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Cinema e teatro

 

Segreti di Stato - dalla sceneggiatura alla distribuzione, cronache dall'interno

di Gianpaolo Smiraglia

Assistere alla genesi di un film

Quando ho cominciato a collaborare con Paolo Benvenuti, nel maggio 2001, erano ormai diversi anni che erano cominciate le ricerche storiche necessarie per poter ricostruire la complessa trama che dava corpo alla vicenda di Portella della Ginestra. Un pomeriggio a casa sua erano riuniti alcuni amici, in gran parte allievi dei suoi primi corsi di cinema e fidati collaboratori nella realizzazione dei film. Aprirono davanti ai miei occhi un grande schema in cui comparivano una gran quantità di personaggi divisi per gruppi; era in pratica una griglia leggibile in verticale come in orizzontale: su un asse leggevo lo svolgersi dei fatti secondo una successione di eventi all'interno di un certo gruppo (il passaggio di consegne da un membro all'altro di un partito, ad esempio), mentre sull'altro venivano evidenziati l'infittirsi dei collegamenti tra personaggi di diversi gruppi, via via che gli eventi si avvicendavano. Mi chiesero se riconoscevo alcuni dei nomi scritti, e se comprendevo lo svolgersi dei fatti. Molti erano i nomi noti, che si muovevano in un intreccio di relazioni con altri assolutamente a me sconosciuti. Quel compendio, nonostante semplificasse efficacemente la lettura, dava la misura di quanto complicata poteva risultare la narrazione dei fatti attraverso una finzione cinematografica.
Uno degli obiettivi principali nella successiva costruzione della sceneggiatura fu quello di rendere quanto più possibile lineare ed asciutta una sequenza di eventi storici ognuno dei quali, una volta sviluppato, diventava una storia compiuta; i racconti sui protagonisti di questi intricati avvenimenti occupavano le ore di viaggio in auto, e molto del tempo passato insieme. La conclusione era ogni volta la stessa: per ognuno di questi si sarebbe potuto fare un film. Nasceva così l'esigenza di spogliare la ricostruzione da ogni elemento che non fosse strettamente attinente alla microstoria di Portella, tralasciando le ramificazioni che, pur volendo chiarire, in realtà offuscavano un panorama già poco nitido.

Il metodo del togliere

Questo metodo del togliere non è estraneo al lavoro di Benvenuti, anzi, ne è componente essenziale. La necessità di spogliare la rappresentazione cinematografica di ogni elemento distraente è stata una linea guida durante tutta la lavorazione del film. Durante l'approntamento delle scenografie ogni elemento era minuziosamente scelto al solo scopo di creare ambienti veri, senza nessun compiacimento nell'arredamento d'epoca. I sopralluoghi nel carcere di Gaeta avevano dato esito positivo proprio per il senso che avevano quei muri scrostati, poco altro si è dovuto aggiungere. Durante le riprese il lavoro sugli attori, come già lo era stato per le scene, si concentrava al massimo sull'eliminazione di ogni tipo di enfasi; la recitazione non aveva il ruolo di catapultare lo spettatore in una immedesimazione, ma di sviluppare l'indagine. Agli attori veniva richiesto il massimo contenimento possibile in relazione al personaggio rappresentato. Lasciare che l'interpretazione dell'avvocato o del perito suo collaboratore andasse oltre l'espressione del lavoro di indagine avrebbe significato dar luogo ad una caratterizzazione non utile, mentre i personaggi di Pisciotta, Cacaova, ed anche del professore che nella parte finale del film apre gli occhi all'avvocato con il gioco delle carte, pur se animati da una recitazione controllata, dovevano necessariamente risultare più intensi, in quanto più o meno direttamente coinvolti e colpiti dai fatti narrati. In ogni caso nessun elemento doveva avere il primato sullo svolgersi dell'inchiesta, il solo argomento che doveva catalizzare l'attenzione.

Montaggio schietto

Analogamente, in montaggio, ogni sforzo andava in questo senso; la costruzione del film non ammetteva in nessuna sua parte una tensione occulta. Come poco era concesso al timbro e ai gesti degli attori, altrettanto limitata era la libertà del montatore, non era concessa nessuna invenzione che potesse in qualche modo privare il film del suo personale slancio: la ricerca di una possibile verità. L'unica tensione riconosciuta era quella della ricerca, la caparbietà di chi vuole sbrogliare una matassa, dunque gli unici espedienti ammessi erano quelli che potevano aiutare lo spettatore a non perdere questo filo. La prima ipotesi di montaggio era stata costruita seguendo le indicazioni della sceneggiatura, molto precisa anche nel numero d'inquadrature; in seguito la preoccupazione che le troppe spiegazioni, anziché chiarire le varie tappe dell'indagine, ne rendessero oscuri i passaggi, rese necessario asciugare ulteriormente lo sviluppo del ragionamento sul quale si basava la costruzione delle ipotesi dell'avvocato e del suo collaboratore nella prima parte del film. Il numero dei disegni originati dai racconti di Pisciotta (in stile anni '50, ma anche questi volutamente cronachistici e privi del pathos tipico del ricordo) fu ridotto. Il sopralluogo fatto a Portella dall'avvocato, originariamente un'unica scena, fu diviso in due parti, in modo da distinguere i due gruppi di testimoni e concedendo così più ampio respiro al ritmo, con due esterni che spezzavano tutte le altre scene, girate in interno. Infine la scena finale del gioco delle carte venne staccata dal contesto da cui partiva, ovvero la ricostruzione finale della strage sul tavolo dello studio del professore, separata da questa da una brevissima scena nell'infermeria del carcere dell'Ucciardone.

La fotografia

Anche nel dare le luci la scelta di Benvenuti fu molto attenta perché venisse evitata ogni drammaticità. L'evento di cui si narrava era talmente forte e carico di un suo dolore da non richiedere un'atmosfera ancora più cupa. Anzi, in laboratorio la richiesta del regista era di ricercare dei toni rasserenanti. L'obiettivo a cui mirava era ricreare l'atmosfera delle prime pellicole a colori che la Ferrania produceva per il cinema negli anni '50. Questa decisione venne presa una volta viste le scenografie realizzate, per rispettare la verità che esse ispiravano. Sino a quel momento l'idea di Benvenuti era stata di realizzare una fotografia in bianco e nero, come il regista si era immaginato il film durante tutto il periodo della ricerca storica.

Dicono che avere un nome corrisponde ad avere un destino. A quanto pare questa prerogativa appartiene ad ogni cosa nominabile, e dunque di buon grado può appartenere ad un film. Così, se il film ha la ventura di chiamarsi "Segreti di Stato", quale sorte può attendersi se non quella di vedersi infilato maldestramente tra fascicoli polverosi e mal riposti, pubblicato e nascosto in tutta fretta, perché nessuno possa dire che non gli è stato dato spazio abbastanza per essere presente agli occhi del pubblico, ma nessuno anche si renda conto che non ne ha avuto il tempo?
Produrre un film di questo genere, costruito su delle corde emotive che non seguono i canali diffusi del cinema commerciale, vuol dire anche doverlo difendere culturalmente, promuoverlo credendo di svolgere un'operazione culturale. L'iter produttivo è stato faticoso e complicato, come spesso avviene nei film per cui non si prevede un grande ritorno economico, ma ha dato i suoi buoni frutti. La distribuzione sembra non aver seguito lo stesso rigore richiesto nella realizzazione.


Un fotogramma dal film Segreti di stato
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