Ultimo giorno di Pompei di Brulov, contento di rivedere l'Ercole e Lica di Canova, appagato da quel gioiellino trobadour che è il Paolo e Francesca di Ingres, sarà rimasto un po' perplesso dinanzi alla cospicua messe di arte accademica, che può destare irritazione se la scansione delle opere non risulta facilmente comprensibile, e la loro connessione con i temi sotto cui appaiono raggruppate non appare palese.
Una maggiore sintesi avrebbe giovato. Il titolo "Maestà di Roma" indica la "centralità romana (…) per la produzione di una cultura mondiale fondata sulla tradizione dell'antichità classica, della missione Urbi et Orbi della Chiesa Cattolica, e delle rinascenze successive in ambito laico come religioso" (Pinto). La mostra fa ben emergere questo ruolo; ma forse avrebbe dovuto far intendere che al di là di Roma, in Italia e all'estero c'era altro, che da un certo momento in poi Roma non era più il centro mondiale dell'arte. Certo, "Maestà" conviene alla Roma di Canova e di Thorvaldsen, posti, con grande finezza, l'uno accanto all'altro al Quirinale, con sullo sfondo lo splendido Sogno di Ossian di Ingres; quella Roma, che pure a uno spirito ribelle come Girodet aveva insegnato la via per essere originale.
Ma il titolo non può essere adattato con ugual sicurezza ad altre opere esposte, utili per capire che mentre altrove si sperimentavano nuove vie, a Roma ci si poteva aggrappare alla tradizione classica e rinascimentale, ma non sempre all'altezza della parola "Maestà". Sarebbe stato utile far trapelare che mentre a Roma il mito di Raffaello perdurava, a Parigi Courbet dichiarava, deridendo con sarcasmo coloro che adoravano l' "ideale", che l'Urbinate non aveva avuto alcuna idea. Insomma, si poteva suggerire il rovescio della medaglia: l'esigenza, espressa in contesti non romani, di tagliare i ponti con la tradizione, di trovare in luoghi diversi da Roma i punti di riferimento; quell'esigenza già rilevata da Pommereul o Girodet. Allora la posizione di Feuerbach o di Puvis de Chavannes sarebbe apparsa al pubblico in tutta la sua profondità: un ritorno alla classicità, anzi al mito della classicità, sotto certi punti di vista "controcorrente", dunque originale, rispetto a fenomeni che una storia dell'arte condizionata da una visione "avanguardista" dell'arte ci ha insegnato (purtroppo) a giudicare come "progressivi" e ad apprezzarli per questo.

J.A. D. Ingres, Il sogno di Ossian, 1813, Montauban, Musée Ingres

La trama della Storia. Tessuti dalla preistoria all'arte contemporanea in Trentino

di Cristina Borgioli

Da sempre ricamo e tessuti sono un mezzo espressivo. Che nasca in contesti artigianali o negli studi di artisti versatili, sia medium alternativo di individuali poetiche artistiche o testimonianza dell'immanente e primitiva necessità del "coprirsi", l'intreccio di trama e ordito può raccontare molto a chi si soffermi a leggerlo.
Ne danno occasione due insolite mostre trentine in corso: Il Racconto del filo. Ricamo e cucito nell'arte contemporanea (Mart, Rovereto, 31/5-7/9, catalogo Skira, euro 40) e Textiles. Intrecci e tessuti dalla preistoria europea (Museo Civico di Riva del Garda, 24/5-19/10, catalogo Provincia Autonoma di Trento, Sevizio Beni Culturali, euro 35).
Al Mart di Rovereto si indagano i percorsi sviluppati da una trentina di artisti contemporanei che, con ago e filo, si sono cimentati nella ricerca di un linguaggio diverso. Linguaggio che viene recuperato dal passato e rimane legato all'idea (riduttiva ma ribadita da molti degli artisti nelle testimonianze in catalogo) di una attività usualmente femminile e forzatamente domestica, che acquista, nel momento in cui viene consapevolmente scelta come autonoma forma espressiva, il valore di sfida trasgressiva e, contrapponendosi alla propria tradizione, "la potenzialità di atto sovversivo" (Carlos Arias).
Se da una parte infastidisce la lettura in chiave post-femminista del ricamo come tecnica espressiva ideale per tematizzare la contrapposizione dei ruoli sessuali nell'arte odierna (poiché lo si considera solo attività-archetipo del femminile-domestico, dimenticando che dal Medioevo al XVIII sec. il lavoro del ricamatore fu soprattutto maschile e piuttosto remunerativo), vero è che per questi artisti la pratica del lavoro ad ago non è un semplice esercizio di stile. Il filo, in questo caso non solo ideale, che lega le opere esposte pare essere infatti proprio la volontà di catalizzare l'attenzione su ciò che viene generalmente considerato "ai margini". In questo contesto l'uso di una tecnica "artisticamente marginale" come il ricamo, se valutato in un'ottica domestica, artigianale, popolare e decorativa (con tutta l'accezione negativa che modernismo e funzionalismo possano aver dato al termine) diviene scelta linguistica densa di significato. C'è chi gioca sul corto circuito che si innesca nell'affidare ad un lavoro dimessamente femminile (o presunto tale) messaggi che attengono all'intimità o che sono sessualmente espliciti: l'egiziana Ghada Amer campisce tele ricamandovi teorie di immagini di autoerotismo femminile e baci saffici scanditi come semplici patterns; Tracey Emin cuce con lettere di stoffa variopinta il proprio Love Poem su una coperta matrimoniale.
Il carattere popolare del ricamo, come forma di artigianato in cui l'identità culturale di chi la produce ha un ruolo fondamentale, ha indotto a porre l'accento sull'aspetto politico e sociale che questa attività può rappresentare. Dall'esperienza di Boetti - protagonista del nucleo centrale dell'esposizione - che tese alla "spersonalizzazione" dell'opera, delegando programmaticamente l'esecuzione dei suoi arazzi a ricamatrici afgane, nasce l'idea di Rainer Ganahl di far ricamare su grandi bandiere bianche le reazioni del popolo afgano ai commenti della stampa statunitense sul recente conflitto. Mona Hatoum crea una keffieh in cui il reticolato nero è dato dall'intreccio di capelli femminili: il copricapo - di destinazione maschile e politicamente connotato - tessuto con i capelli delle donne che sono obbligate a velarsi per nascondere le chiome, si avvale così di una pregnante contraddizione simbolica.
Claudia Losi presenta in mostra i risultati del suo ultimo "ricamo collettivo": gomitoli inviati a gruppi eterogenei di donne che tornano all'artista variamente decorati, creando contatti tra persone geograficamente e socialmente distanti. Il ritmo rallentato del minuto gesto reiterato con cui si compone un ricamo è l'aspetto intorno al quale ruota la poetica di Marina Lai, che ricama libri di stoffa dove la scrittura si sfilaccia e deborda dai morbidi margini delle pagine. Analogamente Carlos Arias "costruisce" su tele impalpabili evanescenti nudi maschili di grande suggestione, che intenzionalmente portano lo sguardo a soffermarsi sui singoli punti del ricamo. Il filo che attraversa la materia, che sta sopra e sotto, visibile e invisibile, diviene per Mariann Imre l'occasione per lavorare con materiali incompatibili e compiere quasi una magia, ricamando col filo rosso cinquantacinque cuori di cemento. Le opere presentate in mostra sono selezionate dal panorama attuale dell'arte, proprio a voler interpretare il ricamo come una rinnovata e recentissima tendenza. Forse bastava questo: appare debole e un po' forzato infatti l'aggancio al primo Novecento con l'esposizione di un solo arazzo di Balla e poche (pur strepitose) tarsie tessili di Depero.
In maniera coraggiosa ed encomiabile la mostra di Riva del Garda affronta, con spirito didattico ma che poco indulge alla "ricostruzione", un tema scientificamente quasi sconosciuto in Italia: le esperienze europee di tessitura ed intreccio dal Neolitico all'età del Bronzo. In questa occasione l'esauriente catalogo - pur non risultando sempre puntuale nella lettura delle tecniche tessili - contribuisce a colmare una vistosa lacuna nella letteratura italiana in materia. In mostra, partendo dall'elaborazione delle fibre vegetali e animali, si attraversano tutte le fasi della nascita di un tessuto: la filatura, l'intreccio manuale, la tessitura, addirittura il cucito ed il ricamo. Sorprendente la quantità di reperti presentati. Accanto agli utensili, ai filati, alle casuali impronte dei tessuti su supporti ceramici, sono presenti frammenti tessili tecnicamente sofisticati, come quelli provenienti dagli scavi di Molina di Ledro. Tra questi un frammento in lino con decorazione a losanghe (realizzata in armatura diagonale), una cintura - giuntaci integra - in tela con frange ed occhielli alle estremità, una tela con inserimenti decorativi di semi vegetali (quasi un antenato del ricamo), tutti risalenti al Bronzo Antico. Uno straordinario reperto in tela broccata dell'Età del Rame, proveniente da Irgenhausen, reca un disegno geometrico a grandi triangoli e cornici a losanghe che, nella ricostruzione, rimanda la mente a certi ricami suprematisti.
Archetipi decorativi o semplici suggestioni?

C. Losi, Rinvii, 2002-03

 

 

 

 

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