Cuspide
In libreria
Torna alla home page
Cinema e teatro

Metamorfosi, relitti e sfollati: trasformazione e sopravvivenza tra lettura e letteratura

di Giovanna Rizzarelli

……Piange ciò che ha
fine e ricomincia. […]
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci.
P. P. Pasolini

Non sempre ciò che muta trova le parole per esprimersi ed ora la cronaca che provo a mettere insieme richiede infatti un esercizio tutto particolare. Trovare il modo per rovesciare la lente non è facile invertire la prospettiva e passare da spettatrice a parte in causa per raccontare una nuova maratona di lettura (Mar Nero. Una metamorfosi di Ovidio. Pisa, Arsenali Medicei, 1-3 luglio 2004; regia e direzione artistica: R. Fratini Serafide; allestimento scenografico: B. Meoni; assistente alla regia: S. Eco Conti) sembra più complesso del previsto. Forse anche perché è proprio la prima trasformazione di cui devo render conto. Lo spettacolo visto da dietro, sbirciato e rosicchiato a mozziconi tra un'attesa e l'altra è un ingranaggio a tempo, una clessidra capovolta in cui ogni granello precipita verso una nuova attesa. Così tutto ciò che appare non è che un frammento di infinite emozioni ricomposte, singole e collettive, ogni chicco di sensazione che rimesso insieme non lascia intravedere i margini che si uniscono. Da dietro la grande Metamorfosi erano i volti incerti nell'attesa dell'ingresso che divenivano voci perentorie e calde, sicure e seducenti. Era la valigia sfondata che stupiva grondando l'acqua del Diluvio, o lasciando emergere fumo e profumi seducenti come l'alchimia di Circe. Era la parola convenuta a metà del verso che diveniva istante perfetto, coincidenza fortuita per lasciar apparire fantasmi in impermeabile che moltiplicavano gli effetti metamorfici e sottolineavano, con le loro valigie magiche, i versi come la matita rossa che scorre tra i caratteri da non dimenticare.
Queste le prime trasformazioni che si sbirciano da dietro il tendone di iuta ed il fumo che risputava alla ribalta i lettori scampati all'acqua grossa di questo nuovo diluvio catartico. E se purificazione c'è stata era certo annidata tra questi nuovi accenti pronunciati a luci basse, come da sonnambuli accompagnati tra le tenebre da piccole lampadine contro i terrori della notte, che come le lucciole, che popolavano il giardino che abbraccia gli Arsenali, rischiaravano appena le pagine sfocate. Sopravvissuti che brancolavano nell'oscurità sfiorando il relitto che campeggiava al centro dell'immensa stanzone ad elle: arca di Noè emersa dalla mota, colomba dalle ali spezzate planata violentemente tra ciò che resta e si aggrappa alla persistenza con gli artigli del falco.
Ecco cosa gridava o sussurrava tra i versi che riaccendevano alla memoria i vecchi miti tante volte ascoltati e, se non proprio quelli, così simili ad altri che a labbra strette mille volte li hanno ripronunciati e rimasticati facendoli rivivere: mutare per resistere, piegare l'ala per scampare alla catastrofe. Quell'emblema silenzioso ha pronunciato mille volte tra i brevi minuti di ribalta e le lunghe ore del sipario abbassato, la sua sfida alla resa, il suo ancorarsi con ogni forza alla terra che profuma ancora dell'acqua del diluvio. La terra che piano piano mi è divenuta amica, sorella inattesa che non può disgustare ma che lentamente sa sedurre svelando le sue memorie. Anch'essa metamorfica e metamorfizzante: isola, specchio, tomba e culla. Tra le sue braccia la mia trasformazione: l'emozione lasciata passare per il corpo che trova la strada per emozionare e toccare altri corpi e suscitare altre sensazioni. Parlare con il proprio corpo per far sì che parli agli altri, che racconti insieme ai versi, che commuova insieme all'abito candido e zingaresco seppellito come un cadavere sconcio raccontando una storia di violenza e sopravvivenza: la parola che trova la strada anche quando la lingua mozzata gronda sangue e si fa sterile. Il corpo come la tela su cui ricamare una condanna conosce vie che la voce non può percorrere, e trasformasi vuol dire battere questi sentieri inesplorati e sconosciuti che si epifanizzano in questi pomeriggi e sere calde di un luglio appena iniziato.
Così si chiude il cerchio: con i sopravvissuti tornati tutti insieme a rivivere l'istante del terremoto e della fuga, stretti alle loro valigie e ai loro impermeabili, ancora costretti a rivivere con gli occhi vuoti di stanchezza l'istante dell'attesa, per affollarsi per l'ultima volta ai lati del relitto e assistere all'atto conclusivo di questa catastrofe scampata. Le luci si riabbassano fino alla tenebra che accoglie ogni cosa, ogni rotella di questo effimero ingranaggio, per svelare il coacervo, il caos che tutto contiene: l'autore e l'opera, il regista e l'attore le cui immagini, come mani che pescano nel pozzo della mente, si sovrappongono come il recto ed il verso di una foglia. Foglia o pagina da strappare, da gettare via e ricomporre, bruciare e calpestare per poi rimettere insieme, per lasciare che il pianto sgorghi pure dalla corteccia che si apre e muta natura per sopravvivere, purché il verso venga ancora una volta pronunciato o scritto e oscilli in eterno come una piccola fiammella che illumina il buio, ma in eterno vive.

 

Pasolini e il mondo classico

di Silvia Giuliani

Basta un rapido sguardo sulla produzione artistica pasoliniana per notare come la stragrande maggioranza delle opere legate al mondo classico e al mito greco si concentri in un relativamente breve spazio di tempo, tra il 1966 e il 1970, quando ormai il mito di un Friuli contadino autentico e incontaminato della prima stagione poetica e quello 'populistico' delle borgate romane presentato nei romanzi degli anni Cinquanta sembrano essere tramontati; e non è forse inutile domandarsi e cercare di spiegarne il motivo.
L'illusione che, davanti alla rapida svolta 'neocapitalistica' e industriale dell'Italia degli anni Cinquanta, una valida alternativa poteva essere rappresentata dal mondo mitico delle borgate romane, depositario di una genuinità e autenticità non ancora toccata e corrotta dai nuovi valori borghesi, viene presto a crollare davanti alla constatazione che niente può resistere all'urto dell'inesorabile forza consumistica e omologatrice, neppure i tanti Tommaso e le tante Mamma Roma che finiscono per cedere al sogno di una vita borghese e a tentare la scalata sociale: il risultato di questo brusco cozzare tra il vecchio e il nuovo mondo assume inesorabilmente contorni tragici.
Davanti a questo fallimento, nel corso degli anni Sessanta, ecco subentrare il passato e il mito greco a veicolare e proporre quella 'scandalosa' diversità, cifra dell'autore e della sua opera, unica alternativa plausibile alle nuove forze capitalistiche; è come se il Passato si prendesse la rivincita sull'omologazione capitalistica, su quella 'mutazione antropologica' che rischia di travolgere il mondo contadino, le minoranze, le culture arcaiche e popolari in nome della nuova, imperante, onnicomprensiva razionalità borghese: "Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore" (componimento datato 10 giugno 1962 contenuto in Poesia in forma di rosa, in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993).
La riproposizione del passato e del mito greco da parte di Pasolini non si pone però mai come una fuga in regni 'apollinei' staccati dall'attualità, ma conserva sempre uno sguardo disincantato e indagatore sull'origine e sulle spietate dinamiche delle alienazioni e nevrosi della società contemporanea: ed è proprio grazie a questo sguardo di denuncia che il 'Passato' può costituire un valido contraltare al presente degenerato e corrotto.
Ed ecco che grazie al filtro del mito emergono ora la problematica psicanalitica del complesso di Edipo (Edipo, 1967), il tema tragico dello scontro fra la vecchia cultura 'tribale', arcaica e magica e la nuova razionalità borghese (Medea, 1970), la questione della 'mutazione antropologica' a causa della quale il popolo, le minoranze, 'l'universo agricolo e paleocapitalistico' rischiano di venir irrimediabilmente fagocitate dal nuovo 'centro consumistico', baluardo della nuova società capitalistica e massificata (Pilade, 1966 e Appunti per un'Orestiade africana, 1969).
Ma una vena di pessimismo sembra alla fine percorrere e segnare queste opere: la fine tragica di Medea, il fallimento del tentativo di sintesi fra le due istanze operato da Pilade sono lì a significare che il Passato non può che scomparire e farsi da parte davanti all'avanzata delle nuove forze del Presente.
Lo stesso pessimismo che segna la produzione di questi anni si trasforma nella totale disillusione dell' "Abiura dalla 'Trilogia della vita'" del 1975 che, seppur incentrata sul particolare aspetto della corporeità e della sessualità, può comunque fungere da sigillo a questa cursoria disamina:
"È vero: per qualche anno mi è stato possibile illudermi. Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti ad essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine".

Due "bande a parte". Qualche nota di cronaca, tra estetica e politica.

di Marco Settimini


"Anche nel caos e nella superficialità c'è spazio per la riflessione."
(Alberto Farassino su Bande à part di Jean-Luc Godard)


JLG (alias Godard), apprendiamo, pare abbia schernito, durante il festival francese, Tarantino, alias "quello che gira film sui killer". Ricordiamo che toccò a Lynch, una quindicina di anni fa, ai tempi della palma a Cuore selvaggio - altra opera fiammeggiante à la Godard - sottostare alle critiche corrosive del cineasta ginevrino. Non si intende, qui, fare gossip da Croisette, per il quale esistono i telegiornali. Si tratta invece di provare a capire come vanno le cose, che aria tira nelle sale, se vogliamo ancora pensarle come un elemento culturale, con una sua presenza positiva quanto a circolazione di idee, di critica e di pensiero.
JLG eccede, e i suoi eccessi critici da "vecchio turco" sono apprezzabili e auspicabili, ma un senso "retrò" lo prova anche chi gli perdonerebbe qualunque cosa, ritenendolo tra i massimi creatori e pensatori del Novecento. Cosa che, evidentemente, Tarantino invece non è, né vuole essere. Tarantino è l'epigono, la sua estetica filmica è palesemente godardiana (sulla linea A bout de souffle - Bande à part - Pierrot le fou - Made in USA), e lo è manieristicamente. Alcune sue pratiche filmiche sono infatti delle riproposizioni, talvolta manierate talvolta rinnovate, degli stilemi moderni, come nel caso del prelievo testuale ex abrupto, senza soluzione narrativa.
Ma non è di stilemi che è il caso di parlare a proposito di Cannes; o meglio, ci si può accostare tangenzialmente. Accanto alle questioni estetiche, c'è infatti in gioco, piuttosto, la valenza politica del cinema - del pensiero del e nel cinema - nella contemporaneità. Godard lavora(va) nel e sul cinema, dentro l'estetica, ma anche secondo istanze politiche; sebbene l'anarchismo delle prime opere non sia così lontano da quello di Tarantino. Non è possibile riflettere su Kill Bill e sul cinema tarantiniano in generale senza porre in primis la questione estetica, perché il cinema tarantiniano è tutto dentro tale la dimensione, e questa è la mancanza che vi si avverte: che sia soltanto estetica e non est-etica.
Egli è l'epigono, s'è detto, e onora il maestro con il marchio delle sue produzioni, ma certamente non è sufficiente un auto-sigillo a garantirsi una filiazione. Interessante, piuttosto, è la differenza tra i nomi delle case di produzione: "Anouchka" quella di Godard nei Sessanta, in onore di Anna Karina, la sua donna e attrice, dunque una trasfigurazione della realtà in immagini, e "Band Apart" quella di Tarantino, in onore, appunto di Godard, in una trasfigurazione seconda e ulteriore, del e nel cinema. Un cinema, quello di JLG, che studia la realtà, che a essa in prima analisi si ispira, e che declina in una finzione che la critica mentre critica il cinema; ne rende e ne studia la "differenza", direbbe Deleuze, e lo fa rompendo gli schemi del cinema classico.
Tarantino parte invece dal cinema, dalla finzione dunque; si ispira innanzitutto (Jackie Brown), o solamente (Pulp fiction), a essa, definendo uno spazio puramente "meta-cinematografico". Che se non mette in crisi il cinema stesso, quantomeno lo permea di alcune rilevanti istanze riflessive; ma che non critica, non indaga, non studia la realtà, la quale si fa più lontana, all'orizzonte. Non può esserci quindi istanza politica; è normale che sia cosi. E se ci si ricorda che l'arte resta qualcosa di gratuito e assoluto, che lavora esteticamente, allora non si pone il problema. Ci sarebbero poi soltanto opere indifferenti o interessanti, perturbanti o normalizzanti, istituzionali o rivoluzionarie (?), e così via. A Kill Bill non appartiene nessuno dei suddetti aggettivi
Tralasciando, tuttavia, questi giudizi estetici, e prendendo atto che non vi si esprimono valori politici, sorgono alcuni dubbi. Tra Tarantino e JLG c'è sì un abisso di coscienza politica (utopica?), ma forse - (si perdoni la prima persona) dico forse perché non c'ero in quegli anni - è lo stesso che c'è tra la coscienza nel contesto di ieri, e quella di oggi. Si può davvero (ancora) pensare che i film abbiano una portata politica, se non eversiva? Non è forse il contesto il problema, e la differenza? La differenza tra lo spazio effettivo - tanto privato quanto pubblico - che per la coscienza c'era allora e c'è, invece, adesso. D'altra parte i film non nascono e non vivono al di là del contesto: il cinema è arte espressiva e mezzo comunicativo dal e nel contesto.
Allora il problema non è di un film, un film insieme spettacolare e espressivo, insieme narrativo e decostruito, dunque "postmodernista" (?). Confrontato alle opere di JLG o di Straub e Huillet, ovvio che appaia ottuso o anodino; ma è Tarantino, che resta uno dei massimi registi in circolazione, specie in una stagione miserrima come questa. Il problema è contestuale, ed è bene inorridire di fronte agli "onanismi iconografici" di chi s'è diverto a cogliere i riferimenti tarantiniani. Non per l'atto "critico" (suvvia…) in sé, ma perché esso presuppone che costoro abbiano visto gli originali cui egli farebbe riferimento.
JLG, al di là dei fumetti e dei B-movies - se They live by night è tale - ha guardato anche Renoir (entrambi), Picasso, Rodin, Vigò… e a se stesso; gli si può concedere anche questo, a JLG. Che dire, allora, ai suddetti onanisti cinefili, se come Tarantino hanno visto tante opere sulla Yakuza, o fruito in quantità telefilm americani e fumetti nipponici (roba che si sdogana spesso troppo facilmente in accademia)? Forse, che sono esemplari del contesto presente, che la differenza tra Kill Bill e Pierrot le fou - molto più etica (in senso politico-sociale) che estetica, a guardarci bene: quella di Tarantino è davvero una modernità "fuori tempo" - è anche in loro, e sintomatica, nei discorsi correnti: negli interessi precipui.
Tornando in quel di Cannes… una più pesante accusa dovrebbe gravare, da JLG e da tanti altri, su Tarantino: sul Tarantino presidente, non director ("quello che fa i film sui killer"). Ed è la palma a Michael Moore ("quello che fa i film sugli idioti", per parafrasare). Ci si ricordava che essa era il premio di una mostra di arte cinematografica; egli invece svuota il cinema della sua essenza estetica, proponendo un divertimento accomodante più clippato che Oliver Stone - si riveda bene Bowling a Colombine per farsi un'idea - buono per strappare un po' di ir(oni)a sugli States, con un mix di orrore e risate, confuse l'uno con le altre; e costui non è Lynch, of course. Il fatto che in televisione (forse) non ci sia spazio (Report?), non è una buona ragione per vederla sul grande schermo. Idem per Giordana.
Almeno Tarantino director fa cinema, riuscito o meno, intelligente oppure no. Dopo tre film originalissimi e godibilissimi, resta una presenza positiva nel panorama cinematografico, per certi versi necessaria. (L'attenzione che richiama, al di là degli spettatori pubblico, ma proprio per le questioni est-etiche che pone, è comunque significativa. Anche la "superficialità" di Tarantino può muovere il pensiero…) A patto di non chiedergli ciò che non può offrire: di politico non c'è nulla, o poco (ne Le iene, per esempio), e comunque meno che in Sergio Leone; si sa, e bisognerebbe mirare meglio le critiche. I problemi stanno fuori, e Kill Bill, se ci distrae, comunque non ce ne consola, e poi il vero "film" sui killer era proprio quello (su George W. & Co.) di Moore. Forse hanno capito male i giornalisti; succede… Certo, se Notre musique - lo si vedrà mai, o sarà come per Eloge de l'amour? - fosse proiettato su tutti quegli schermi che hanno ospitato i fotogrammi tarantiniani…

Locandina di Bande à part di Jean-Luc Godard


Torna all'inizio