Pasolini
e il mondo classico
di Silvia
Giuliani
Basta un
rapido sguardo sulla produzione artistica pasoliniana per notare come
la stragrande maggioranza delle opere legate al mondo classico e al mito
greco si concentri in un relativamente breve spazio di tempo, tra il 1966
e il 1970, quando ormai il mito di un Friuli contadino autentico e incontaminato
della prima stagione poetica e quello 'populistico' delle borgate romane
presentato nei romanzi degli anni Cinquanta sembrano essere tramontati;
e non è forse inutile domandarsi e cercare di spiegarne il motivo.
L'illusione che, davanti alla rapida svolta 'neocapitalistica' e industriale
dell'Italia degli anni Cinquanta, una valida alternativa poteva essere
rappresentata dal mondo mitico delle borgate romane, depositario di una
genuinità e autenticità non ancora toccata e corrotta dai
nuovi valori borghesi, viene presto a crollare davanti alla constatazione
che niente può resistere all'urto dell'inesorabile forza consumistica
e omologatrice, neppure i tanti Tommaso e le tante Mamma Roma
che finiscono per cedere al sogno di una vita borghese e a tentare la
scalata sociale: il risultato di questo brusco cozzare tra il vecchio
e il nuovo mondo assume inesorabilmente contorni tragici.
Davanti a questo fallimento, nel corso degli anni Sessanta, ecco subentrare
il passato e il mito greco a veicolare e proporre quella 'scandalosa'
diversità, cifra dell'autore e della sua opera, unica alternativa
plausibile alle nuove forze capitalistiche; è come se il Passato
si prendesse la rivincita sull'omologazione capitalistica, su quella 'mutazione
antropologica' che rischia di travolgere il mondo contadino, le minoranze,
le culture arcaiche e popolari in nome della nuova, imperante, onnicomprensiva
razionalità borghese: "Io sono una forza del Passato./ Solo
nella tradizione è il mio amore" (componimento datato 10 giugno
1962 contenuto in Poesia in forma di rosa, in Bestemmia. Tutte
le poesie, Garzanti, Milano, 1993).
La riproposizione del passato e del mito greco da parte di Pasolini non
si pone però mai come una fuga in regni 'apollinei' staccati dall'attualità,
ma conserva sempre uno sguardo disincantato e indagatore sull'origine
e sulle spietate dinamiche delle alienazioni e nevrosi della società
contemporanea: ed è proprio grazie a questo sguardo di denuncia
che il 'Passato' può costituire un valido contraltare al presente
degenerato e corrotto.
Ed ecco che grazie al filtro del mito emergono ora la problematica psicanalitica
del complesso di Edipo (Edipo, 1967), il tema tragico dello scontro fra
la vecchia cultura 'tribale', arcaica e magica e la nuova razionalità
borghese (Medea, 1970), la questione della 'mutazione antropologica' a
causa della quale il popolo, le minoranze, 'l'universo agricolo e paleocapitalistico'
rischiano di venir irrimediabilmente fagocitate dal nuovo 'centro consumistico',
baluardo della nuova società capitalistica e massificata (Pilade,
1966 e Appunti per un'Orestiade africana, 1969).
Ma una vena di pessimismo sembra alla fine percorrere e segnare queste
opere: la fine tragica di Medea, il fallimento del tentativo di sintesi
fra le due istanze operato da Pilade sono lì a significare che
il Passato non può che scomparire e farsi da parte davanti all'avanzata
delle nuove forze del Presente.
Lo stesso pessimismo che segna la produzione di questi anni si trasforma
nella totale disillusione dell' "Abiura dalla 'Trilogia della vita'"
del 1975 che, seppur incentrata sul particolare aspetto della corporeità
e della sessualità, può comunque fungere da sigillo a questa
cursoria disamina:
"È vero: per qualche anno mi è stato possibile illudermi.
Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza
del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo.
Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo.
Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare
ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente:
quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente,
svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano [
]
se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente
lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli
squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei
vili inetti costretti ad essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo
del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un
mucchio di insignificanti e ironiche rovine".
Due "bande
a parte". Qualche nota di cronaca, tra estetica e politica.
di Marco
Settimini
"Anche nel caos e nella superficialità c'è spazio per
la riflessione."
(Alberto Farassino su Bande à part di Jean-Luc Godard)
JLG (alias Godard), apprendiamo, pare abbia schernito, durante il festival
francese, Tarantino, alias "quello che gira film sui killer".
Ricordiamo che toccò a Lynch, una quindicina di anni fa, ai tempi
della palma a Cuore selvaggio - altra opera fiammeggiante à
la Godard - sottostare alle critiche corrosive del cineasta ginevrino.
Non si intende, qui, fare gossip da Croisette, per il quale esistono
i telegiornali. Si tratta invece di provare a capire come vanno le cose,
che aria tira nelle sale, se vogliamo ancora pensarle come un elemento
culturale, con una sua presenza positiva quanto a circolazione di idee,
di critica e di pensiero.
JLG eccede, e i suoi eccessi critici da "vecchio turco" sono
apprezzabili e auspicabili, ma un senso "retrò" lo prova
anche chi gli perdonerebbe qualunque cosa, ritenendolo tra i massimi creatori
e pensatori del Novecento. Cosa che, evidentemente, Tarantino invece non
è, né vuole essere. Tarantino è l'epigono, la sua
estetica filmica è palesemente godardiana (sulla linea A bout
de souffle - Bande à part - Pierrot le fou -
Made in USA), e lo è manieristicamente. Alcune sue pratiche filmiche
sono infatti delle riproposizioni, talvolta manierate talvolta rinnovate,
degli stilemi moderni, come nel caso del prelievo testuale ex abrupto,
senza soluzione narrativa.
Ma non è di stilemi che è il caso di parlare a proposito
di Cannes; o meglio, ci si può accostare tangenzialmente. Accanto
alle questioni estetiche, c'è infatti in gioco, piuttosto, la valenza
politica del cinema - del pensiero del e nel cinema - nella contemporaneità.
Godard lavora(va) nel e sul cinema, dentro l'estetica, ma anche secondo
istanze politiche; sebbene l'anarchismo delle prime opere non sia così
lontano da quello di Tarantino. Non è possibile riflettere su Kill
Bill e sul cinema tarantiniano in generale senza porre in primis
la questione estetica, perché il cinema tarantiniano è tutto
dentro tale la dimensione, e questa è la mancanza che vi si avverte:
che sia soltanto estetica e non est-etica.
Egli è l'epigono, s'è detto, e onora il maestro con il marchio
delle sue produzioni, ma certamente non è sufficiente un auto-sigillo
a garantirsi una filiazione. Interessante, piuttosto, è la differenza
tra i nomi delle case di produzione: "Anouchka" quella di Godard
nei Sessanta, in onore di Anna Karina, la sua donna e attrice, dunque
una trasfigurazione della realtà in immagini, e "Band Apart"
quella di Tarantino, in onore, appunto di Godard, in una trasfigurazione
seconda e ulteriore, del e nel cinema. Un cinema, quello di JLG, che studia
la realtà, che a essa in prima analisi si ispira, e che declina
in una finzione che la critica mentre critica il cinema; ne rende e ne
studia la "differenza", direbbe Deleuze, e lo fa rompendo gli
schemi del cinema classico.
Tarantino parte invece dal cinema, dalla finzione dunque; si ispira innanzitutto
(Jackie Brown), o solamente (Pulp fiction), a essa, definendo
uno spazio puramente "meta-cinematografico". Che se non mette
in crisi il cinema stesso, quantomeno lo permea di alcune rilevanti istanze
riflessive; ma che non critica, non indaga, non studia la realtà,
la quale si fa più lontana, all'orizzonte. Non può esserci
quindi istanza politica; è normale che sia cosi. E se ci si ricorda
che l'arte resta qualcosa di gratuito e assoluto, che lavora esteticamente,
allora non si pone il problema. Ci sarebbero poi soltanto opere indifferenti
o interessanti, perturbanti o normalizzanti, istituzionali o rivoluzionarie
(?), e così via. A Kill Bill non appartiene nessuno dei
suddetti aggettivi
Tralasciando, tuttavia, questi giudizi estetici, e prendendo atto che
non vi si esprimono valori politici, sorgono alcuni dubbi. Tra Tarantino
e JLG c'è sì un abisso di coscienza politica (utopica?),
ma forse - (si perdoni la prima persona) dico forse perché non
c'ero in quegli anni - è lo stesso che c'è tra la coscienza
nel contesto di ieri, e quella di oggi. Si può davvero (ancora)
pensare che i film abbiano una portata politica, se non eversiva? Non
è forse il contesto il problema, e la differenza? La differenza
tra lo spazio effettivo - tanto privato quanto pubblico - che per la coscienza
c'era allora e c'è, invece, adesso. D'altra parte i film non nascono
e non vivono al di là del contesto: il cinema è arte espressiva
e mezzo comunicativo dal e nel contesto.
Allora il problema non è di un film, un film insieme spettacolare
e espressivo, insieme narrativo e decostruito, dunque "postmodernista"
(?). Confrontato alle opere di JLG o di Straub e Huillet, ovvio che appaia
ottuso o anodino; ma è Tarantino, che resta uno dei massimi registi
in circolazione, specie in una stagione miserrima come questa. Il problema
è contestuale, ed è bene inorridire di fronte agli "onanismi
iconografici" di chi s'è diverto a cogliere i riferimenti
tarantiniani. Non per l'atto "critico" (suvvia
) in sé,
ma perché esso presuppone che costoro abbiano visto gli originali
cui egli farebbe riferimento.
JLG, al di là dei fumetti e dei B-movies - se They live
by night è tale - ha guardato anche Renoir (entrambi), Picasso,
Rodin, Vigò
e a se stesso; gli si può concedere anche
questo, a JLG. Che dire, allora, ai suddetti onanisti cinefili, se come
Tarantino hanno visto tante opere sulla Yakuza, o fruito in quantità
telefilm americani e fumetti nipponici (roba che si sdogana spesso troppo
facilmente in accademia)? Forse, che sono esemplari del contesto presente,
che la differenza tra Kill Bill e Pierrot le fou - molto
più etica (in senso politico-sociale) che estetica, a guardarci
bene: quella di Tarantino è davvero una modernità "fuori
tempo" - è anche in loro, e sintomatica, nei discorsi correnti:
negli interessi precipui.
Tornando in quel di Cannes
una più pesante accusa dovrebbe
gravare, da JLG e da tanti altri, su Tarantino: sul Tarantino presidente,
non director ("quello che fa i film sui killer"). Ed
è la palma a Michael Moore ("quello che fa i film sugli idioti",
per parafrasare). Ci si ricordava che essa era il premio di una mostra
di arte cinematografica; egli invece svuota il cinema della sua essenza
estetica, proponendo un divertimento accomodante più clippato
che Oliver Stone - si riveda bene Bowling a Colombine per farsi
un'idea - buono per strappare un po' di ir(oni)a sugli States, con un
mix di orrore e risate, confuse l'uno con le altre; e costui non è
Lynch, of course. Il fatto che in televisione (forse) non ci sia
spazio (Report?), non è una buona ragione per vederla sul
grande schermo. Idem per Giordana.
Almeno Tarantino director fa cinema, riuscito o meno, intelligente
oppure no. Dopo tre film originalissimi e godibilissimi, resta una presenza
positiva nel panorama cinematografico, per certi versi necessaria. (L'attenzione
che richiama, al di là degli spettatori pubblico, ma proprio per
le questioni est-etiche che pone, è comunque significativa. Anche
la "superficialità" di Tarantino può muovere il
pensiero
) A patto di non chiedergli ciò che non può
offrire: di politico non c'è nulla, o poco (ne Le iene,
per esempio), e comunque meno che in Sergio Leone; si sa, e bisognerebbe
mirare meglio le critiche. I problemi stanno fuori, e Kill Bill,
se ci distrae, comunque non ce ne consola, e poi il vero "film"
sui killer era proprio quello (su George W. & Co.) di Moore. Forse
hanno capito male i giornalisti; succede
Certo, se Notre musique
- lo si vedrà mai, o sarà come per Eloge de l'amour?
- fosse proiettato su tutti quegli schermi che hanno ospitato i fotogrammi
tarantiniani
Locandina di
Bande à part di Jean-Luc Godard
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