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Magnificenza del Quattrocento in mostra a Parigi

di Chiara Balbarini

La serie di mostre sul Quattrocento che si è inaugurata a Parigi alla fine di febbraio con la retrospettiva sui "Primitivi" francesi, e che terminerà a Chantilly il 2 agosto quando il codice delle Très riches heures tornerà negli scaffali dell'antico Cabinet des livres del duca d'Aumale, ha portato un fondamentale contributo alla conoscenza della produzione artistica francese di un periodo spesso riduttivamente associato ai drammatici eventi della guerra dei Cent'anni. L'esposizione del Louvre Primitifs français. Découvertes et redécouvertes traccia un bilancio degli studi a un secolo dalla grande mostra-evento del 1904: un atto dovuto in un certo senso - per dirla con i curatori - verso le nuove acquisizioni di quel "piccolo mondo degli specialisti" sempre impegnato ad incrementare la conoscenza delle scuole pittoriche francesi e dei loro rapporti con le altre scuole "europee". È questa anche l'occasione di chiarire questioni controverse, come l'identificazione dei numerosi artisti attivi nell'illustrazione libraria parigina degli anni Cinquanta-Settanta, indagata recentemente, con argomenti convincenti, da François Avril e Nicole Reynaud. Restituire un'epoca e una città nella complessità degli aspetti politici, culturali, economici, attraverso lo "specchio" dei manufatti artistici - siano essi cattedrali, preziosi oggetti di oreficeria o codici miniati - è stato lo scopo che si è prefissa la mostra aperta anch'essa al Louvre in marzo, da poco conclusa. Paris 1400. Les arts sous Charles VI ha avuto non soltanto il merito di esporre al grande pubblico una moltitudine di oggetti raffinatissimi, realizzati nelle tecniche più disparate: tessili straordinari come il Paramento di Narbonne o la mitria ricamata della Sainte Chapelle; dipinti di devozione privata come la serie delle Pietà ronde; libri d'ore, bibbie e testi letterari miniati per i più importanti personaggi politici del momento: Jean de Berry, Philippe le Hardi, il maréchal Boucicaut e molti altri.
Far rivivere, almeno per il tempo dell'evento, la straordinaria fioritura artistica che Parigi conobbe al tempo di Carlo VI è dunque il sogno realizzato del direttore del Musée du Louvre, Henri Loyrette e della curatrice della mostra, Elisabeth Taburet-Delaye, dimostrando le potenzialità che una mostra d'arte offre quando si sappiano sfruttare al meglio.
Premessa a questa dettagliata ricostruzione storica, lo scardinamento di luoghi comuni e preconcetti, primo tra tutti la generale "cattiva reputazione" del regno di Carlo VI, passato alla storia, appunto, come "Carlo il folle". Se infatti occorre tener presente che alla morte del padre Carlo V, nel 1380, l'attività artistica non subì alcuna rottura nella capitale e gli zii del giovane Carlo VI, incaricati del regno in sua vece, si rivolsero agli artisti già utilizzati dal fratello, non bisogna d'altra parte dimenticare che la crisi politica e i disastri militari culminati nella battaglia di Azincourt iniziarono soltanto nel secondo decennio del Quattrocento, dopo anni di intensa produttività e originali risultati, che mal si riducono nella semplice formula di "arte di corte" o "Gotico internazionale".
In effetti a tutto vien da pensare ammirando la mostra del Louvre meno che a crisi politiche e sconfitte militari. È soprattutto la perizia tecnica degli artefici che stupisce il visitatore; stupisce ancor di più se si pensa alla rapidità con cui essi dovevano soddisfare la domanda continua della corte: oggetti destinati a chiese come doni a Dio, alla Vergine, ai santi protettori del regno, o doni diplomatici realizzati in occasione di incoronazioni, matrimoni e altre sfarzose feste d'apparato. Basti l'opera emblema della mostra, che sembra appena uscita da un laboratorio di Fabergé tanto risplende di perfezione esecutiva, doratura, smalti, pietre preziose e perle in profusione: è il cosiddetto Cheval d'or, dono della regina Isabella al re suo sposo in occasione del nuovo anno (1405). Interessante anche dal punto di vista più ampio della storia di questo tipo di manufatti: l'opera, che riunisce nella rappresentazione il mondo temporale della corte - in cui figura il ritratto dello stesso Carlo VI - e il mondo celeste, divenne solo più tardi un reliquiario; fu concepito cioè con finalità esclusivamente estetiche e "politiche", gioiello teso ad esaltare l'autorità del re, nel suo rapporto diretto con la Vergine.
La mostra, e il relativo, approfondito catalogo, hanno il merito di analizzare nelle varie sezioni le grandi tematiche che consentono di capire meglio la mentalità del tempo: come il cosiddetto preumanesimo parigino, che vide un'intensa attività di traduzione e di rifacimento di classici (Sallustio, Cicerone, Livio, Terenzio, testimoniati da splendidi codici illustrati); insieme alla produzione di "libri di saggezza" per il principe, frutto di riflessioni e dibattiti letterari, animati da Christine de Pizan e Jacques Legrand.
Il libro figurato come veicolo di messaggi politici, manifesto di una ben precisa idea del regno e del suo rapporto con l'autorità spirituale, è il tema che emerge anche nella piccola mostra di Chantilly: Les Très Riches Heures du duc de Berry et l'enluminure en France au début du Xve siècle (Musée Condé). Il famoso codice illustrato dai fratelli Limbourg - presente in originale, e offerto nella sua interezza alla fruizione del visitatore grazie ad un CDrom - è affiancato da libri come Les histoires de Bertrand du Guesclin, difensore del regno di Carlo V, e la Mutacion de Fortune di Christine de Pizan, autore-imprenditore delle proprie opere, emblematica figura della modernità.

Image de Notre-Dame, dit "Cheval d'or", Paris, avant 1405, Altöttung (Baviera), Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapell
Sinan, l'architetto di Solimano il Magnifico

di Claudia Massi

Nato in Anatolia, nella regione di Kaiseri, in provincia di Karaman, Sinan (1491-1588) giunse in giovane età a Istanbul, dove divenne prima un devsirme (alla lettera un "accolto"), poi un giannizzero, essendo entrato nella fanteria dell'esercito imperiale, così come si legge su Cose notevoli dell'architettura, scritto dal poeta Mustafa Sa'i Çelebi, contemporaneo di Sinan stesso.
I devsirme, ragazzi d'età compresa tra gli otto e i diciotto anni, generalmente orfani o provenienti da famiglie disagiate, non necessariamente musulmane, venivano prescelti in base a particolari attitudini, da un'apposita commissione inviata dal sultano nelle diverse regioni dell'impero. Nella capitale, per accedere alla compagnia dei cadetti, studiavano la lingua turca, la religione e la tradizione ottomana; successivamente venivano istruiti per essere ammessi al corpo dei giannizzeri. Chiunque poteva intraprendere la carriera militare o entrare a far parte dell'apparato imperiale, in una società, come quella ottomana del XVI secolo, che era una teocrazia di tipo militare. In questo periodo di massimo accentramento del potere nelle mani di Solimano, l'impero fu investito da una radicale modernizzazione, soprattutto dovuta all'intensa attività legislativa promossa dal sultano, uomo poliglotta e di grande cultura, che perseguiva un progetto mirato all'unione dei territori orientali con quelli occidentali. All'espansione dei confini corrispose la nascita di una "magnifica" corte, nota in tutta Europa, per cui a Solimano fu attribuito il titolo omonimo.
Sinan aveva iniziato la sua carriera militare con Selim I, padre di Solimano, e aveva partecipato, in veste di soldato, a diverse imprese belliche, continuate da Solimano medesimo, ossia le campagne di Belgrado (1521), di Rodi (1522), di Corfù (1537) e di Moldavia (1538), per citarne alcune. Fu così che dal secondo decennio del Cinquecento Sinan divenne un abile costruttore, attraverso un'esperienza fatta sul campo, grazie alla conoscenza diretta dei più importanti monumenti antichi, asiatici ed europei, e grazie alla pratica acquisita proprio dalle operazioni belliche, che richiedevano lavori di carpenteria e di cantieristica navale, a cui si applicò assiduamente.
Insieme all'apprendistato come carpentiere, la sua attività fu indirizzata verso la progettazione edilizia. Nel 1521 Solimano gli affidò l'incarico di realizzare una moschea e una tomba in onore del padre, morto l'anno precedente. A questo primo lavoro ne seguirono altri, non ancora importanti da renderlo celebre, ma comunque indispensabili per la sua formazione, come gli edifici a copertura lignea.
Per la progettazione di monumenti a cupola di muratura furono fondamentali per Sinan gli studi intrapresi a Istanbul, attraverso i quali giunse a una approfondita e diretta conoscenza di opere come la chiesa di Santa Sofia (532-537), la chiesa di S. Sergio e Bacco (527-536), la moschea di Fatih (1462-1470) e la moschea di Beyazid II (1501). In particolar modo si soffermò ad analizzare, da un punto di vista strutturale, la grande cupola di Santa Sofia, a cui farà riferimento costantemente nelle realizzazioni della sua maturità, fra le quali vanno ricordate la moschea di Sehzade (1543-1547) e la moschea di Solimano (1550-1557) a Istanbul, la moschea di Selim II (1568-1573) a Edirne.
Nel 1539 Sinan fu nominato architetto-capo dell'impero e ministro dei lavori pubblici, con compiti che andavano dalla costruzione di complessi religiosi alla sistemazione di strade e ponti, dalla supervisione delle reti idriche alla scelta dei materiali edilizi e al controllo sull'applicazione delle norme relative alle costruzioni.
Tutti i lavori compiuti da Sinan durante la sua lunga vita sono riferiti in tre manoscritti, "Tezkiretü'l Bünyan", "Tezkiretü'l Ebniye" e "Tuhfetü'l mi'marin", redatti tra il 1580 e il 1590 da Mustafa Sa'i Çelebi. Il catalogo completo dell'architetto comprende, entro i confini ottomani, 477 opere, tra moschee, tombe, caravanserragli, scuole coraniche, bagni turchi, ospedali, palazzi, ponti, acquedotti etc. Di queste, 328 si trovavano vicino alla capitale, 75 erano in Anatolia, Siria e Iraq, 44 in Romania, in Crimea e nei Balcani. Secondo un'indagine di A. Kuran, riportata in "Sinan. The Grand Old Master of Ottoman Architecture" (1987), sul totale delle realizzazioni, 31 non sono oggi identificabili, 173 sono state distrutte dagli incendi o dai terremoti, 52 non hanno più la loro originaria struttura in seguito a interventi di trasformazione, 25 sono in stato di completo abbandono e solo 196 hanno mantenuto la stessa tipologia architettonica.
Per seguire i lavori quale architetto-capo, Sinan aveva raccolto intorno a sé una quarantina di persone, tra architetti e capomastri, in grado di operare con efficienza in qualsiasi parte dell'impero. Certamente le costruzioni realizzate fuori dalla capitale, che non erano supervisionate direttamente dal maestro, apparivano stilisticamente meno compiute. Pur disponendo sul posto di disegni preparatori o di modelli, molte volte le maestranze del luogo non riuscivano a comprendere nel dettaglio il progetto di Sinan e la lontananza dell'architetto si rifletteva così sugli esiti dei lavori, sia dal punto di vista strutturale sia da quello stilistico.
Una delle opere più importanti di Sinan è senza dubbio il complesso di Solimano il Magnifico, realizzato tra il 1550 e il 1557. La moschea e gli edifici annessi, cioè i bagni pubblici, le scuole, l'ospedale, l'ospizio per i poveri, il mausoleo, collocati sulla sommità del terzo dei sette colli di Istanbul, degradano verso il Corno d'Oro. I fabbricati disposti intorno alla moschea sono caratterizzati dalla presenza di cortili, giardini, portici coperti a cupola, spazi raccolti, che ben si prestano per la preghiera. Nelle intenzioni di Sinan la moschea doveva superare, per magnificenza, la chiesa di Santa Sofia, per dimostrare al mondo di "essere più bravo dei bizantini" nella realizzazione di un edificio di culto.

Sinan, Moschea di Solimano il Magnifico, 1550-56, Istanbul

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