INLAND EMPIRE: il Cinema secondo Lynch
di Francesca Detti
Inland Empire è una regione della California
meridionale, un’area metropolitana situata a est di Los Angeles
e comprensiva delle contee di Riverside e San Bernardino. La caratterizza
un accentuato urban sprawl, ossia un’espansione suburbana
incontrollata e prevalentemente non pianificata. Dunque un impero congestionato,
affollato, inquinato. INLAND EMPIRE, invece, è la sua versione
maiuscola, la sua trasfigurazione, la sua metamorfosi kafkiana. E’ una
striscia di confine, una sottile soglia oltre la quale la comune realtà delle
cose è destinata ad infrangersi per dare spazio a qualcosa di
differente. Un qualcosa che – ciononostante – dalla realtà stessa
prende le mosse, affondando le radici nella parte più torbida
di essa per succhiare, ingorda, nuova linfa vitale.INLAND EMPIRE è l’impero
della mente. E’ l’ultimo
incubo di David Lynch.Paranoico, onirico, criptico. Un’esperienza
visiva che intende trascinare lo spettatore giù per un abisso
negando ad esso ogni appiglio. Si scivola, si precipita, si urla,
ma nulla viene concesso: si è saliti sul vagoncino di una
giostra impazzita che prosegue imperterrita la sua cieca corsa. E
tutto ciò che scorre davanti
agli occhi non può essere capito, memorizzato o analizzato,
ma solo intuito. L’impero della mente svela così il
suo primo e fondamentale paradosso: le immagini non parlano alla
mente, non chiedono di essere registrate o decodificate; esse mirano
direttamente al torace, con l’intento di mozzare il respiro,
di opprimere i polmoni, di chiudere lo stomaco. O forse neppure questo:
magari non c’è alcun proposito nei confronti dello spettatore,
ma solo la volontà di condividere la propria visione allucinata.Eppure
si rende necessaria una precisazione. Lynch è comunemente
definito un visionario, ma è anche – e soprattutto – un
regista. E INLAND EMPIRE è, a tutti gli effetti, un film.
Si potrebbe anche aggiungere: semplicemente un film. E questa
affermazione è rivolta, innanzitutto, nei confronti di quei
detrattori che fondano le proprie critiche su argomentazioni, sì,
di facilissima presa (“non si capisce… non c’è trama…”)
ma – ahinoi – di fragile fondamento. Il fatto che un
film sia stato realizzato senza partire da uno script, ma buttando
giù di
volta in volta le singole scene per poi girarle in modo disorganizzato
senza l’idea – e il conforto – di sapere dove si
stia andando esattamente, è un voler tornare ai primordi del
Cinema, un voler attingere alla sua fonte primigenia. In un panorama
cinematografico bolso e asfittico, in cui le produzioni sembrano
venerare il solo Dio Remake (“Prese il pane e i pesci e li
moltiplicò…” ),
in cui le sceneggiature ripropongono sempre il medesimo schema finendo
col provocare un imperituro senso di déjà vu,
in cui è, primo fra tutti, il potere pubblicitario a decretare
il successo di un film, la volontà di compiere una rottura
e di andare, per una volta, contro tendenza è quello che si
definisce una sana boccata d’aria. Nel Cinema, del resto, si
vuole non tanto raccontare delle storie, ma far vivere quelle stesse
storie allo spettatore. Quando il treno arrivò alla stazione
di La Ciotat, il pubblico non si rallegrò dell’efficienza
del proprio sistema ferroviario, ma si spaventò credendo che
la locomotiva muovesse contro di loro: fu un’emozione, non
un fatto .
E’ forse la più banale delle definizioni, ma il Cinema è la
fabbrica delle emozioni: è un lavoro artigianale, noioso e
tecnico finalizzato ad architettare le più artificiali delle
emozioni, ma confezionate così bene da apparire del tutto
genuine. Considerando la sua intera produzione, Lynch è dunque
un cineasta a tutti gli effetti. E il fatto che la presunta trama
di INLAND EMPIRE prenda le mosse da Hollywood, proprio dal set di
un remake, e ruoti attorno alle vicende della sua attrice protagonista
(Laura Dern) – una
donna in pericolo che si trova a vivere una, cento, mille identità diverse – è la
riprova di quanta precisione, di quanta consapevolezza machiavellica
ci sia nell’operato di Lynch. La critica al sistema Cinema
arriva diretta, ed è forse il messaggio più facilmente
intelligibile di tutta la pellicola. Lynch è un regista che
riflette sul Cinema e su come lo si debba fare; gioca con gli intrecci
e con le suggestioni che solo una dimensione artificiale è in
grado di generare. Verità e finzione si inseguono l’un
l’altra, si
sovrappongono, si confondono fino ad annullare ogni linea di demarcazione.
Il set diventa la realtà, la realtà il set. Ed in questo
turbinio vengono stravolti anche i piani temporali, così che
passato, presente e futuro finiscono con l'intersecarsi ineluttabilmente
l'un con l'altro, in un surreale gioco di scatole cinesi.Dunque,
se INLAND EMPIRE è certamente un film e non pura video
arte, e se non è la mancanza di una comprensibile struttura
narrativa a costituire oggetto di critica, che cosa in realtà non
convince nell'opera di Lynch? Sì, perché a livello
cinematografico qualcosa, in effetti, non sembra funzionare. Ed è qualcosa
che non può passare inosservato. Manca la perdita di coscienza
dello spettatore, quello straordinario abbandono che ci fa dimenticare
lo schienale rigido della sedia, le chiacchiere della fila dietro
o il fastidio di un bracciolo condiviso con un estraneo. Per tutta
la proiezione non si perde la consapevolezza di essere all'interno
di una sala cinematografica e di trovarsi di fronte ad un film di
David Lynch. Le sensazioni – seppur così sapientemente
architettate attraverso inquadrature, montaggio, dialoghi – non
arrivano se non a sprazzi e in maniera discontinua. Quell'intento
di colpire allo stomaco, di opprimere lo spettatore, di stupirlo
ed emozionarlo, esiste, c'è, lo si vede, ma si infrange contro
una barriera invisibile alzata tra schermo e platea. Il film è dentro
ad una campana di vetro: lo vediamo, ne intuiamo le potenzialità e
possiamo solo immaginare, ma manca quell'efficacia, quell'impatto
che aveva caratterizzato Mulholland Dr., precedente pellicola
lynchiana, che senza raccontare alcunché arrivava forte e
diretta, senza alcun compromesso. Perché la magia questa volta
non riesce? E' la sensazione di trovarsi davanti ad un gioco che
si ripete? Forse. E' la pecca di un regista che ha indugiato troppo
nel proprio ego? Forse. Ma forse è ancora
il Cinema a poter dare una risposta, o quanto meno uno spunto di
riflessone: per la prima volta con INLAND EMPIRE, infatti, Lynch
ha rinunciato alla pellicola optando per il mezzo digitale. Un fatto
certamente importante, spia di una rivoluzione in atto nel mondo
della cinematografia che spinge verso quella che potremmo chiamare
la democratizzazione dei mezzi di produzione. Ma simile tradimento
da parte di un autore celebre per le sue capacità di evocare
e suggestionare attraverso le sole immagini ha prodotto inevitabili
ripercussioni. Le scene per quanto inquietanti (prima fra tutte la
sit-com degli umani con testa di coniglio) sono alla fine meno profonde,
meno avvolgenti, meno penetranti e il digitale introduce nella riflessione
metacinematografica di Lynch un elemento di disturbo, perché offre
un linguaggio differente e ancora acerbo per poter tradurre tutto
ciò che il suo Cinema
vorrebbe esprimere. Forma e sostanza non trovano così una
sintesi adeguata .INLAND
EMPIRE è Cinema rinchiuso in una teca di vetro. E’ Cinema
che resta opaco e brilla di una luminosità che possiamo solo
intuire. E’ una torta appetitosa che rimane nel carrello dei
dolci: vorremmo allungare la mano per poter prendere la nostra fetta,
ma siamo troppo distanti.
E così rimaniamo affamati, fermi a contemplare ciò che
ci viene negato. Con l’impressione, in fondo, di subire un’immeritata
ingiustizia.
L'arrivo
del treno alla stazione di La Ciotat, Louis Lumière
(1895). Ma lo stesso Louis non credeva nell’avvenire della
propria invenzione e la utilizzò principalmente per girare
scene d’attualità e documentari. La realtà,
quindi. Il vero. Per la fantasia e l'immaginazione bisognò aspettare
Georges Méliès.
Sintesi
che, altrove, pare essere invece pienamente raggiunta: basti pensare
a Collateral di Micheal Mann, girato per l’80% in
digitale.

La locandina del film
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