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In viaggio

 

Ad limina mundi: la linea d'ombra su un lembo di Toscana

di Emanuele Pellegrini

Con una felice intuizione il Sismondi battezzò col nome di "Svizzera pesciatina" quella porzione di montagne che si apre a nord di Pescia, la piccola città ove lo storico ginevrino risiedette e lavorò per alcuni anni, regalandole poi il suo archivio. In questo territorio, ormai quasi dimenticato dagli uomini, si nascondono dieci piccoli borghi, o castella come di solito venivano chiamati. Si tratta di comunità ormai quasi disabitate ma dalla storia millenaria, resa ancora eloquente dagli affascinanti nomi che i secoli, dopo infiniti precipitati, ci ha consegnato così: Vellano, Sorana, Aramo, San Quirico, Stiappa, Castelvecchio, Pontito, Pietrabuona, Medicina e Fibbialla. Questi paesi, pazientemente studiati dall'infaticabile Emanuele Repetti - il primo che li abbia catalogati tutti - si distendono in una sorta di ellisse che ha per estremi Pietrabuona a sud e Pontito a nord, toccando un intreccio di tre valli - Valleriana, Val di Torbola e Val di Forfora - cui la Storia ha depositato sopra a sua volta il concettoso incastro dei confini della diocesi di Lucca con quelli della Pesciatina, del comune di Pescia, della provincia di Pistoia e delle competenze della Soprintendenza di Firenze.
Non è poi affare complicato, per il viaggiatore incantato, svelare per verba le ricchezze di tale territorio, geografiche e storiche: le prime di per se stesse eloquenti, con la statale di cemento - sovrapposta ai tratturi su cui si sono mossi i secoli - ombrata da castagni immensi che regalano un silenzio profondo; le seconde meno note, come accade a tutta questa parte di mondo, tanto che sembra opportuno ricordare Coluccio Salutati che nel 1367 scrive gli statuti del comune di Vellano, l'opera di Francesco di Valdambrino come sgocciolata sul territorio, in un dripping le cui trame sono ancora da ricostruire, qualche lacerto di freschi giotteschi (col beneficio della paternità nobilitante), trittici a fondo oro inevitabilmente rubati, madonne in terracotta tardo-quattrocentesche e pittori di buona fama a segnalare che anche il Cinquecento, il Seicento, il Settecento e l'Ottocento - incredibile dictu - sono passati di qua. Attenzione, non per pennelli o scalpelli locali, ma scomodando anche personaggi spagnoli o napoletani. Aggiungere che Lazzaro Papi, gloriato del monumento lucchese, era nato a Pontito, e che Domenico Moreni vide la luce a Castelvecchio, appare superfluo e forse ingiusto, quasi si volesse puntare il dito su coloro che abbandonarono a se stessa la terra natia.
E il Novecento? Sedetevi a tavola: difficile rispondere a questa domanda e ricostruire il quadro esatto di un millennio di storia che sbocca nel secolo breve, ancora più breve in questi dieci castelli, senza una meditazione culinaria che può avvicinare molto alla piena comprensione del tutto; e vada per la carne di cinghiale e selvaggina varia, i funghi porcini e le castagne, alimento primo della zona, e dalla loro farina i caratteristici necci, che si ottengono impastando la farina con acqua e cuocendola poi in piastre di pietra racchiuse nelle foglie del castagno.
Il Novecento, dicevo. È passato di qua con qualche ricordo ai caduti della prima guerra mondiale e poi con le targhe in pietra delle stragi nazifasciste. È passato di qua con le casse della collezione di Lamberto Vitali, custodite e nascoste dal solerte Carlo Magnani, allora direttore della Biblioteca e del Museo Civico di Pescia. Ma è passato di qua, soprattutto, regalandoci un museo che può essere eletto a simbolo della zona intera: il Museo della Carta. Il Museo della Carta è l'epigono e la consacrazione di un alacre attività di cartai e cartiere che ha arricchito e caratterizzato la montagna pesciatina per secoli. Coi Turini prima (del 1481 la loro cartiera), passando per l'esperienza della stamperia Cenni-Orlandi, impiantata al precocissimo anno 1485 e inaugurata con la pubblicazione delle opere di Bernardino da Siena e poi del Savonarola, si sarebbe giunti alle famiglie provenienti dalla riviera ligure, gli Ansaldi ed i Magnani, le quali, soprattutto tra Settecento ed Ottocento, avrebbero accresciuto e migliorato gli "edifizi da carta", perfezionando la preziosa tecnica che porta dalla macerazione degli stracci alla creazione del foglio. L'acqua del fiume Pescia, che attraversa la montagna per arenarsi poi nell'Arno, costituisce l'elemento primo di una così straordinaria pratica artigiana, cui si associano tecniche contadine trasferite a questo mondo preindustriale: ruote di mulino, tini, strizzi, macine per olivi.
Il Museo della Carta, in realtà, vive nel Centro di Documentazione sulla Lavorazione della Carta situato a Pietrabuona, una struttura patrocinata dall'Associazione Cartai, nella quale, attraverso modellini di macchinari riprodotti in scala e mezzi audiovisivi, viene illustrata la fabbricazione manuale della carta, i fogli di diversa grammatura, le filigrane, i timbri. Ma il museo, quello vero, in realtà è un po' l'incarnazione dell'oggi tanto discusso ed agognato museo diffuso: infatti, esso consiste e vive propriamente nelle antiche cartiere, enormi pachidermi nascosti da queste montagne. Attualmente è possibile visitare l'edificio chiamato Le Carte, il gioiello forse più prezioso, ubicato a Pietrabuona, a pochi metri dal Centro di Documentazione. Una cartiera enorme e nobile, in cui Napoleone volle venissero prodotti gli inviti per le sue nozze con Maria arciduchessa d'Austria, di cui si conserva ancora la "forma" ed esempi di fogli con le due auguste effigi. Un momento altissimo di una energia produttiva e creatrice che è evaporata negli anni sessanta-settanta del Novecento, portandosi dietro lo spopolamento dell'intera zona. Il museo, da circa un anno regolarmente aperto le mattine di martedì, giovedì e sabato, può ora riscattarla e riqualificarla, recuperando, attraverso la testimonianza storica, un complesso di tradizioni, splendori ed anche miserie. Artigiane, ci mancherebbe.
Rimangono nei ricordi di queste terre e delle loro cartiere, la figura agitata di Lorenzo Viani, che veniva ad acquistare la carta alla cartiera Magnani, povero e sempre senza soldi, tanto che, per sdebitarsi dei fogli che gli venivano spesso regalati, ideò ed incise il simbolo della medesima cartiera Magnani, con i suoi ingranaggi in movimento bloccati da un segno spesso e violento. Oppure, dopo di lui, De Chirico e Guttuso, ancora ben vivi nella mente di Angiolino Vezzani, maestro cartaio di eccellente bravura, il quale - sigaretta tra le mani nodose, spirito arguto di inossidabile e profonda intelligenza - ben volentieri racconta di questi artisti con cui ebbe a lungo a che fare, delle loro richieste e del suo impegno nel cercare di accontentarli… la qualità della carta, lo spessore, l'inchiostro che scivola, il foglio che deve bere i colori. Angiolino, ora, lavora per regalare alla sua cartiera la nuova funzione di documento, di monumento, il compito forse più impegnativo. Perché, si sa, le linee d'ombra, spesso, sono macchie indelebili.

Immagine:"Forma" degli inviti per le nozze di Napoleone e Maria d'Austria


Istanbul: Santa Sofia

di Claudia Lamberti

La meta scelta per questo numero della nostra rivista non è casuale: dottorandi, specializzandi e professori del Dipartimento di storia delle arti dell'Università di Pisa hanno infatti compiuto nel maggio scorso un breve viaggio di studio nella splendida città protesa sul Corno d'Oro.
Crocevia tra Occidente ed Oriente, Istanbul assomma in sé una grande quantità di suggestioni, immagini, storie attinte dai due mondi, presentandosi al turista ed allo studioso quale uno scrigno ricco di tesori d'arte. Camminando per le sue strade si incontrano palazzi Liberty e moschee cinque e seicentesche, chiese bizantine e vestigia greche o romane, moderni grattacieli e antichi mercati in cui scoprire tutti i colori, i profumi ed i suoni del mondo mediterraneo; i segni del passato convivono, spesso in stridente contrasto, con la realtà presente di metropoli sovraffollata e, in molti quartieri, miserabile e fatiscente.
Il panorama cittadino è caratterizzato da molte cupole, siano esse di chiese, di moschee, o di chiese trasformate in moschee, come è il caso di Santa Sofia, la maestosa architettura giustinianea che abbiamo scelto di trattare qui più approfonditamente.

La chiesa di Santa Sofia (Hagia Sophia) ad Istanbul è stata al centro di numerosissimi studi.
Si può avere un'idea della sua importanza storica e simbolica tramite le parole degli scrittori del VI secolo che assistettero alla costruzione. Nel De aedificiis, Procopio di Cesarea si esprime con il tono dell'antica retorica: "La chiesa, dunque, costituisce uno spettacolo di compiuta bellezza, sconvolgente per chi lo contempla, incredibile per chi ne sente solo parlare. [...] Maestà e armonia di proporzioni l'adornano e non ha nulla di troppo e nulla di troppo poco, poiché è più magnificente degli edifici ordinari e più regolare di quelli che sono smodati ed è straordinariamente inondata di luccicanti raggi di sole. Si direbbe quasi che l'ambiente non sia illuminato dall'esterno, ma che la luminosità scaturisca dall'interno, tale è la ricchezza di luce che si riversa in tutto il santuario".
Il canto di lode di Santa Sofia e di Giustiniano, dopo i restauri della cupola crollata nel terremoto del 558, fu affidato al poeta Paolo Silenziario, autore de La descrizione della grande chiesa. Ulteriori danni sismici compromisero la struttura nel X, XIV e XVI secolo, rendendo necessarie parziali ricostruzioni e aggiunte di contrafforti. Tuttavia, all'interno, il capolavoro degli architetti Antemio di Tralle ed Isidoro di Mileto si mostra ancora oggi uguale all'idea originaria, basata su di un'organizzazione dello spazio frutto della commistione tra pianta basilicale e centrale. In tale spazio Giustiniano, al fianco del patriarca, trasmise la sua concezione politica e sociale in cui il suo potere era subordinato solo a quello di Dio. Non si può non rimanere colpiti, passeggiando nella chiesa, dalla grande cupola con quaranta finestre, che consentono ai raggi solari di far emanare dai mosaici dorati una luce intensa e suggestiva e che evocano la discesa dall'alto dei cieli della Sapienza Divina (Hagia Sophia) e la sua diffusione agli angeli, al patriarca e all'imperatore, raffigurati o realmente presenti nella chiesa. Dalla cupola si originano le forme dello spazio, la luce e i colori, che rendono questo edificio così magnificente da suggerirci di credere alla leggenda che vuole che Giustiniano abbia esclamato di essere riuscito a superare anche il tempio di Salomone. Santa Sofia ha ricoperto un ruolo fondamentale nel suo regno ed è stata una tappa molto significativa nella storia dell'architettura, identificando l'architettura bizantina per eccellenza.
Poiché le decorazioni sono andate incontro alle alterne vicende del "culto delle immagini", oggi non è più possibile ammirare gran parte dei mosaici, distrutti sotto l'impero ottomano. I pochi superstiti conservano peraltro intatta la loro preziosità e la valenza di immagini-icone, apparizioni ieratiche allo spettatore che percorre gli ampi spazi della chiesa: tra essi vanno ricordati almeno la frammentaria Deesis (Cristo benedicente tra la Vergine e il Battista, XII sec.) in una nicchia della tribuna meridionale e quello 'dedicatario' nel vestibolo del nartece (X sec.), che mostra la Vergine Theotokos con ai lati Costantino e Giustiniano che le offrono l'uno il modello della città e l'altro quello della chiesa.

 

Immagine:Istanbul,S.Sofia, veduta esterna

 

 

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