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In libreria

 

Giulio Carlo Argan. Storia dell'arte e politica dei Beni Culturali
a cura di Giuseppe Chiarante
seconda edizione rivista e ampliata. Saggi e interventi di Aymonino, Bobbio, Calvesi, Chiarante, Contardi, Cordaro, Di Macco, Einaudi, Ferrari, Gamba, La Regina, Occhetto, Ronchey, Serio, Spadolini, Stoppani, Tusa.
Appendice con scritti e testi di Argan
Roma, Graffiti Editore, 2002

di Irene Buonazia

Per i dieci anni dalla morte, nell'ottobre scorso l'Associazione Bianchi Bandinelli ha presentato in Campidoglio la seconda edizione della raccolta di studi e testimonianze su Giulio Carlo Argan, esposti al convegno romano del 1993 e da tempo introvabili. Allora si volle giustamente sottolineare l'interazione tra le due facce di Argan, storico e amministratore dell'arte: Di Macco ricostruiva gli anni della formazione torinese, Serio e Ferrari il rapporto con Bottai e l'azione di tutela durante la guerra, Contardi e Cordaro - ora purtroppo entrambi tra coloro da ricordare - rispettivamente i temi affrontati negli anni di docenza universitaria, e il progressivo determinarsi di una Storia dell'arte. Seguiva poi una sezione su Argan sindaco della capitale dal 1976 al 1979: una città viva nella e per la sua storia (La Regina e Aymonino, che insiste sull'importanza dell'assessorato al centro storico, istituito da Argan).
Giuseppe Chiarante nel 1993 tracciava le linee principali dell'impegno di Argan nei due mandati senatoriali (dal 1983 al 1992); oggi, in un nuovo testo letto ad aprile in un convegno bergamasco, propone interessanti considerazioni sul controverso rapporto di Argan col marxismo e con la politica (culturale e non) del PCI, dal dopoguerra al dopo crollo del muro. In più, in veste di co-promotore, Chiarante analizza la proposta di legge del 5 ottobre 1989 per una diversa amministrazione dei Beni Culturali e Ambientali, qui pubblicata in appendice: superando i limiti della 1089 che aveva contribuito a formulare cinquant'anni prima, Argan caldeggiava una completa autonomia gestionale, un accostamento al MURST anziché alla Pubblica Istruzione, e, nell'ottica di estensione del concetto di bene, una seria politica di tutela e programmazione degli interventi sul territorio, in polemica con la concezione "estetica" dei beni ambientali rintracciata nella legge Galasso.
Infine la nuova raccolta propone due saggi da segnalare in particolar modo, perché scritti da due "colleghi" romani. Claudio Gamba ricostruisce con precisione l'infanzia e l'adolescenza di Argan: tra amicizie preziose (Sturani, De Rosa, Galvano), ateliers allora visitati per dipingere (Casorati, Zolla), suggestioni scientifiche (Darwin, i manuali di entomologia, la matematica e l'interlingua di Peano), e primi interessi politici (nella Torino di Gobetti più che di Gramsci). Gamba vede le origini del razionalismo di Argan nella sua precocissima vocazione per l'ordinamento scientifico, reazione al caos esasperante dell'ospedale psichiatrico in cui lavorava il padre (lettura affascinante, ma che forse Argan non avrebbe voluto attuata su di sé...): studiare l'arte è scienza, in dialettica opposizione al fare arte, che è espressione.
Claudio Stoppani, invece, studia l'attività come ispettore alla Galleria Estense di Modena, dal 1934. Il progetto di ordinamento del 1935 (confrontato col precedente di Adolfo Venturi e con la cultura museologica internazionale di allora) rivela un'idea di museo come luogo di conservazione e studio: Argan vuole fototeca e archivio tanto quanto eliminare le infiltrazioni e ricostruire i corretti percorsi stilistici e storici. Resterebbe la voglia, almeno a me, di sapere se qualche idea di allestimento derivasse ad Argan dall'ambiente degli architetti frequentati, che altrettanto dovevano avere in odio oggetti come "l'orribile divano rotondo" che Argan vuole sostituire con sgabelli di colore neutro, come le schermature in tela greggia.
Senza sottovalutare le testimonianze che, nel 1993, fornirono personaggi come Bobbio e Einaudi, Spadolini, Occhetto e Ronchey, Calvesi e Tusa, la riedizione di oggi è significativa soprattutto perché attesta nuovo approccio, fondamentale per chi si confronta con quella che Argan chiamava "archeologia del contemporaneo": adesso Argan è un soggetto di studio "al di là del bene e del male", più distante tanto dalla devozione di chi con lui ha imparato a studiare l'arte, quanto dal rifiuto pregiudiziale di chi lo ha visto come il dominatore della critica italiana del Novecento.


Paola Valentini, La scena rubata. Il cinema italiano e lo spettacolo popolare (1924-1954),
Vita e Pensiero
, Milano, 2002


di Lucia Cardone

La scena rubata. Il cinema italiano e lo spettacolo popolare (1924-1954), edito recentemente da Vita e Pensiero per i Quaderni dello STARS, costituisce un agile e sostanziale contributo alla ricerca sullo spettacolo popolare, filone di studi ormai piuttosto ricco, come testimonia peraltro la folta bibliografia fornita dall'autrice. Dell'ambigua ricchezza del termine "popolare" molto si è detto e scritto, contrapponendo di volta in volta i prodotti popolari a quelli contrassegnati da poetiche d'autore, o destinati ad un pubblico d'élite oppure, infine, a quelli confezionati per il consumo di massa. Categoria variabile e difficilmente circoscrivibile, il popolare sembra prender forma soltanto in termini oppositivi, dando adito a definizioni ondivaghe e ambivalenti. Ma è proprio con questa materia magmatica, con l'insieme di convinzioni, conflitti e idiosincrasie che concorrono a identificare la categoria "popolare" che La scena rubata si confronta, tentando di trasporre questa enigmatica sfuggevolezza in termini di ricchezza, di produttiva complessità. Partendo dal testo come dato imprescindibile, Paola Valentini adotta la prospettiva dei Cultural Studies, guardando ai prodotti cinematografici come a elementi di una rete più vasta, oggetti che agiscono e interagiscono in un determinato contesto culturale e mediale.
Per seguire le multiformi e dissimili tracce del popolare nel cinema italiano, l'autrice ha scelto di utilizzare gli strumenti di Sherlock Holmes, vale a dire di procedere per indizi, di individuare i sintomi, le imprevedibili emergenze di dettagli minori ma, seppure obliquamente, significativi. In altre parole, il percorso proposto dalla Valentini è in grado di evidenziare, caso per caso, i complicati rapporti che, nel periodo esaminato, legano il cinema allo spettacolo popolare. Mettendo insieme una serie di elementi apparentemente inessenziali, sorta di lapsus rivelatori, capaci di proiettarsi e agire sul contesto, l'autrice riesce a tracciare la parabola, il gioco di staffette e rimandi, i tentativi di emancipazione, nonché i frequenti rispecchiamenti dello spettacolo popolare nel cinema italiano.
La ricerca ruota attorno ad alcuni casi emblematici e prende in esame le relazioni, occulte o esibite, tra film e altri oggetti mediali. L'indagine muove dagli anni Venti, da quella crisi di crescenza del cinema italiano che trovò nuova linfa nella canzone popolare e in particolare nella tradizione napoletana, come testimoniano i lavori di Eugenio Perego Vedi Napule e po' mori! (1924) e Napule… e niente cchiù! (1928). L'analisi "indiziaria" condotta su queste due pellicole fotografa, al pari dei dati ISTAT, il momento di passaggio dal primato del varietà a quello dello spettacolo filmico. Nel decennio successivo, sottolineando le "affinità elettriche" che legano radio e cinema, divenuto ormai dispositivo audiovisivo, Paola Valentini esamina la fitta rete di relazioni che unisce la rivista radiofonica, al cinema e all'editoria popolare. Indicativa, a questo proposito, la vicenda de I quattro moschettieri, feuilleton radiofonico che generò una serie di altri oggetti comunicativi, dai fonolibri agli album di figurine, fino al film di Bonnard, Il feroce Saladino (1936). L'ultimo capitolo porta l'autrice a confrontarsi con il popolare prima dell'avvento della televisione, elettrodomestico insospettabilmente ingombrante, e a riflettere in particolare su alcuni film di Giuseppe De Santis, premonitori di quel passaggio di testimone che relegherà il cinema a un ruolo subalterno.
In conclusione, La scena rubata contribuisce in maniera positiva e originale alla ricerca, definendo in un quadro dettagliato e notevolissimo alcuni interessanti "casi" di popolare nel panorama nostrano. A ben vedere, la Valentini riesce a razionalizzare e a organizzare in un discorso personale e convincente la vaga sensazione di "popolarità" che immancabilmente suscitano certe stagioni del cinema italiano. Si tratta di un traguardo importante anche per il metodo d'indagine prescelto, legato - come si è detto sopra - alla ricognizione dei sintomi, allo studio dei tic, dei movimenti involontari. Ma, utilizzando per La scena rubata proprio il metodo indiziario proposto dall'autrice, emerge, sotto la solida partitura razionale del testo, una rete di altri sentieri, solcati da moti ironici e insieme affettuosi, da una curiosità attenta e inesausta. Quasi che, diligentemente messa da parte dal rigore del percorso scientifico, alla passione per il cinema non resti che farsi lapsus, dettaglio marginale e irriducibile.

Contemporanee percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta ad oggi
A cura di Emanuela De Cecco, Gianni Romano
Ed.postmediabooks, Milano, 2002, pp.373, euro 21.50

di Alberto Salvadori

Da pochi mesi è uscito il bel libro a cura di Emanuela De Cecco e Gianni Romano Contemporanee, percorso al femminile nell'arte degli ultimi venti anni. I due curatori hanno realizzato un lavoro di indagine e ricerca critica strutturato in quattro sezioni ben definite che aiutano il lettore, non necessariamente un addetto ai lavori, a godere appieno del materiale riportato. La parte introduttiva è affidata a due scritti, Trame: per una mappa transitoria, della De Cecco, e Pratiche mediali, di Romano, che analizzano da due ottiche distinte la produzione, i significati e i diversi contesti, nazionali ed internazionali, dell'arte vista al femminile.

Contemporanee non deve essere frainteso quale gesto di difesa per una minoranza, bensì risulta essere un progetto nato dalla volontà di restituire a noi lettori un quadro generale, il più possibile completo, della presenza femminile dell'arte nel mondo dell'arte degli ultimi venti anni.
Dalla lettura dei saggi emerge come l'arte delle donne non è più un'arte che parla esclusivamente delle donne ma invece ha assunto nel corso degli anni una connotazione sempre maggiore di arte personale, non di genere né tantomeno di sesso. La De Cecco ci guida in un percorso diacronico, dalla fine degli anni Settanta fino ad oggi, all'interno del panorama italiano dove possiamo constatare che sia il ruolo che le diverse connotazioni espressive, nel panorama artistico delle donne, siano radicalmente cambiati. Negli anni Settanta il tema principale era quello della rivendicazione del diritto dell'esistenza, con il ruolo sociale e politico posto davanti a tutto e l'attenzione incentrata sulla storia della donna, escludendo di fatto la sfera degli affetti e l'esperienza del quotidiano; facendo sì che un'artista come Marisa Merz, al contrario attenta fin dall'inizio del suo lavoro agli aspetti intimi e alla storia personale (vedi Altalena per Bea), fosse in qualche modo non compresa, portandola per un certo periodo - come testimonia Celant - alla decisione di non partecipare alle mostre, rinunciando così all'ufficialità del mondo dell'arte.
Gli anni Ottanta videro invece il ritorno al figurativo e alla concezione dell'artista in chiave decisamente tradizionale, direi quasi vasariana. Attitudine, in quegli anni, fortemente orientata alla valorizzazione dell'artista come genio creatore: il genius loci legato ad una creatività svincolata dai ritmi quotidiani. Riprova di ciò la Transavanguardia, ultimo movimento di caratura internazionale dell'arte italiana, dove non compare tra i suoi protagonisti neppure un'artista donna. In Italia, purtroppo, durante quell'in-fausto decennio non nacquero gruppi come le Guerrilla Girls, che ebbero grande risonanza negli Stati Uniti.
Infine gli anni Novanta, un panorama diversificato e un rinnovato interesse per le microstorie, per il quotidiano, dove si riafferma la centralità del corpo come luogo d'indagine e differenza. Un'intimità della rappresentazione si accompagna al filo rosso del tema del gioco, trattato non come motivo di evasione o ironico, ma come tramite per raccontare esperienze emotive e non solo. Le Pratiche mediali, poi, ci forniscono lucidamente i momenti di appropriazione, di abbandono e di identificazione delle artiste nel corso dell'ultimo trentennio dello scorso secolo. Il valore del medium, la grande propensione per la fotografia o gli still frames, come Cindy Sherman ci insegna, associata al problema dell'identità, del rapporto pubblico-privato, del corpo come luogo. Il rifiuto degli ismi, come dice Romano, diviene regola, senza considerare che un ismo, quello dell'individualismo, del singolo artista non più classificabile all'interno di un gruppo o movimento, è rimasto. Fino all'operazione della greca Papadimitriou con il suo progetto T.A.M.A. dove la produzione d'arte non è più intesa come fabbricazione di oggetti ma distribuzione di conoscenza e di informazione, in questo debitrice ad un grande del Novecento come Joseph Beuys.
Si termina la lettura con l'impressione che le artiste nonostante i vari cambiamenti di strategie concettuali ed operative, siano arrivate ad affrontare un discorso ampio, pubblico, senza compromettere definitivamente la sfera privata, e allo stesso tempo senza farsi condizionare dall'importanza del soggetto per aprire invece un confronto diretto con la realtà e con la sfera della comunicazione. Segue poi tutto l'apparato dei documenti, con brevi biografie e scritti di critici o delle artiste stesse. Infine una fornita bibliografia che evidenzia purtroppo come la nostra editoria ignori, senza tradurli, alcuni tra i più importanti testi della critica internazionale.

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