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Meraviglie da Kunstkammer a Vienna

di Maria Grazia Tagliavini

E' una bellissima giornata di sole e la Maria-Theresien-Platz brulica di turisti: il cielo limpido d'un azzurro intenso e la fresca brezza alpina hanno completamente cancellato in me ogni ricordo del torrido agosto italiano. Vienna è proprio come l'avevo immaginata: una splendida signora, fiera dei propri tesori, alle prese con le memorie di un passato troppo grande e glorioso. La visita all'Hofburg, il palazzo imperiale residenza degli Asburgo dal 1283 al 1918, me ne ha dato conferma: è una sorta di feticismo, quasi una devozione religiosa quella che, al di là della pur evidente intenzione di catturare il turista a caccia di curiosità e di souvenir, sembra legare i viennesi alle "reliquie" della loro storia: i guanti e le spazzole con cui l'imperatrice Elisabetta di Baviera era solita farsi pettinare, il calamaio e le carte di lavoro ancora sparse sullo scrittoio di Francesco Giuseppe, l'ultimo imperatore.
Eppure, il ricordo di questi fantasmi del passato, evocati con nostalgia da Joseph Roth nella Cripta dei Cappuccini e parte integrante della memoria collettiva di un popolo, non offusca in alcun modo la gioia di vivere dei viennesi: nelle strade, nelle piazze, nei caffè all'aperto, nei mercatini si respira l'aria frizzante di una città gaudente e spensierata.
Contagiata da questo spirito di festa, mi dirigo al Kunsthistorisches Museum, che, costruito tra il 1871 e il 1891 nell'area della Ringstrasse in un sontuoso stile neorinascimentale, ospita la massima parte delle collezioni d'arte asburgiche. Subito decido di non seguire la folla di turisti diretti sullo scalone verso il primo piano e, dunque, verso la Pinacoteca stracolma di capolavori: Tiziano, Dürer, Rembrandt per il momento possono attendere. La mia meta è la collezione di scultura e di arti decorative, collocata nell'ala orientale del piano rialzato: purtroppo non potrò ammirarla per intero, dal momento che, come mi spiega in un inglese quasi perfetto una dipendente del museo, la gran parte delle opere non sarà visibile al pubblico almeno sino alla fine del 2004 per restauri in corso. Tuttavia, l'eccelso livello qualitativo degli oggetti esposti riesce a dare un'idea della straordinaria ricchezza della collezione, pur sfregiata nel maggio di quest'anno dal clamoroso furto del suo pezzo più celebre, la Saliera del Cellini.
La collezione, tra le più complete e meglio documentate al mondo, riunisce per lo più il patrimonio delle Kunstkammer asburgiche, in particolare quelle dell'arciduca Ferdinando II (1529-1595) nel castello di Ambras, dell'imperatore Rodolfo II (1552-1612) a Praga e dell'arciduca Leopoldo Guglielmo (1614-1662) a Vienna. La grande varietà di tipi, di materiali e di tecniche con cui sono realizzati questi oggetti, lavori di oreficeria e di glittica, avori, bronzetti, ma anche arazzi, piccole sculture in creta, ritratti in cera e pietre preziose, è perfettamente in linea con le caratteristiche di una Kunstkammer principesca. Concepita come un microcosmo che ruota intorno ai gusti e alle leggi del sovrano, la Wunderkammer, o "stanza delle meraviglie", riflette l'idea tipicamente manierista di metamorfosi, che, mettendo in dubbio la razionale conoscibilità delle cose e dando forma al gusto del bizzarro e dell'esotico, testimonia l'irrequietezza di una civiltà in crisi. Dunque, accanto ai "naturalia" e ai "miracoli fisici", come fossili e mostri animali e vegetali, ecco le "cose artifiziose", nelle quali l'arte gareggia con la natura, spesso superandola in bellezza e in perfezione e talvolta correggendone gli errori. E in questo duello incessante tra realtà e finzione la magia e l'alchimia rivestono un ruolo centrale.
Ed è così che mi sorprendo ad ammirare stupita un bezoar (dal persiano "bad-sahr" che significa "antidoto"), la secrezione ricavata dalle interiora di una capra asiatica e del lama sudamericano ed apprezzata per la sua presunta capacità di assorbire i veleni dalle bevande e di curare dalla melanconia: Rodolfo II, che negli ultimi anni di vita teme che qualcuno possa avvelenarlo, fatto vuotare il bezoar, intorno al 1600 incarica il suo orafo di corte Jan Vermeyen di ricavarne una coppa grazie ad una montatura in oro smaltato. Virtù magiche e terapeutiche sono riconosciute anche al raro e prezioso corno di rinoceronte e alle cosiddette "lingue di drago", zanne fossili di pescecane con cui vengono realizzate suppellettili da tavola, come la coppa eseguita alla metà del XV secolo a forma di pianta in cui le lingue di drago fungono da fiori.
Ancora più incredibile mi appare il boccale di uovo di struzzo di Clement Kicklinger, eseguito ad Augusta tra il 1570 e il 1575: sulla base decorata da spessi rami di corallo, in grado secondo la tradizione di proteggere dal malocchio, un moro in argento dipinto tiene a una lunga catena uno struzzo, che porta sul dorso un uovo e stringe nel becco un ferro di cavallo. Il valore apotropaico è chiaro: il boccale ha il potere di trasfondere nel bevitore la straordinaria forza dello struzzo, ritenuto capace addirittura di digerire il ferro e le pietre.
A proposito di pietre: la vetrina successiva racchiude un oggetto che a prima vista non riesco a definire. Si tratta di un Handstein, "pietra grande come una mano", una specialità dell'arte orafa boema: un campione minerario, lavorato e decorato con minuscole statuine d'oro o d'argento, viene trasformato in un pezzo di virtuosismo da collezione, che in questo caso raffigura una Resurrezione ispirata alla xilografia düreriana del ciclo della Grande Passione.
E se con la coppia di vasi a forma di aironi in cristallo di rocca della celebre bottega milanese dei Saracchi, dalle trasparenze e dai giochi di luce tanto apprezzati anche dai granduchi della dinastia medicea, per un attimo respiro aria di casa, con il Trionfo di Bacco in argento dorato, realizzato ad Augusta nel 1605 circa, mi rituffo nell'atmosfera gaudente della corte rudolfina. In questo capriccioso gioco conviviale un meccanismo interno consente al carro di spostarsi da solo sul tavolo e alle figure di compiere piccoli movimenti: Bacco solleva il braccio, il pappagallo sbatte le ali e lo zampognaro si accinge a suonare il suo strumento, mentre il capro può essere usato come coppa, svitandone la testa per permettere ai convitati di bere il vino. Subito il pensiero corre agli automi del giardino della villa medicea di Pratolino, espressione emblematica del desiderio umano di sfidare la natura per mezzo di una tecnica estrosa e spericolata. L'ultima opera che attrae la mia attenzione è un vaso burlesco in creta smaltata di una fantasia e di una comicità irresistibili: un beone a cavallo di una botte è sottoposto al supplizio di Tantalo in mezzo a leccornie irraggiungibili disposte tutt'intorno alla sua testa, che può essere svitata e usata come tappo. Ma i convitati avranno davvero accolto l'invito alla moderazione, celato nell'ironia di quest'oggetto stravagante?

 

Cfr. immagine in copertina