Le città
in/visibili: creazioni possibili sì
ma liberate gli animali
di Giovanna
Rizzarelli
Il libro
prediletto è un oggetto che, se siamo lettori passionali, è
sottoposto alla lettura come atto profanatore. Come in vecchie pantofole
cerchiamo tra le pagine una tana per le ore buie di pomeriggi piovosi.
Il libro-rifugio viene maltrattato: la rilettura comporta squinternamenti,
sgualciture e alle volte personalizzazioni cromatiche. Questa trasformazione
di un oggetto anonimo in qualcosa che ci appartiene coinvolge l'esteriorità
del libro, ma determina anche una trasformazione profonda. Le parole si
fanno immagini che rivediamo ogni volta andiamo alla ricerca, tra le pieghe
del libro amato, di conforto. Questi sono i luoghi della lettura: effigie
di ciò che il tessuto verbale suggerisce. Tale repertorio iconico
spesso subisce delle cocenti delusioni: la visualizzazione interiore difficilmente
coincide con l'oggettivazione altrui o deve ammettere come regola che
ciascuno vede cose diverse e che forse ogni trasposizione offre l'occasione
di percorrere i corridoi immaginifici di altri, che si sovrappongono ai
nostri, lasciando emergere i contatti e le divergenze possibili.
Ne ho avuto prova visitando la mostra allestita dalla Triennale in occasione
del trentennale delle Città invisibili (mio libro prediletto):
Le città in/visibili (Milano 5 novembre 2002-9 marzo 2003).
Questa visione in filigrana mi ha colta alla prima installazione, rilettura
di Studio Azzurro della città di Bauci: immagini rotolanti su di
una gradinata scivolano al ritmo di una voce che scandisce il testo: "Chi
va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato
Ci si sale con
scalette". Riesco solo a percepire con stridore sottile la parola:
scalette. Per me Bauci si condensa in un oggetto: sottili scalette di
corda. Quest'immagine mentale cozza con la scala bianca troppo robusta
per corrispondere all'evanescenza che Bauci suscita nella mia mente. Ma
il viaggio nell'universo di altre letture è solo alla prima tappa.
Seconda stazione: Armilla architettura aerea di tubature alle quali Mimmo
Paladino, autore di questa foresta idraulica, ha appeso dorate scarpine:
impronte delle naiadi padrone della città. Lo ammetto, benché
estasiata dal luogo rarefatto e acquatico, sento un'assenza; al nome Armilla
nella mia mente si innescano cori di sirene: "
al mattino si
sentono cantare", intorno tutto tace.
Saltello tra le undici città e passo a Zobeide. La scrittura calviniana
è un labirinto: si procede col fiato sospeso, senza scorgere una
meta e poi un tuffo e si giunge dove l'autore vuole arrivare: epifania
inattesa. Sensazioni che ricostruisce l'installazione di Marco Pozzi:
un dedalo dalle pareti di velluto blu che lungo sentieri di borotalco
conduce fino al miraggio sul quale la città è edificata.
Giungo a una delle città preferite: Cloe, città degli sguardi
possibili, delle relazioni mancate. Nella mia mente è una giostra
su cui inseguirsi invano, nella fantasia di Giuseppe Piccioni è
un centro commerciale, scale mobili trascinano uomini e donne in direzioni
opposte, realizzano l'utopia di Cloe dove "si consumano incontri,
senza che ci si sfiori con un dito". Cloe, megastore di sogni mai
consumati, sottrae alla compromissione delle relazioni, anatema che pende
su di un'umanità in marcia per le vie dello shopping, consapevole
che "se uomini e donne cominciassero a vivere i loro sogni, la giostra
delle fantasie si fermerebbe".
Il luna-park di letture si esaurisce, ma dietro un tendone: gabbie con
anatre, galline, maialini. Fedora, museo di sfere di cristallo, è
divenuta un circo di campagna. Guardando nei globi di vetro calviniani
Gaetano Pesce ha visto La fattoria degli animali. Ma questo piccolo microcosmo,
allegoria di fallimentari società ideali macchiatesi del peccato
della perfezione, è reale, di carne e odore e versi di galli impazziti.
Lascio la sala scoraggiata dalla maleodorante società-utopica:
tutto è lecito all'arte quando rilegge altra arte e le dona una
vita nuova; ben vengano le creazioni di creazioni, ma liberate gli animali.
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