Qualche considerazione liminare
di Antonino Caleca
Ci sono certe considerazioni elementari che riguardano
lo studio dei manufatti figurativi (o visibili) che non si sentono ripetere
mai , ma che sono il fondamento del nostro mestiere. Forse potrà
essere utile enunciarle, come andrebbe fatto in sede di insegnamento elementare,
perché anche successivamente si può creare confusione tra
i diversi atti critici, e si può mescolare ciò che mescolato
non va.
Per parlare di un manufatto figurativo anzitutto bisogna distinguere,
entro la sua consistenza ed apparenza attuale, ciò che è
originario, e ciò che è stato aggiunto, tolto o mutato nel
corso dei tempi; si tratta di un ovvio esercizio di filologia, comparabile
ad analoghe operazioni che si compiono rispetto ai testi letterali o musicali,
e tuttavia non scevro da complessità; un testo figurativo può
essere decurtato, ripassato, restaurato, ricomposto, parzialmente o totalmente
rifatto, e così via, secondo la miriade di circostanze che hanno
alterato consistenza ed apparenza degli oggetti (dai più ampi paesaggi
antropizzati e dai complessi urbani, ai più minuti elementi dell'abbigliamento
o dell'arredamento, come un bottone o una passamaneria). Per fare un esempio
concreto, gli affreschi della cappella Brancacci al Carmine di Firenze,
prima del recente restauro che li ha liberati dei fumi dell'incendio settecentesco,
sono stati talvolta esaminati come se la cromia che allora presentavano
fosse originale; è ben vero che neanche l'aspetto attuale corrisponde
a quello che essi avevano quando Masaccio e Masolino, e poi Filippino
Lippi li considerarono finiti, o almeno smisero di elaborarli, ma comunque
oggi è più facile risalire dal loro aspetto attuale a quello
che ebbero dal tempo della loro elaborazione all'incendio settecentesco.
Ma parlare, sia oggi che prima del restauro, di tali affreschi come di
un tutto unico, come se fumi e tracce dell'incendio non dovessero essere
distinti dalla elaborazione originale, o come se i perizomi aggiunti per
pruderie dai cattolici riformati non fossero altra cosa dai nudi
originali, o come se non si ponesse il problema dei risarcimenti operati
da Filippino da un testo masaccesco mutilato per damnatio memoriae
di alcuni dei Brancacci sarebbe impiantare il discorso ermeneutico su
fondamenta labili e indistinte, rischiare di attribuire all'iniziativa
di Masaccio l'effetto del fuoco, o di fare altri errori del genere; è
vero che anche l'aspetto che un'opera assume nel corso dei secoli un'opera
è importante, e che il cromatismo di un certo Carrà o di
un certo Sironi dipende dall'effetto del fuoco sul testo originario di
quegli affreschi; ma, appunto, questo va valutato facendo le debite distinzioni;
tutto ciò equivale alla necessità di stabilire quale testo
della Bibbia (non certo le versioni ebraiche o greche, e nemmeno
le traduzioni italiane, per gran parte di là da venire, ma un certo
determinato tipo di tradizione della Vulgata geronimiana) sia stato
presente a Dante, e quindi sia da tenere in considerazione nell'analisi
della Commedia. Se dunque è operazione essenziale (e preliminare
alla comprensione) la distinzione nel testo dei ciò che resta o
è ricostruibile della sua apparenza e materialità originaria,
e dei successivi incrementi, decrementi e mutamenti che esso ha subito
nel corso del tempo, preliminare (almeno secondo un ideale ordine mentale)
alla comprensione sarà anche la ricostruzione delle condizioni
di lettura dell'opera; è infatti ben differente, ad esempio, la
materialità o l'apparenza di un ciclo di affreschi o di un polittico
d'altare immaginato (e talvolta conservato) nella sua collocazione originaria,
nelle condizioni di visione determinate da una particolarissima situazione
architettonica, rispetto a quella di quanto resta di quel complesso (talvolta
poche membra disiecta) musealizzato o comunque conservato in condizioni
di lettura che, per necessità o per capriccio, sono ormai ben diverse
da quelle originarie; e così si può dire di un qualsiasi
stadio, scelto ad libitum, della storia costruttiva di un edificio,
che nei tempi muta non solo per i suoi intrinseci cambiamenti, ma anche
per l'aspetto diverso (talvolta radicalmente diverso) che viene ad assumere
l'ambiente (urbano o suburbano) circostante.
Soltanto partendo da un tal lavoro filologico preliminare si potrà
passare poi ad un'ermeneutica del testo così ricostruito. Ma anche
qui chiarezza di pensiero vuole che si tengano presenti alcune fondamentali
distinzioni.
Nella prefazione all'Arte del Medioevo Julius von Schlosser distingue
tra storia del linguaggio e storia dello stile, ritenendo in tal modo
di sceverare ciò che nel prodotto umano (nel suo caso figurativo)
il singolo acquisisce, trova già esistente, da ciò che è
sua personale elaborazione; io credo che forse sia più proprio
parlare di tradizione e innovazione, retaggio e creazione, e che ogni
azione umana (compresi i prodotti figurativi) vada valutata in base a
queste due categorie fondamentali.
In questo modo il lavoro dello storico nel suo procedere appare di palmare
limpidezza: in ogni fatto egli deve distinguere quella che era la situazione
iniziale (retaggio) che l'agente ha trasformato, giungendo ad un risultato
diverso da quella situazione; la ricostruzione di quel processo di trasformazione
(talvolta semplice, talvolta estremamente complessa) sarà il di
più di conoscenza che permetterà di capire la qualità
di quel fatto, di fare chiarezza dove prima non c'era che una percezione
confusa, di ricostruire con la nostra umanità un'umanità
che, per essere diversa dalla nostra, è uno dei modi possibili
in cui l'umanità può articolarsi, ed è quindi un
arricchimento dell'umanità nostra originaria, un passo nella conquista
dell'umanità totale.
L'altra fondamentale distinzione da tenere presente è ovviamente
quella tra contenuto e forma; un prodotto figurativo è forma, in
quanto risultato visibile di un processo materiale di costruzione, ma
anche contenuto, in quanto processo di consapevolezza umana che si è
realizza in quel prender forma. La distinzione vale certo soltanto su
un piano di condotta rigorosa dell'analisi; ogni minima sfumatura della
forma distingue la qualità umana di un atto figurativo da un altro
simile ma non uguale: e così, per esempio, nella tiratura delle
varie copie di una stessa stampa, ci possono essere cure diverse per aspetti
diversi, che producono un effetto diverso, a seconda del variare dell'intenzione
dell'artista stampatore, sollecito, per esempio, talvolta dell'effetto
volumetrico generale, talvolta della nitidezza dei particolari, talvolta
dell'amalgama chiaroscurale dell'insieme; e ciascuno di questi risultati
deriverà da una consapevolezza di voler dare di una certa realtà
un'interpretazione leggermente diversa.
La forma, dicevo, soltanto in astratto e per necessità d'analisi
si può considerare indipendentemente dal contenuto, e se, per esempio,
il colle dell'Infinito leopardiano non fosse ermo, ma solitario, non solo
si perderebbe il ritmo, ma ci troveremmo al di fuori da quei rimandi alla
tradizione poetica italiana che intenzionalmente derivano dalla scelta
di una tale parola, rara e letteraria anche nel primo Ottocento.
La forma va quindi esaminata, nei suoi elementi e nelle sue strutture,
ma sempre tenendo conto del fatto che si tratta di una forma significante,
che i suoi mutamenti hanno sempre una valenza espressiva: se si esaminano
le vicende della composizione di opere per le quali rimangono ricche documentazioni
dell'iter progettuale e compositivo (sto pensando, per esempio,
a Guernica di Picasso) si vede che l'elaborazione formale risponde
a pensieri, sentimenti, estri che mutano nel tempo, e non è comprensibile
al di fuori del percorso umano che l'artista sta portando avanti.
Spesso tuttavia si prende per vuoto esercizio stilistico ciò che
è seria ricerca formale; l'analisi delle opere, e anche delle dichiarazioni
di poetica, degli artisti ci dimostra infatti come per lungo tempo nella
civiltà occidentale (e, a quanto ne so, non solo in quella) alcuni
caratteri insiti nell'elaborazione formale (per esempio la bellezza, o
in tutt'altri tempi l'art pour l'art) sono stati considerati valori
fondanti dell'arte, ai quali val la pena, magari, di dedicare una ricerca
che dura tutta una vita; certo, la menschliche Proportion di Dürer,
o la contemporanea ricerca dell'armonia di Raffaello sono ricerche che
possiamo classificare anche come formali, ma il valore di umana esperienza
che esse assumono ce le fa considerare come il contenuto di menti illuminate,
che in questo modo hanno ampliato la realtà.
Ma proprio perché una produzione figurativa è una parte
di realtà che si crea, una realtà nuova che elabora e muta
una parte del mondo, essa non è mero esercizio formale, e il suo
contenuto è appunto il mondo (una parte di mondo) così mutato.
I valori presenti a Tiziano vecchio (il mondo come fulgori e tenebre,
colto nel suo formarsi nella pennellata corposa e direzionale, nell'emergere
dall'abbozzo, dallo spegasson) sono valori fondanti di una concezione
dell'umanità e del mondo, non meno di quelli insiti nelle creazioni
verbali dei letterati (e in quelle foniche dei musicisti); che poi gli
aspetti più immediatamente presenti agli artisti siano quelli visuali
(per esempio, i sentimenti, il dolore, l'amore, visti, i caratteri visibili
da cui si rivela l'indole umana, l'accordo visibile tra uomo e natura,
la presenza visibile della divinità nel mondo, e così via)
non deve fare certo meraviglia: come sono gli aspetti sonori del mondo
quelli più immediatamente presenti ai musicisti, e quelli verbali
(o legati ai concetti verbali, che è la stessa cosa) quelli più
immediatamente presenti ai pittori e ai parlanti; le affermazioni di Leonardo
sulla scienza del vedere nel Paragone tra le arti mantengono la loro sostanziale
validità.
È ovvio che la distinzione tra tradizione e innovazione, retaggio
e creazione si applica sia alle forme che ai contenuti delle opere d'arte;
l'oggetto ricreato fa riferimento a ciò che lo ha preceduto sia
per gli aspetti formali, sia per quelli di contenuto; e siccome il contenuto
dell'opera d'arte riguarda l'intera umanità di chi la produce,
non c'è distinzione fra riferimenti ad esperienze pregresse figurative,
o di altra natura (verbali, musicali, o, semplicemente e complessivamente,
esperienze di vita).
Altro genere di distinzione è quello tra i tipi di linguaggi espressivi:
ci possono essere oggetti (per esempio un quadro) che noi apprendiamo
esclusivamente (o prevalentemente?) per mezzo della vista, e altri oggetti
(per esempio un film sonoro) che apprendiamo per mezzo di vista e udito.
È anche possibile che elementi che richiamano la verbalità,
la musicalità o altri tipi di espressione siano presenti in un
contesto figurativo; sono frequentissimi i casi in cui, per esempio, singole
lettere o parole scritte fanno parte di un contesto visibile, oppure la
frequentazione di un ambiente produce un effetto sonoro determinato: e
chi più ne ha più ne metta, se è vero, per esempio,
che il modo più frequente, oltre la conversazione, in cui ci si
presenta la verbalità è la scrittura, che raramente (o meglio,
mai) prescinde da una cura per l'aspetto visibile del contesto: allineamenti,
scelte di caratteri, estensione dei limiti del foglio sono problemi squisitamente
figurativi che si presentano a chi scrive e a chi legge, e che fanno parte
integrante del processo espressivo.
Mi pare in tal modo di aver toccato un argomento (la compresenza di elementi
elaborati in linguaggi diversi) che nella sua tuttora attuale problematicità
richiederebbe una ben più complessa elaborazione; perciò
mi fermo qui, facendo però rilevare quanto facilmente si incontrino,
nella nostra quotidiana pratica di mestiere, problemi generali ancora
aperti, che è bene affrontare con la fresca empiria della ricerca
storica, ma forse talvolta richiedono anche il conforto di una più
generale riflessione.
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