Matteo
Civitali e il suo tempo a Lucca.
Un raffinato e affascinante percorso nell'arte lucchese del secondo Quattrocento
di Ilaria
Ferretti e Maria Paola Palla
La mostra dedicata da Lucca a Matteo Civitali costituisce una prestigiosa
occasione tra quelle offerte dalle città d'arte toscane negli ultimi
mesi e un ulteriore approfondimento intorno al periodo rinascimentale
a cui hanno guardato numerose esposizioni inaugurate di recente.
L'iniziativa ruota intorno alla figura dell'artista più significativo
del Quattrocento lucchese, versatile protagonista di esperienze artistiche
diversificate; conosciuto principalmente come scultore in marmo, Matteo
Civitali fu anche pittore, plasticatore in terracotta e nel legno, e seguì
percorsi vari dei quali la mostra lucchese offre un quadro completo e
articolato.
Peraltro, come preannunciato dal titolo Matteo Civitali e il suo tempo.
Pittori, scultori e orafi a Lucca nel tardo Quattrocento, il percorso
critico della mostra spazia tra le personalità di altri artisti
locali ed è volto a sottolineare intrecci, reciproche influenze
e autonomi percorsi espressivi, con particolare attenzione alla traduzione
di temi decorativi e figurali nei diversi settori delle arti.
La prima sezione, introduttiva, è una "sosta critica"
nell'Ottocento, quasi una mostra nella mostra, che attraverso repliche,
calchi di statue, apparati decorativi e materiale documentario si sofferma
sulla fortuna dell'artista nella cultura del XIX secolo, che peraltro
ne considerò il valore esclusivamente come scultore in marmo.
Il percorso cronologico prende avvio a partire da un pezzo chiave della
produzione giovanile civitaliana, la Madonna con il bambino del
monastero di San Vincenzo Ferrer e Santa Caterina de' Ricci di Prato,
altorilievo in marmo impreziosito da abbondante uso dell'oro, fortunato
prototipo di successive repliche, realizzate in terracotta grezza o dipinta,
collocate cronologicamente dalla metà fino agli anni '70 del Quattrocento.
L'inclinazione quattrocentesca verso la produzione seriale a partire da
un prototipo si ritrova nella serie degli Ecce homo, replicati
in marmo e in terracotta policroma da Matteo Civitali e dalla sua bottega.
Civitali tuttavia non fu solo scultore. Come documentato dall'atto di
allogagione del polittico dipinto per la chiesa di Antraccoli (proveniente
dal Bob Jones Museum di Greenville), Baldassarre di Biagio e Matteo Civitali
furono entrambi "pictores": è questa l'unica attestazione
certa dell'attività pittorica di Matteo Civitali, intorno alla
quale la mostra indaga sia attraverso opere del fiorentino Baldassarre,
sia esponendo un dipinto più problematico come la Madonna in
trono con il bambino della Banca del Monte di Lucca, per il quale
la curatrice della mostra avanza cautamente la possibilità di una
ulteriore collaborazione tra Baldassarre e Matteo o addirittura una totale
paternità di quest'ultimo.
Negli stessi anni è attivo nel panorama lucchese Michele Ciampanti,
un pittore che pervenne ad esiti qualitativo-stilistici discontinui, della
cui produzione la mostra offre una delle testimonianze più convincenti:
un piccolo, prezioso dipinto su tavola della collezione Cini di Venezia,
raffigurante l'Adorazione dei pastori. L'impaginazione, la tipologia
delle figure, lo scorcio paesaggistico, nonché la raffinata soluzione
cromatica rivelano la familiarità con la coeva pittura fiorentina
e la predilezione per il linguaggio figurativo di Fra' Filippo Lippi e
Sandro Botticelli.
La rigorosa ricostruzione filologica della mostra non risparmia al visitatore
un momento di forte impatto scenografico con la presentazione di due parti
del recinto del "coro grande" di San Martino, quasi quinte che
immettono alla visione dei due Angeli dell'Altare del Sacramento,
posti ai lati del Tabernacolo eucaristico proveniente dal Victoria
& Albert Museum di Londra. Questa scelta espositiva è un omaggio
alla tradizione critica che considerava il Tabernacolo londinese come
parte del complesso dell'Altare del Sacramento. Le più recenti
posizioni critiche, tuttavia, hanno negato questa ipotesi, come peraltro
risulta evidente anche al visitatore che ne consideri le differenze dimensionali
e la diversa qualità del marmo.
L'incidenza del linguaggio civitaliano sull'arte lucchese degli ultimi
decenni del Quattrocento è testimoniata dalle opere di artisti
quali Vincenzo Frediani in pittura e Francesco Marti per l'oreficeria.
Nelle tavole di Michelangelo Membrini, le suggestioni civitaliane si stemperano
in un lessico più articolato, fino a pervenire ad esiti espressivi
estremamente originali in cui il fascino della pittura fiamminga si fonde
con la cultura antiquario-archeologica romana, che il pittore conobbe
direttamente e da cui attinse un ricchissimo vocabolario decorativo.
La mostra si conclude con le opere di artisti quali Fra' Bartolomeo, Amico
Aspertini, e Francesco Francia, che lavorarono per Lucca all'aprirsi del
Cinquecento e che segnarono nuovi percorsi tra anticlassicismo e maniera
per l'arte locale.
Particolare considerazione merita l'esposizione di parte delle vetrate
dell'abside di San Martino; nella semioscurità della saletta in
cui sono collocate, le vetrate si offrono ad una visione complessiva che
permette, da una distanza estremamente ravvicinata, la lettura delle peculiarità
tecnico-esecutive e del cromatismo originale restituito dal recente restauro.
Matteo Civitali e il suo tempo. Pittori, scultori e orafi a Lucca nel
tardo Quattrocento. Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi, 3 aprile-25
luglio 2004. Sito ufficiale: www.
matteocivitali.it; orario: tutti i giorni dalle 9,30 alle 20,00. Catalogo:
Silvana editoriale, prezzo €45.
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A.
I. 20. Artiste italiane nel ventesimo secolo
Palazzo Mediceo, Seravezza, dal 10 luglio al 10 ottobre 2004, aperta tutti
i giorni.
Catalogo Gli Ori, 30 euro.
di Alberto
Salvadori
La
disobbedienza, l'ironia, il coraggio tre caratteristiche che, secondo
la critica Lea Vergine, contraddistinguono la cifra femminile e l'arte
delle donne rispetto a quella degli uomini nel ventesimo secolo. La mostra
che è stata allestita in questi giorni al Palazzo Mediceo di Seravezza,
a.i.20 artiste italiane nel ventesimo secolo (10 luglio-10 ottobre 2004)
si può leggere ed interpretare anche grazie a queste tre caratteristiche.
I due curatori, Elena Lazzarini e Pier Paolo Pancotto, egregiamente coadiuvati
da Giorgina Bertolino, Sergio Rebora e Vittoria Surian hanno inteso dare
un'immagine del secolo appena trascorso con una mostra dove, per la prima
volta, sono protagoniste esclusivamente le artiste italiane.
Un solo grande ed importante precedente, nell'oramai lontano 1980, aveva
sottolineato il fondamentale, e ancora poco riconosciuto, ruolo delle
donne nella storia e nella cultura artistica (da ricordare comunque che
fuori dall'Italia, in particolar modo nei paesi anglosassoni e nord europei,
esiste da decenni una tradizione di women's studies): la mostra voluta
e curata da Lea Vergine L'altra metà dell'avanguardia. Ebbene
in quell'occasione il respiro internazionale delle presenze permise alla
curatrice di mettere in luce personalità e qualità straordinarie
di donne che hanno lasciato una traccia indelebile nel percorso artistico
del Novecento.
A Seravezza è stata allestita una mostra in cui possiamo finalmente
vedere un secolo di arte italiana interamente declinata al femminile.
Gli esiti non sono sempre esaltanti, ma nella maggioranza delle presenze
il livello è ottimo, con punte di eccellenza. Qualità indiscussa
dell'esposizione è far coesistere in uno stesso spazio fisico artiste
lontanissime tra loro, mettendo in scena un dialogo tra la prima e la
seconda metà del Novecento, fatto questo raramente successo.
Ad accogliere il visitatore il grande trittico Il Pane di Adelina
Zandrino, pittrice veneta dei primi decenni del XX secolo, che certo in
quest'occasione non sfigurerebbe vicino ad un Sironi. Passando in un'altra
sala troviamo altre straordinarie opere: due dipinti di Deiva De Angelis,
Ritratto femminile, esposto per la seconda volta in pubblico dal
1919 anno della sua realizzazione, e Autoritratto, del 1920, opportunamente
scelto come logo della mostra per il suo carattere fiero, l'aria
di sfida e il tono assolutamente anticonformista dell'artista. Nella stessa
sala colpiscono le due opere di Antonietta Raphaël Autoritratto
con violino del 1928, e il bellissimo ritratto della figlia Simona
col pettine, un bronzo del 1935, opera che sottolinea un tema centrale
per l'artista in tutto il suo lavoro: l'essere madre e il guardare alle
figlie come ad una fonte inesausta d'immagine (D'Amico).
Il visitatore passa dalla prima alla seconda metà del secolo trovandosi
di fronte artiste di grande qualità, e attraversa sale dove le
opere esposte trasmettono forti sensazioni. Notevole la sala con due bellissime
tele di Carol Rama Indagine 170 del 1970, compimento della ricerca
iniziata agli inizi degli anni Sessanta da Rama, per la quale Sanguineti,
poeta, amico e colto esegeta del lavoro dell'artista richiama il concetto
di bricolage, con un chiaro riferimento alla definizione del bricoleur
data da Lèvi-Strauss. L'altra è Spazio anche più
che tempo del 1971, esemplare opera del ciclo delle "gomme",
con tutti i riferimenti autobiografici e le connesse implicazioni esistenzialiste.
Da ricordare anche le presenze di Marisa Merz, Ketty La Rocca, artista
ingiustamente un po' dimenticata, Giosetta Fioroni e uno straordinario
Telaio della terra di Maria Lai, esemplare modello e metafora dell'inadeguatezza
del mezzo tradizionale, appunto il telaio, simbolo del lavoro delle donne
e della terra d'origine dell'artista, la Sardegna, nella società
moderna.
Si continua verso quel contemporaneo dove le artiste hanno finalmente
trovato la loro giusta collocazione nell'immaginario visivo e nel mondo
dell'arte, rappresentando spesso le punte d'eccellenza dell'espressione
e della ricerca dell'arte italiana. Continuando nella visita troviamo
un bellissimo dipinto di Margherita Manzelli, due tele di Vanessa Beecroft,
scelta questa coraggiosa da parte dei curatori, opere di Bruna Esposito,
Marzia Migliora, Luisa Lambri, Ottonella Mocellin, Eva Marisaldi, Stefania
Galegati, Grazia Toderi e molte altre ancora.
La mostra nel suo insieme è ben riuscita, non ha la pretesa, e
si vede, di essere esaustiva - con il rischio di assumere un carattere
antologico, difficilmente realizzabile - risulta invece un intelligente
e coraggioso primo passo verso ulteriori approfondimenti e confronti tra
un presente ben conosciuto, giustamente evidenziato, con un passato ricco
di sorprese e grandi personalità, che avrebbe il diritto di essere
sempre più mostrato e studiato. Altra qualità della mostra
è il non cadere mai nel gender, come si evince dai saggi e dalle
schede in catalogo (edito da Gli Ori), con il risultato di un'operazione
storica e critica di buon livello.
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Zero. 1958-1968 tra Germania e Italia
Palazzo delle Papesse, Siena, dal 29 maggio al 19 settembre, 2004, giorno
di chiusura: lunedi.
Catalogo (in edizione bilingue) Silvana Editoriale 30 euro.
di Alberto
Salvadori
La
cultura delle avanguardie del primo Novecento ha revocato il dubbio dell'opera
d'arte come oggetto estetico, vedi il quadro o la scultura, favorendo
la produzione di oggetti artistici, ampliando così l'orizzonte
formale delle arti visive: da ricordare, per tutti, il Modulatore di
luce e spazio di Làszló Moholy-Nagy, del 1930-1931.
A Siena al Palazzo delle Papesse è in corso una mostra, Zero.
1958-1968 tra Germania e Italia, (29 maggio-19 settembre 2004, chiusa
il lunedì) dove, idealmente, è possibile comprendere il
compimento di tale percorso che ha portato la pittura a misurarsi con
la scienza della percezione e con l'ottica, approdando alla produzione
di oggetti artistici.
Nel 1957, a testimoniare la necessità di produrre opere diverse
dai quadri e di non praticare più la pittura, prendeva vita in
Germania il Gruppo Zero, grazie agli artisti Otto Piene, Heinz Mack e
Günter Uecker. Di lì a poco anche in Italia nascevano alcuni
gruppi artistici animati dagli stessi propositi: nel 1959 a Milano si
formava il Gruppo T e a Padova il Gruppo N, supportato dal critico Umberto
Apollonio, e l'anno successivo, sempre a Milano, Piero Manzoni ed Enrico
Castellani dettero vita alla rivista Azimut. Ebbe così inizio il
tempo dell'arte programmata e cinetica caratterizzata dall'uso di strumenti
ritenuti neutrali, asettici, anti-sentimentali e in alcuni casi provocatori,
che presuppongono la più tipica fenomenologia del modernismo storico.
I due curatori, Marco Meneguzzo, autore di un bel testo in catalogo (edito
da Silvana Editoriale), e Stephan von Wiese hanno inteso fotografare l'opera
dei tre artisti tedeschi, che intersecarono in più occasioni le
loro ricerche, e dei corrispondenti italiani, realizzando una mostra che
ci permette di godere di uno dei fenomeni artistici più importanti
della seconda metà del XX secolo.
Sullo sfondo del "Manifesto Blanco" di Lucio Fontana, con il
suo incitamento alla conquista dello spazio siderale, e della presenza
di Yves Klein, grande "romantico" del secolo appena passato,
entrambi padri ideali di tutti gli artisti presenti, si dipana il percorso
espositivo dalle origini del Gruppo Zero approdando infine alle logiche
dei gruppi italiani, con un chiaro riferimento all'importante ruolo avuto
da Piero Manzoni.
Completa risulta la ricognizione di opere e artisti - forse un poco sbilanciata
a favore delle presenze tedesche - con sale storicamente fondamentali
e preziose, come la ricostruzione dello Spazio Elastico di Gianni
Colombo: superbo esempio di situazione spaziale para-architettonica, parradossale,
destabilizzata e destabilizzante, dove emerge la manipolazione e alterazione
degli stati di quiete della forma. Da ricordare inoltre gli spazi bui
e cinetici dei Gruppi T ed N, i "cieli stellati" di Piene e
i Light Prisms di Biasi, che ruotando sotto un raggio di luce emettono
i colori dello spettro luminoso.
Possiamo assistere così alla costruzione di immagini oggettuali,
realizzate usando la tecnologia, che evidenziano quanto siano complesse
e imprevedibili le avventure della percezione.
La mostra non presenta evidenti lacune e lo "Zero" della purezza
del grado di espressione artistico, ricercato dagli artisti tedeschi ed
italiani, è messo egregiamente in scena, facendo sì che
una visita al Palazzo delle Papesse di Siena risulti un occasione da non
perdere.
Questa è una mostra difficile da raccontare e da rendere con le
parole poiché è fatta di luci, movimento e percezioni a
tratti stranianti. Va vista, lasciandosi trasportare dai sensi, pronti
ad entrare e farsi catturare dalla dimensione altra che gli artisti sono
riusciti a creare.
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