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In mostra

Corsi e ricorsi della pittura spagnola

di Chiara Savettieri

E' il 1809 quando il pittore-mercante d'arte Jean-Baptiste Le Brun scrive :"L'Espagne est une mine de richesse de l'art", affermazione per noi scontata, quasi banale, ma non per il pubblico francese di allora che dell'arte spagnola sapeva poco o nulla. Le Brun, spinto dal desiderio di conoscere e far conoscere maestri ignoti, aveva viaggiato in Spagna, scoprendo dei capolavori; mosso dalla volontà di "arracher de l'oubli plusieurs maitres célèbres qui sont inconnus de tout ce qui n'est pas l'Espagne", aveva deciso di pubblicare un testo, corredato di incisioni, che divulgasse le sue "scoperte". Pungolato da una vorace curiosità, ossessionato dalla mania dell'inedito, Le Brun fu fra gli assertori più agguerriti del valore dell'originalità, della necessità di ampliare il gusto del pubblico, di proporre agli artisti nuovi modelli cui ispirarsi. Non è un caso che nel 1795 egli scrisse un libello in cui metteva in discussione la validità del modello tradizionale di insegnamento dell'arte: poiché necessariamente il maestro esercita un potere di coercizione sull'allievo imponendogli di imitare se stesso e i suoi modelli, l'unico modo affinché il genio personale del pittore-apprendista germogli spontaneamente è lasciarlo libero di scegliere i modelli a lui più consoni.
Riscoperte del gusto (Haskell docet) e rivendicazione dell'originalità: un'accoppiata che si afferma nel delicato periodo rivoluzionario-napoleonico e che già contiene fermenti delle estetiche romantiche. Non è un caso che a mano a mano che opere spagnole entravano in Francia o con le spoliazioni napoleoniche (1812), o con l'incremento di collezioni come quella di Luigi Filippo d'Orléans, alcuni artisti si lasciassero sedurre da questi nuovi modelli (è inutile sottolineare, come aveva fatto Haskell, che al cambiamento del gusto contribuì la rinnovata disponibilità offerta dai musei di vedere nello stesso luogo tante opere diverse tra loro). Così come non è un caso che furono proprio artisti e scrittori "romantici" a esaltare negli spagnoli qualità che non avrebbero mai ritrovato in geni luminari del classicismo come Poussin o Raffaello. Nel 1846 Théophile Gautier, sottolineando che l'arte di Velázquez non "relève en rien de l'antiquité", la definiva "romantique dans toute l'acception du mot". Ecco così che pittori come Chasseriau o Ziegler svilupparono un "ingrismo" nero ispirandosi a Ribera e Zurbaran. Se Gautier vedeva nella pittura spagnola quell'ascetismo morboso che la sua penna sapeva tanto ben evocare, altri potevano, ben diversamente, riconoscervi un sano naturalismo. E' il caso di Courbet, che Champfleury (1848) paragonava spesso a maestri spagnoli. Apprezzare questi ultimi aveva per il pittore un significato anticlassicista e anti-accademico; lo rivela questa frase irrisoria che si conclude con una risata scanzonata: "Ribera, Zurbaràn, et surtout Velázquez, je les admire (…). Quant à Monsieur Raphael, il a fait sans doute des portraits intéressants, mais je ne trouve dans ses tableaux aucune pensée. C'est probablement pour cela que nos prétendus idéalistes l'adorent. L'idéal !Oh!oh!oh! ah!ah!ah! Quelle balançoire! Oh !oh!oh!ah!ah!ah!ah".
Facciamo un passo avanti. E' il 14 settembre 1865 quando Manet scrive a Baudelaire: "Enfin, mon cher, je connais Velázquez et vous déclare qu'il est le plus grand peintre qu'il y ait jamais eu; j'ai vu à Madrid 30 ou 40 toiles de lui, portraits ou tableaux, qui sont tous des chefs-d'oeuvre ; il vaut plus que sa réputation et à lui seul la fatigue et les déboires impossibles à eviter dans un voyage en Espagne, J'ai vu de Goya de choses très intéressantes… ". Il 1865 è infatti l'anno in cui il pittore, già precedentemente attratto da temi spagnoli, si reca finalmente in Spagna. Da questa data in poi, la pittura spagnola, e Velázquez in particolare, costituirono per Manet una fonte di ispirazione ancora più forte che in passato. Per convincersene basta solo paragonare il buffone Pablo de Valladolid di Velázquez (Madrid, Prado) con l'Attore tragico Rouvière nel ruolo di Amleto di Manet: del tutto simile l'impostazione della figura, simile lo sfondo neutro su cui si accampa il protagonista, simile la pennellata che stende spesse, dense ed essenziali masse di colore. E' chiaro che Manet riconosceva in Velázquez un punto di riferimento proprio per le ricerche che faceva sul colore.
Tante parole per spiegare somiglianze, relazioni che riguardano il mondo della pittura…Ma il confronto visivo tra due dipinti funziona molto di più di quello verbale!Ecco allora il senso, l'importanza della mostra "Manet-Velázquez. La manière éspagnole au XIX siècle", ospitata prima al Musée d'Orsay e ora al Metropolitan Museum di New York. Mostra intelligente ed esemplare perché permette al visitatore più inesperto di cogliere tutta la portata della riscoperta dei maestri spagnoli nella pittura francese dell'800. Vedere a pochi metri di distanza il Pablo di Velázquez e l'Attore di Manet è un'esperienza visiva incredibilmente ricca e significativa. L'accostamento di opere spagnole visibili nel XIX secolo in Francia e di copie di questi dipinti eseguite da pittori come Chasseriau, Manet, Moreau… è estremamente efficace: anche un turista giapponese non munito di guida può capire…a meno che non abbia problemi di vista. La straordinaria sezione dedicata a Manet - con opere altissime come i due Filosofi di Chicago - trasmette in maniera del tutto convincente l'importanza che per il pittore ebbero i maestri spagnoli. Ne viene fuori una nuova immagine della pittura francese del XIX secolo: non un'arte prettamente e tipicamente "francese", ma un'arte che ha saputo trarre feconda ispirazione da una tradizione pittorica del tutto diversa dalla propria.

Immagini a confronto:

D. Velàsquez, Il buffone Pablo de Valladolid, 1636-37, Madrid, Prado

E. Manet, L'attore tragico:Rouvière nella parte di Amleto, 1865-66, Washington, National Gallery of Art

 

Tom Thomson (1877-1917), icona dell'arte canadese: una retrospettiva itinerante

di Veronica Neri

A Thomas Thomson, figura simbolo della giovane arte canadese, viene tributata, dopo più di trent'anni dalle ultime grandi retrospettive, una nuova esposizione monografica, curata dalla Art Gallery of Ontario di Toronto e dalla National Gallery of Canada di Ottawa e destinata ad impreziosire - tra il giugno 2002 ed il dicembre 2003 - alcune tra le principali istituzioni artistiche del paese, da Ottawa a Vancouver, da Quebec a Toronto, a Winnipeg.Coordinata da Charles C. Hill, con il contributo di Andrew Hunter, Joan Murray e Dennis Reid, l'esposizione recepisce i più recenti studi dedicati all'artista, il cui operato viene analizzato secondo un approccio che suggerisce nuove chiavi interpretative di una produzione fortemente influenzata da una personalità "vagabonda", la cui arte vive in simbiosi con gli spazi sconfinati e con la natura incontaminata tipici della provincia dell'Ontario.
La mostra ripercorre la vita artistica di Thomson, scandita per aree tematiche, più che cadenzata sul piano cronologico: dagli inizi della sua attività pittorica al periodo giovanile della grafica, fino a giungere ad una accurata analisi delle molteplici tecniche pittoriche utilizzate.
Le prime sale sono dedicate alla sezione più ampia ed articolata della mostra, che comprende un centinaio di schizzi e di pitture paesaggistiche datati a partire dal 1911 (anno degli esordi pittorici). Colpisce il visitatore l'evoluzione che si dipana dalla rappresentazione delle prime gite in canoa, come The Canoe, spring or fall (1912), fino ad arrivare ai più raffinati giochi cromatici delle tele del 1914, anno cruciale nella vita di Thomson, che deciderà allora di dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Le fredde stagioni invernali, soggetto di Chill November o anche di The Jack Pine, opera emblematica dell'intero percorso espositivo (1915, National Gallery of Canada), sono raffigurate come paesaggi densi di atmosfera, permeati di quel senso panico della natura che permette all'artista di percepire i continui cambiamenti di luce e di sfumature del cielo. Anche nel paesaggio nevoso In Algonkin Park (fine del 1914), sono mirabilmente svelati i riflessi dei rari raggi luminosi sulla neve.
Smarrito dall'immensità della natura che trionfa nelle tele, lo spettatore sente quasi di poter far parte di quell'universo, veicolato da un'arte materica e pastosa, in cui le forme sono plasmate soprattutto con l'uso della spatola ed il cui esito finale riecheggia, almeno in parte, le tematiche e la tecnica en plein air dell'Impressionismo europeo.
La seconda sezione descrive l'attività di designer e di decoratore di Thomson, nei primi anni del Novecento, a Seattle (per C.C. Maring e per la Seattle Engraving Company) ed a Toronto (per Legg Brothers, Photo Engraver, tra il 1904 ed il 1905). Di questo periodo è il guazzo Burns' Blessing (1906, Tom Thomson Memorial Art Gallery, Ontario), opera che ricorda l'attività incisoria di William Cruishank (1849-1922), allora suo maestro al Central Ontario School of Art and Industrial Design.
La vita di Thomson conosce una svolta quando, lavorando per la Grip Ltd., ha modo di stringere un proficuo sodalizio con J.E.H. MacDonald: con lui collaborerà al progetto per il nuovo Toronto General Hospital, ma, soprattutto, fonderà il "Gruppo dei Sette". Siamo nel periodo in cui Thomson si avvicina ai valori dell'Art and Craft di William Morris, scaturiti in seno all'Aesthetic movement di Toronto; di essi si farà progressivamente alfiere, partecipando, con altri suoi colleghi (tra i quali Arthur Lismer, J.E.H. MacDonald e George Reid), alla teorizzazione di un'arte decorativa quale mezzo espressivo che, attraverso simboli (si veda ad esempio il camino ed i murals per il McCallum cottage), traduce sulla tela molti degli aspetti più caratterizzanti della società e della cultura canadesi del periodo.
Nella terza ed ultima parte della mostra sono esposti opere e schizzi realizzati all'Algonkin Park e nei pressi della Georgian Bay, come i decorativi Water flower o Maple Sapling, October. La fusione tra uomo e natura è qui completa; l'artista si immedesima nella natura e nella natura trova non più solo la sua fonte di ispirazione, ma anche la sua fonte di vita: il diretto contatto con le sterminate campagne canadesi si manifesta negli stessi lavori che Thomson intraprende, come quelli di guardaboschi, di taglialegna e di guida per i pescatori. Tali attività si riflettono sul realismo e sul sentimento di una natura indomabile e affascinante che nei dipinti coevi sono magistralmente espressi. La scelta di vita che Thomson intraprende avrà effetti anche sulla sua popolarità postuma, in quanto lo svolgimento delle attività più tipiche, quasi mitiche, della storia canadese, lo faranno portavoce di una tradizione che ancora oggi vive nel popolo canadese, abituato da sempre a vivere con una natura spesso aspra nella sua ricchezza.
Al termine dell'esposizione, una sala è dedicata all'analisi chimica dei materiali delle circa centocinquanta opere esposte: l'opera artistica di Thomson sembra quasi vivisezionata anche sul piano materiale, per mostrare la grande varietà materica e le metodologie di cui si è avvalso.
Questi studi, recentissimi, condotti da Sandra Webster - Cook e da Anne Ruggles, hanno tra l'altro offerto un notevole contributo in merito al problema della cronologia di alcune opere, ma, soprattutto, hanno permesso di riconoscere i falsi e di correggere alcune fuorvianti attribuzioni. Questa parte dell'esposizione vuole essere, probabilmente, un omaggio all'opera di coloro senza i quali la mostra non sarebbe potuta essere un vero punto fermo nella ricostruzione di un momento basilare nella storia dell'arte canadese.
L'intimo legame tra Thomson e il suo paese trova una definitiva consacrazione nell'ultima sala dell'esposizione, che presenta una raccolta di articoli sull'artista e sul mondo in cui è vissuto e nel quale la sua morte (avvenuta nel 1917) è stata seguita da un subitaneo successo, rimasto vivo ancora oggi. L'itinerario sembra esserne la più eloquente delle conferme.

 


Tom Thomson (1877-1917)
Ottawa, National Gallery of Canada: 7 Giugno - 8 Settembre 2002
Vancouver, Vancouver Art Gallery: 5 Ottobre 2002 - 5 Gennaio 2003
Quebec city, Musée du Quebec: 6 Febbraio - 3 Aprile 2003
Toronto, Art Gallery of Ontario: 30 Maggio-7 settembre 2003
Winnipeg, Winnipeg Art Gallery: 29 settembre-7 dicembre 2003

 

T. Thomson, The Jack Pine, 1916-17,
National Gallery of Canada

 

Doug Aitken, New Ocean. A Shifting Exhibition.
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 28 Febbraio - 18 Maggio 2003

di Lucia Francia, Alberto Salvadori

Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1999 è di nuovo visibile in Italia l'opera dell'artista statunitense Doug Aitken, rappresentato questa volta dall'installazione New Ocean, prodotta ed organizzata dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. New Ocean è un percorso visivo composto da cinque video, di varia natura e forma, girati nei cinque continenti ed ispirati alla dimensione acquatica.
L'opera, inaugurata alla Serpentine Gallery di Londra nel 2001 ed in seguito esposta all'Opera City Gallery di Tokio e alla Kunsthaus Bregenz in Austria, giunge in Italia in una versione appositamente studiata per la Fondazione torinese. La conformazione architettonica dello spazio espositivo facilita la creazione di un ideale itinerario fisico, sensoriale e spirituale, che conduce lo spettatore dalla superficie terrestre fino alle più remote profondità marine.
Thaw - un video, scomposto come un trittico, trasmesso su un monitor al plasma - introduce al trapasso tra acqua e terra: posto all'inizio di un lungo corridoio, lungo il quale si abbandona la luce per il buio, rievoca attraverso i suoni e le immagini le caratteristiche dello scorrere dell'acqua, del frantumarsi e del trasformarsi dei ghiacciai, e rappresenta una fase di transizione allo scendere nelle viscere della terra.
Varcata la prima soglia troviamo i video New Machines e New Ocean Floor, proiettati su due coppie di schermi incrociati ad X, dove si svolgono due scene analoghe in cui protagonista è la figura umana. Le due storie parallele, visibili simultaneamente, sono il pretesto per tentare di esperire visivamente la caduta nel vuoto, la mancanza di sostegno: sensazione psicofisica attribuibile alle distese marine. Le acrobazie compiute dai protagonisti acquisiscono un forte valore di sdoppiamento/raddoppiamento e ambiscono ad una funzione decorativa.
Proseguendo lungo lo spazio espositivo, al buio, si "approda" alla visione di Interiors. Proiettata su di una struttura architettonica in tela snodabile, l'opera si compone di quattro storie umane individuali. La circolarità dell'ambiente e delle sequenze che si avvicendano, intercambiabili tra loro, evoca un'atmosfera avvolgente, ulteriore richiamo a elementi distintivi il mare.
Infine, apice di sensazioni e significazioni, New Ocean Cycle: un'intera stanza circolare, avvolta da schermi che trasmettono acqua; vero inabissamento nelle profondità, nel blu oltremare. Sopra la nostra testa, attraverso un piccolo cerchio di luce, è visibile un sub, unico segno della presenza umana, che chiarifica la profondità marina pensata dall'artista per lo spettatore.
Il viaggio termina con una riemersione: Tools For Warmth and Departure è un'installazione composta da veri e propri giubbotti di salvataggio in lana, fatti a mano, un improvviso ritorno alla realtà, alla limitata natura di uomo e alla luce, ora visibile, seppur in lontananza.
L'esposizione, ben organizzata, rende in effetti l'idea di circolarità, di continuità, dell'itinerare e, pur essendo talvolta necessaria una forte dose di immedesimazione per esperirla appieno, riesce tuttavia a creare e trasmettere la sensazione dell'immersione.
L'opera di Aitken è piuttosto forte, evocativa e capace di toccare tutti i sensi. Certo l'acqua è sempre stato un soggetto molto amato, a volte abusato, da parte dei video-artisti, dunque Aitken talvolta non sembra trovare soluzioni particolarmente nuove ed originali, seppur sempre di notevole fascino.
La qualità indiscutibile dell'esposizione sta proprio nell'essere riusciti a sfruttare lo spazio perché l'opera faciliti un'evasione fisica nello spettatore, indubbiamente resa possibile oltreché dalla qualità delle immagini, dall'uso dei suoni, differenti e connotanti ogni singolo video, capaci di creare un effetto sinestetico tra i due elementi.
Al termine della mostra proprio l'evidente sforzo di coinvolgere, compiuto dall'artista, può apparire un po' forzato, ma non sminuisce la suggestione e il calore emotivo di cui è capace la sua opera.

Doug Aitken a Torino

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