Sulle tracce di un ultimo Van Gogh?
di Miriam Fileti Mazza
Quando osservai per la prima volta la tavoletta che poi sarebbe diventata
oggetto di molte ore di studio, presente in una collezione privata
italiana, la prima cosa che mi interessò, tanto da abbandonare
per qualche tempo le mie carte settecentesche, fu quel piccolo microcosmo
fatto di segni e colori così vibrante ed intenso che mi si impose
in tutta la sua essenzialità.
Avevo di fronte un manufatto che sembrava esigere attenzione proprio
per quella sua mancanza di grandezza dimensionale e allo stesso tempo
per la finitezza esaurita che lo rendeva un discorso concluso. Il piccolo
olio realizzato su legno, forse il coperchio di una scatola di sigari
(come suppone l’analisi del supporto), si offriva ad uno studio
inedito per confermare, o meglio sostenere, le intuizioni del proprietario
che lo faceva risalire, valorizzando la memoria storica familiare,
alla mano di Vincent Van Gogh. Avuta questa segnalazione attributiva
così importante, ma di facile mitizzazione, l’atteggiamento
verso la tavoletta cambiò radicalmente. Idealizzarla sarebbe
stata forse la strada più semplice e immediata, ma l’esperienza
e la consuetudine a esercizi metodici, mi hanno invece condotta verso
un percorso più conforme alla tradizione.
Tornata ad affilare le armi della ricercatrice, ugualmente interessata
a rafforzare da un lato le intuizioni del proprietario, ma allo stesso
tempo conscia dell’esigenza di dover tessere una serie di trame
che potessero non emozionalmente ricondurre ad una provenienza così prestigiosa,
iniziai come primo passo dalla rilettura delle bellissime lettere che
l’artista aveva inviate al fratello Theo. Fonti, che seppur molto
studiate, si possono prestare ancora una volta a restituire ulteriori
elementi che senza dubbio sono in grado di arricchire lo straordinario
scenario umano ed artistico nel quale si mosse uno dei più grandi
autori della storia dell’arte moderna. La frequenza con cui l’artista
travasò la cronaca della propria esistenza su quelle pagine,
ed al tempo stesso la meticolosa attenzione nel precisare gli eventi
legati alla procedura quotidiana, rendono l’intreccio informativo
degli scritti di Vincent un repertorio unico. E sarebbe forse sbagliato
e limitante individuare come indizio alla stesura di questo presunto
studio, una particolare frase o lettera; in realtà la percezione
dello stato d’animo dell’artista negli ultimi mesi della
sua vita e l’intravedere la possibilità che ce lo rende
plausibile esecutore di quella scena, matura e prende forma proprio
da una lettura complessiva del suo pensiero.
Questa prima ricognizione documentaria fu contemporaneamente integrata
da un passaggio fondamentale per lo studio della nostra tavoletta:
un esame riflettografico eseguito da un operatore non solo esperto
da un punto di vista tecnico, ma egli stesso storico dell’arte
che ha saputo realizzarlo con sensibile competenza. Il risultato dell’immagine
riflettografica ha restituito quello che esisteva sotto lo strato pittorico,
un disegno preparatorio già autonomo nella sua completezza formale
e compositiva, ma soprattutto esecutiva, di tratto sicuro e rafforzato,
dove il tracciato della cannuccia con cui era stato realizzato, netto
ma allo stesso tempo corposo, è pienamente in sintonia con la
produzione accertata dell’artista nei casi in cui aveva utilizzato
la stessa tecnica disegnativa.
Brevemente ricordiamo come Van Gogh nei primi mesi del suo volontario
ricovero nell’istituto psichiatrico Saint-Paul-de-Mousole a Saint-Rémy,
non avendo il permesso di uscire, fece diventare il giardino di quell’antico
monastero e la propria stanza l’universo di cui aveva bisogno
per esprimersi e lavorare. Il ritorno al disegno, che in questo periodo
si manifestò con grande decisione, fu dunque dettato non solo
dalla sua ricerca personale, ma soprattutto dalla mancanza di tele
che il fratello per varie contingenze non poteva procurargli. A queste
giornate seguirono miglioramenti che lo fecero, come è noto,
riavvicinare ad un’intensa attività pittorica, ma un
nuovo ed esasperante alternarsi di ricadute lo colpirono anche quando,
dopo aver lasciato definitivamente l’Istituto, volle sistemarsi
a Auvers-sur-Oise, la sua ultima meta. Nei settanta giorni che visse
a Auvers l’intensità della malattia si alternò con
quella della sua produzione. Il disegno tornò nuovamente ad
interessarlo come troviamo scritto in numerosi brani dell’epistolario,
con un desiderio forte di usare il lapis, la cannuccia, il gessetto “perché più veloci,
più carnali, dove il filtro della pennellata del pigmento colorato,
della sua materia corposa” non doveva necessariamente interporsi
tra la mano e il supporto. In queste settimane disegnerà anche
sui rovesci dei fogli già impressionati, realizzerà studi
di piccole dimensioni, riguarderà al passato, agli autori amati
come Millet, Delacroix, Rembrandt, si applicherà all’esercizio
della copia nella volontà di fermare la memoria visiva di quello
che lo aveva più intensamente segnato, quasi in un timore consapevole
della propria instabilità percettiva.
È in questo contesto emotivo che potrebbe collocarsi l’esecuzione
della nostra tavoletta, che offre alcune attinenze iconografiche molto interessanti
con pezzi conosciuti. Si osservi ad esempio l’albero ermetico, essenziale,
simile a molti, ma riproducente quello del Garden of Saint-Paul Hospital,
o le case con lo stesso segno di sintesi del tetto e della finestra, riconducibili
tra i molti, all’acquerello di Amsterdam dei Vecchi cascinali.
La proporzione distribuita nella figura intera di spalle, la posizione dell’incedere
dei piedi, il taglio della vita segnata dall’abito stretto da un prevedibile
paragrembo, la massa che esso assume identica in tutte le raffigurazioni dell’autore,
soprattutto in questo periodo, come nella Strada a Auvers, propongono
un filo continuo tra queste opere ed il nostro olio. L’atteggiamento
delle figure sulla destra, con un ripensamento nella tipologia della figura
più bassa centrale (con busto di adulto e, come vedremo, braccia e volto
da bambino), presenta un interessante traslato tematico che potrebbe far pensare
a un progetto di scena laica con riferimento religioso. Non solo quindi una
relazione, forse più scontata, con la Resurrezione di Lazzaro,
evocata per una vicinanza cronologica, per la figura che sorge dal terreno,
ma soprattutto il confronto con I primi passi del gennaio 1890, dove
la Sacra Famiglia laicizzata ripresa dalla composizione di Millet (che a sua
volta aveva guardato a La donna delle frittelle di Rembrandt) quasi
naturalmente, riconduce nelle due figure di destra a quelle della nostra operetta.
L’insistenza con cui si ricorre alla scena della “famiglia” è incoraggiata
soprattutto dalla nitida lettura del disegno preparatorio svelato dall’indagine
riflettografica prima ricordata, dove proprio per i tratti del volto della
figura che sembra emergere dalla terra si può affermare che si tratta
senza dubbio di fattezze marcatamente infantili, a loro volta coerenti alla
definizione delle braccia anch’esse di bambino che portano sempre più lontano
dall’ipotesi di un Lazzaro.
Gli studi che Vincent Van Gogh stava eseguendo nel maggio del 1890
e di cui puntualmente informava il fratello, avrebbero potuto con i Casolari
con tetti di paglia, il Vecchio vigneto con contadina e Fattoria
in un campo, riferirsi anche al progetto espresso sulla tavoletta
in esame, dove ancora una volta lo scorcio della casa e la tipologia
della figura-contadina, coincidono pienamente con gli elementi formali
di questi tre preziosi fogli.
Brevi annotazioni dunque su un dipinto che da quando giunse in collezione
privata nei primi decenni del secolo passato, suscitò spesso
curiosità e inquietudine, nonché la volontà di
capire meglio e studiare possibili nessi con l’artista che sempre
era riuscito ad evocare in coloro i quali lo avevano osservato. Quando
gli occhi di Federico Zeri, pochi giorni prima della sua scomparsa,
si posarono su questa tavoletta, fu immediata la sua inclinazione per
una provenienza preziosa, tanto da sollecitarne uno studio approfondito.
Alcuni anni ci dividono da quell’autorevole invito, che, comunque
raccolto, ha infine condotto ad una lettura non convenzionale, all’impostazione
di uno stimolante percorso di ricerca che mi ha trovato a condividere
curiosità e attesa per un’affascinante e nuova possibilità attributiva.


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