Il fascino dell’antico nel XIX secolo: i  neopompeiani italiani e l’inglese Alma-Tadema in mostra a Napoli

Alma-Tadema e la nostalgia dell’antico
Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 19 ottobre 2007- 31 marzo 2008
a cura di Stefano De Caro, Eugenia Querci, Carlo Sisi
catalogo Electa

di Ilaria Sgarbozza

È fuori discussione che, alla metà del XVIII secolo, le scoperte archeologiche di Pompei e dell’area vesuviana abbiano orientato una parte della comunità artistica verso un neoclassicismo di stampo antiquario. I sensazionali ritrovamenti, riprodotti in preziosi volumi illustrati e, in qualche caso, precocemente musealizzati, esercitarono un’influenza decisiva sul gusto contemporaneo, disponendo i grand tourists e i cultori del bello alla scoperta del Sud dell’Italia.
Per Pompei la stagione della gloria non si esaurì però con il XVIII secolo. Gli scavi – che subirono un ridimensionamento in epoca di Restaurazione – proseguirono di buona lena nella seconda metà dell’Ottocento, diretti da quel pioniere della conservazione che fu l’archeologo Giuseppe Fiorelli. Negli anni immediatamente successivi all’Unità, in un ritrovato clima di pace, scultori e pittori, in qualche caso impegnati in ricerche en plein air, tornarono a visitare quei luoghi, traendone ispirazione e stimoli alla ricerca. Testimoni e talvolta protagonisti dei rivolgimenti politici e sociali, lontani dagli ideali etici ed estetici del neoclassicismo, i “neopompeiani” interpretarono il mondo antico in chiave quotidiana e prosaica, spogliandolo di quei caratteri di sacralità ed esemplarità esaltati dalla cultura settecentesca. Ne restituirono dunque un’immagine del tutto originale, tanto nei contenuti quanto nella forma, nella quale finirono coerentemente per specchiarsi gli ideali e le paure della società borghese.
Caratterizzata da una scarsa fortuna storiografica, vittima di una certa demonizzazione nel corso del Novecento, la produzione artistica neopompeiana gode in questi giorni (fino al marzo del 2008) di una prestigiosa ribalta. Eugenia Querci, Stefano De Caro e Carlo Sisi hanno infatti riunito nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli un numero significativo di dipinti e sculture, in larga parte di scuola italiana. Lungo un itinerario espositivo che evoca, nelle geometrie e nei colori, l’assetto della Pompei antica, scorrono immagini della città ottocentesca, protagoniste le case e le botteghe riemerse “intatte” dalla secolare oscurità, protagonisti i turisti ozianti o sorpresi a decodificare le tracce del passato e i popolani incuriositi dalla licenziosità dei cicli pittorici sopravvissuti. Nella sequenza di tele riprende inoltre corpo la vita quotidiana dei patrizi e dei plebei romani, rappresentati attraverso il filtro delle categorie interpretative ed esistenziali fin de siècle, ovvero non già come modelli di virtù quanto piuttosto come uomini retti e viziosi al tempo stesso, combattuti tra l’aspirazione ad una tranquilla vita domestica e l’inclinazione all’eccesso e al proibito. Edificanti dunque gli spaccati domestici di Francesco Sagliano, Raffaello Sorbi o Luigi Bazzani, destinati ad una clientela internazionale di ceto alto borghese, più inquietanti e complesse le scene gladiatorie di Francesco Netti o quelle bacchiche di Domenico Morelli e Giovanni Muzzioli. Anche nella rievocazione di personaggi celebri prevalgono le tinte fosche e i toni cupi.
Le monumentali vestigia di Pompei, di Ercolano e di tutta l’area vesuviana non ispirarono comunque i soli artisti italiani. Il genere neopompeiano si affermò in effetti in tutta Europa, e in particolare in Francia e in Inghilterra, favorito dal successo della pittura neogreca di Paul Delaroche e di Jean-Léon Gérôme. Con l’intenzione di collocare la produzione artistica nazionale in un più ampio contesto, i curatori della mostra hanno dunque scelto di stabilire un confronto con le opere del principale e più riconosciuto cultore del genere: l’olandese, naturalizzato inglese, Lawrence Alma-Tadema (1836-1912).
I quattordici “quadri-museo” esposti - molti dei quali provenienti dalla collezione Pérez Simon (Città del Messico) – meritano da soli il biglietto d’ingresso. Rappresentano infatti lo straordinario omaggio al mondo classico di uno degli artisti più colti e raffinati del XIX secolo, tra i più accesi propugnatori dell’art pour l’art. Essi raccontano di una vita spesa a studiare, riprodurre e collezionare antichità, con il fine di ricomporre l’eclettica varietà di un mondo scomparso. Sculture, frammenti architettonici, suppellettili, monili, oggetti d’uso – assemblati secondo libere associazioni e manipolati alla “piranesiana” – tolgono quasi la scena alle presenze umane, per lo più donne di assoluta e intangibile bellezza impegnate in attività contemplative o nel culto delle divinità pagane. Anziché fare da sfondo ai ritratti di principi o alle gesta di eroi, i reperti archeologici risultano dunque calati in una dimensione quotidiana, interpretata tuttavia in chiave estetizzante e perciò sospesa tra mito e realtà. Paradigmatica la tela con La Galleria di Statue (1874) che, nel proiettare lo spettatore in una galleria antiquaria di età imperiale (mentre è in corso una contrattazione), lo conquista con l’abbondanza enciclopedica delle citazioni, la restituzione esatta dei dettagli di costume e una tecnica pittorica raffinatissima.
Quattro volte in Italia (nel 1863, 1875, 1878 e 1883), Alma-Tadema visitò Pompei ripetutamente, disegnando e scattando fotografie degli oggetti superstiti. Con la tecnica della galvanoplastica riprodusse fregi e sculture, mentre non esitò ad acquistare copie moderne di originali antichi. Molti dei reperti citati, rievocati, rielaborati nei suoi dipinti sono oggi conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Posti a confronto con le opere che hanno ispirato, giustificano la scelta della sede espositiva, esaltando il legame esistente, sin dal Quattrocento, tra luoghi della conservazione e produzione contemporanea.

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Lawrence Alma-Tadema, La galleria di statue (The Sculpture Gallery), 1874, olio su tela, cm 219,7 x 171,5, Hanover, Dartmouth, Hood Museum of Art

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Lawrence Alma-Tadema, Un passo di Omero (A Reading from Homer), 1885, olio su tela, cm 91,4 x 183,8, Elkins Collection

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) Luigi Bazzani, Interno pompeiano, 1882, olio su pannello, cm 73 x 55,9, New York, Dahesh Museum

 

La collezione di Roberto Longhi, dal Duecento a Caravaggio a Morandi

di Stefano de Bosio

Ospitata nelle moderne sale della Fondazione Ferrero di Alba, La collezione di Roberto Longhi, dal Duecento a Caravaggio a Morandi (14 ottobre 2007-10 febbraio 2008, ingresso gratuito) presenta una selezione di settantuno dipinti provenienti dalla raccolta privata del critico, abitualmente allestita nelle sale della villa Il Tasso, residenza fiorentina di Longhi e dal 1971 sede dell’omonima Fondazione. Non è questa, per la verità, la prima volta di una tournée di parte della collezione, composta da circa duecentocinquanta dipinti, cui si aggiungono altrettanti disegni e una ventina di sculture: nel 1998, una nutrita scelta di opere è stata presentata alla Fundación La Caixa di Madrid e subito dopo ad Oviedo (Pasìon por la Pintura. La coleccìon Longhi), ma la mostra albese – benchè non legata ad uno specifico anniversario longhiano –  si carica di un significato particolare, vista la nascita di Longhi ad Alba nel 1890.
Il sottile e complesso rapporto che lega di norma il collezionista avvertito alla sua collezione si arricchisce nel caso di Roberto Longhi, in virtù d’una non comune statura intellettuale, del complesso specchiarsi nelle opere della  “piccola raccolta” (l’espressione è del Longhi stesso)  della sua folgorante e bruciante attività di critico e storico dell’arte. Suddivise in mostra per ambiti cronologici, le opere scelte testimoniano lucidamente diversi dei più significativi ambiti di interesse di Longhi, rappresentando al contempo una silloge delle sue preferenze, una personale testimonianza di “gusto”. Spicca in apertura il Trecento bolognese, con opere di Vitale da Bologna e Simone dei Crocifissi, cui si affiancano testimonianze di area riminese (Pietro da Rimini, Madonna col bambino e santi), toscana e veneta. Seguono il Quattrocento padano e gli “eccentrici” del Cinquecento, quest’ultimo con opere di Lotto, Aspertini e Dosso (Giovane con canestro di fiori, parte di uno smembrato tondo da soffitto). Il nucleo più cospicuo di opere esposte appartiene al Seicento caravaggesco, con il Ragazzo morso dal ramarro di Caravaggio ed opere di Borgianni, Saraceni, Battistello, Preti, Stomer e van Baburen, tra i principali seguaci italiani ed europei del Merisi, che, come piaceva sottolineare a Longhi, «sono quasi tutti presenti nella mia collezione». A questo nucleo, cui si accosta in mostra una tela del Lanfranco più caravaggesco (Davide trascina la testa di Golia) e opere di Dughet, Monsù Bernardo e Baciccio, si aggiunge la presenza di una Madonna  col Bambino e san Giovannino del Reni tardo e un Paesaggio su rame di Claude Lorrain, raro esempio di questa tecnica presso il maestro francese. Seguono il Seicento lombardo, con i ricercati bozzetti del Cerano (Matrimonio mistico di S. Caterina), di Giulio Cesare Procaccini e del Morazzone, un affascinante ritratto di Carlo Ceresa e le puntate nel Seicento genovese con un’intensa Testa di giovane ad olio su carta di Bernardo Strozzi e il Sansone e Dalida di Gioacchino Assereto. Il Settecento di fra’ Galgario (Ritratto di giovane pittore con berretto rosso), Ceruti, Traversi – tra le grandi riscoperte di Longhi – e Pietro Longhi si trova accanto alle aperture europee  rappresentate da un elegante pannello con Cineserie di Watteau e un ritratto di Zoffany. L’ultima sala è dedicata al Novecento italiano, stillato in mostra nei nomi di de Pisis, Carrà e Morandi, amici personali di Longhi.
Nel suo saggio introduttivo al catalogo, Mina Gregori, curatrice della mostra assieme a Giovanni Romano, ripercorre gli snodi fondamentali della formazione della raccolta, dai primi acquisti romani nel 1916 di un Longhi ventiseienne (la Cattura di Cristo di Dirck van Baburen e le cinque tele di Apostoli del Maestro del Giudizio di Salomone) agli ingressi degli anni avanzati, tra cui nel 1968 la Madonna con Bambino e sant’Anna attribuita al casalese Niccolò Musso e oggi discussa nell’ambito di Giovanni Antonio Molineri. Una raccolta, quella di Longhi, che almeno inizialmente cresce facendo i conti con la scarsa disponibilità economica del proprietario, rivolgendosi, dopo una prima attenzione per la pittura piemontese impressionista di tardo-Ottocento (in particolare Enrico Reycend), in direzione della pittura del Seicento caravaggesco, ancora priva all’epoca di una vera considerazione critica (ed economica). Questo interesse nella rivalutazione degli interpreti del caravaggismo e per la messa a fuoco delle aree più problematiche di questo fenomeno di indiscussa portata europea sarà, come ben noto, un ambito di ricerca frequentato da Longhi lungo tutta la sua carriera, oggetto di contributi divenuti ormai classici nella storia della critica d’arte del Novecento.
Lo stretto legame tra la collezione privata e l’attività critica longhiana si deduce peraltro da diversi passi degli scritti (si pensi ad esempio ai numerosi riferimenti ai caravaggisti della propria raccolta in Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia del 1943) e trova più d’una formulazione esplicita da parte di Longhi. Tra queste ultime spicca per esemplarità propositiva la dichiarazione riportata da Antonio Boschetto nell’introduzione al catalogo della collezione, edito subito dopo la morte del proprietario (La collezione di Roberto Longhi, Firenze 1971), in cui Longhi ricorda come, a partire dagli anni Trenta, sia stato suo proposito far sì che «la riscoperta del Trecento padano dalla Lombardia all’Emilia fosse illustrato non soltanto in effigie nei miei scritti, ma anche in una serie di originali nella mia collezione», facendo così della raccolta una «collezione ‘di studio’».
Fin dai primi acquisti, l’opera d’arte che entra nella raccolta privata si configura infatti non solo come conferma di verità critiche già messe a fuoco dal Longhi storico dell’arte ma anche come pungolo per ulteriori approfondimenti. Uno stimolo alla ricerca che coinvolgerà anche gli ospiti e gli allievi che avevano accesso alle casa longhiana, come ricorda Mina Gregori nel suo saggio a proposito della grande tela del napoletano Maestro dell’Annuncio ai Pastori, pittore poi studiato da Ferdinando Bologna, o l’ingresso nella raccolta nel 1957 del Giudizio d’amore di Lambert Sustris (opere non esposte in mostra), che ebbe per gli studi italiani un ruolo non trascurabile nel suscitare un interesse per questa particolare fase del primo manierismo veneziano. O ancora, piace pensare alla posizione di riguardo, alle spalle della scrivania, che nello studio privato di Longhi aveva la Madonna col Bambino in trono  e santi (fig. 1), opera di assai difficile inquadramento critico: una tavola, presente ad Alba, di un realismo ingenuo, verosimile opera di scuola toscana di primissimo Trecento,  il cui il fondo è singolarmente privo di preparazione. Con la sua ben visibile presenza nello studio di Longhi, quest’opera sembrava quasi voler sollecitare in ogni interlocutore un giudizio in merito alla sua autenticità.
Il quotidiano lavoro longhiano esercitato in presenza e sul corpo dell’opera d’arte ed il carattere della sua collezione continuamente aperto alla ricerca è evocato in catalogo da Bruno Toscano, che mette a fuoco nella raccolta privata di Longhi quella complessa commistione tra “conoscenza” e “sentimenti”. È in tal modo che i pezzi della collezione, «testimoni di casa della vita del suo intelletto» (Toscano), riflettono anche le “passioni” del critico tra le quali è d’obbligo fare nuovamente il nome di Caravaggio, presente ad Alba con il Ragazzo morso da un ramarro, sulla cui autografia la critica sembra essersi ormai accordata.
Sempre in catalogo, mentre Andreina Griseri evoca i ricordi di un viaggio in Spagna del 1954 con Longhi, evento ricco di episodi capaci di restituire con vivacità ed immediatezza, quasi con i ritmi dell’exemplum, i modi ed il temperamento della persona di Longhi e della moglie Anna Banti, Maria Cristina Bandera mette a fuoco il fecondo rapporto del critico con gli “amici pittori” Carrà, De Pisis e Morandi, particolarmente intenso con quest’ultimo, di cui in mostra figura anche la Natura morta col drappo giallo del 1924 (fig. 2), così denominata proprio da Longhi, cui il pittore fece dono della tela.
Dalle schede di catalogo, affidate a riconosciuti specialisti, si può valutare la fecondità delle ipotesi longhiane ed al contempo i successivi assestamenti, in più di un caso consentiti dalle precoci intuizioni del critico. Se nel Trecento bolognese la cronologia d’insieme proposta da Longhi è stata rivista su diversi fronti, ancora assai valida è la sua ricostruzione del significato storico e culturale di tale contesto, del quale egli fu negli anni Trenta, in un’epoca in cui queste terre artistiche erano unanimemente depresse e snobbate, dissodatore solitario e al quale un implicito omaggio si conserva anche nel nome di un anonimo come lo “Pseudo-Jacopino”, eco di quel Jacopino di Francesco che Longhi sapeva attivo nel terzo quarto del Trecento.
Tra gli argomenti di stretta attualità critica figura di certo la vicenda del cosiddetto “maestro del Giudizio di Salomone”, «il più spinoso problema del secondo decennio del Seicento» (Gregori): la mostra di Alba, nella sezione dedicata al Seicento caravaggesco, espone, della serie di cinque Apostoli, il San Tommaso e il San Bartolomeo (fig. 3). La scelta di riconoscere in questa personalità l’attività giovanile di Jusepe di Ribera a Roma, una soluzione intravista ma non percorsa dal Longhi, che non disponeva tra l’altro delle notizie poi emerse sul soggiorno romano del Ribera, incontra ormai un largo seppur non esclusivo consenso, progressivamente formatosi in seguito a recenti contributi critici, tra i quali spiccano quelli di Gianni Papi.
Vista l’eccezionale caratura intellettuale del proprietario, la collezione Longhi suscita nel visitatore curiosità che a volte solo in parte gli studi fin qui condotti sono in grado di soddisfare. Sarebbe d’interesse poter mettere meglio a fuoco le vicende di restauro legate alla permanenza delle opere nella raccolta Longhi, disponendo al momento solo delle scarne indicazioni in calce alle schede delle opere scelte per il volume dedicato alla raccolta nel 1980 (La Fondazione Roberto Longhi a Firenze) e soprattutto delle indicazioni fornite nell’introduzione al catalogo completo della collezione curato dal Boschetto, dove si legge di restauri eseguiti in vista della campagna fotografica per il volume del 1971: una scelta in cui sembra al contempo adombrarsi un precedente rifiuto di Longhi di intervenire sulle opere della sua raccolta. Altro tema di riflessione potrebbe riguardare le scelte di allestimento e presentazione, visto il figurare nella raccolta di opere presentate prive di cornice ed altre sottovetro e montate entro invadenti passepartout di raso rosso. Tali disparità, certo legate alla facies al momento dell’acquisizione, coinvolgono in una qualche misura anche le personali modalità di fruizione di Longhi dell’opera d’arte.
Per questa presentazione piemontese, i sobri spazi della Fondazione Ferrero accolgono con discrezione le opere, sebbene si possa avvertire in alcuni casi un’eccessiva compressione nell’allestimento: una condizione che per le grandi tele caravaggesche e del Settecento italiano non consente a volte una soddisfacente visione d’insieme. Forse evitabile era poi l’allentarsi della progressione cronologica nella successione delle sezioni, con l’ambiente dedicato al Seicento caravaggista che precede di necessità, vistane la collocazione, la visita alla sala degli ‘eccentrici’ cinquecenteschi. Nelle sale, alcuni pannelli riportano significative citazioni tratte da scritti longhiani legati alle opere: un modo efficace per evocare lo stretto intreccio in Longhi di critica e collezionismo, nonchè per portare all’attenzione di ogni visitatore le indiscutibili qualità letterarie della preziosa, rifinita prosa di Roberto Longhi.

 

La collezione di Roberto Longhi, dal Duecento a Caravaggio a Morandi
a cura di Mina Gregori e Giovanni Romano
Alba, Fondazione Ferrero, 14 ottobre 2006 – 10 febbraio 2007
Catalogo L’Artistica editrice di Savigliano (Cuneo), 225 pp., 30 euro.

 

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Pittore toscano di primo Trecento, Madonna col Bambino in trono e i santi Giovanni Gualberto, Giovanni Battista, Zanobi (?) e Francesco, tempera su tavola, Firenze, Coll. Longhi

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Giorgio Morandi, Natura morta col drappo giallo, 1924, olio su tela, Firenze, Coll. Longhi”, 1929

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Maestro del Giudizio di Salomone (Jusepe de Ribera?), San Bartolomeo, 1613-16 c., olio su tela, Firenze, Coll. Longhi


Il coraggio dello sguardo. Riflessioni sulla mostra Nessuna paura – Arte italiana dopo il Duemila.

di Elena Marcheschi

Un richiamo seducente per una mostra il cui titolo sembra sussurrare nell’orecchio dello spettatore: “Entra e vedrai, non avrai…NESSUNA PAURA”. Un sentimento ambiguo che, pur generando una spinta repulsiva, cela spesso attrattiva sugli individui, innescando una curiosità morbosa per tutto ciò che è considerato limite, ignoto, altro. Sono diverse le ragioni che motivano questo titolo e che sono riconducibili a svariati aspetti che interessano la pratica artistica, toccano i meccanismi spettatoriali, propongono considerazioni sul panorama dell’arte contemporanea.
La mostra, curata da Marco Bazzini e aperta al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato dal 28 ottobre fino al 7 gennaio, osa con freschezza scevra da timore la carta dei giovani artisti italiani – Emanuele Becheri, Luca Bertolo, Rossella Biscotti, Alice Cattaneo, Masbedo, Andrea Mastrovito, Domingo Milella, Paolo Piscitelli – raccolti sotto l’emblematico sottotitolo “Arte Italiana dopo il Duemila”. Guardando a ritroso, se da una parte ci sentiamo ancora schiacciati contro la parete del nuovo millennio, dall’altra basta frugare velocemente nella memoria per vedere affiorare tragedie che hanno segnato svolte epocali a livello mondiale: il crollo delle Twin Towers, lo Tsunami, nuove guerre, disastri ambientali, crolli economici. Ce n’è abbastanza per sentirsi se non impauriti, quantomeno angosciati dal passato, insicuri nel presente e minati nel futuro.
Pur rimanendo distanti da collegamenti diretti, da retoriche del terrore e da estetiche del dolore, la  mostra presenta opere che pongono spunti di riflessione sul crinale delle microfratture quotidiane, nella scivolosità delle banali incertezze, in quelle zone ambigue del reale che Jentsch e Freud hanno descritto come domini del perturbante. Opere formalmente diverse – fotografia, pittura, collage, video, videoinstallazioni, sculture – che non si interrogano direttamente sul tema della paura, ma lo lambiscono attraverso contestualizzazioni, tecniche e rappresentazioni che offrono spunti di riflessione creando immaginari che strisciano negli angoli bui di alcuni luoghi (fisici e mentali) del presente. Lavori che talvolta si offrono come un invito allo spettatore a superare i propri limiti, a non avere paura di guardare le cose in modo diverso, spostando punto di vista e giudizio.
L’impatto all’ingresso della mostra è fortissimo: due piccole casette di legno in stile abitazione prefabbricata americana hanno rispettivamente sul tetto le insegne – No bad dreams e No Paranoia, i titoli dati alle installazioni dal duo Masbedo (Niccolò Massazza e Iacopo Bedogni), impegnati da anni in una ricerca che coniuga la forma videoartistica, il linguaggio cinematografico e teatrale nella rappresentazione delle pieghe più buie ed estreme della coscienza. Ambienti domestici che dall’esterno appaiono rassicuranti, lussuose casette per le bambole dove niente può fare male. Eppure, affacciandosi all’interno, la scena si ribalta: in No Bad Dreams un vestito da sposa appeso ad un filo viene martoriato da colpi di pistola che lo scuotono violentemente fino a farlo cadere. La drammaticità del corpo che non esiste e che viene comunque colpito a morte evoca scene di ordinaria violenza consumata tra le pareti domestiche, in ambienti familiari apparentemente perfetti dove si annidano odi e rancori che esplodono in atti inconsulti di sangue. Il corpo che non sanguina perché non c’è riporta all’idea della morte dell’altro come fatto premeditato e ci mostra la violenza omicida come progetto. E lo spettatore che guarda prova paura per avere assistito a un delitto non ancora consumato, testimone di un’idea di morte che non può controllare e che però lo rende responsabile perché ne è messo a conoscenza. In No Paranoia l’impianto è il medesimo, ma la scena che viene ripetuta in loop (come nel precedente) è quella che ci mostra un uomo e una donna in caduta libera all’interno di due tunnel dove scorre dell’acqua. I due non si raggiungono, non riescono ad aggrapparsi da nessuna parte, impossibile l’approdo di salvezza. Qui la paura è meno feroce seppur decisamente più atavica: la dimensione del perdersi e della perdita, di noi stessi e dell’altro.
Nella sala successiva i lavori degli artisti vengono messi in dialogo produttivo componendo un ventaglio di pratiche artistiche e toccando tasti emozionali e tematiche diverse, talvolta evidenti, altre volte più sottilmente insidiose. I fogli colorati in monocromo di Luca Bertolo, impegnato in una ricerca pittorica che oscilla tra il concettuale e la rappresentazione legata a una dimensione onirica a scapito dell’osservazione del reale, visti a distanza creano apparentemente un mosaico giocoso e caleidoscopico, producendo nel loro insieme un forte punto di luce vitale, ma, una volta osservati da vicino, mostrano in rilievo una scritta tanto piccola quanto inquietante: terror, che è anche il titolo dell’opera. La contraddizione innescata tra la carta colorata e la parola si fa simbolica delle possibilità di incompatibilità e scontro dei sistemi di comunicazione. Ciò che viene offerto allo sguardo in termini di solarità di rappresentazione va in frizione con il concetto che la sottintende, come ad ammonire lo spettatore, invitandolo ad una riflessione che diventi più profonda della percezione immediata.
Struggente nella sua semplicità No one leaves/No one lives di Andrea Mastrovito, un’opera in acrilico e collage su carta che mostra una donna con tre bambini in cammino accanto ai binari di un treno. Nessuno se ne va, nessuno vive e rivediamo immagini alle quali siamo fin troppo abituati e che fanno parte del corredo mass-mediatico quotidiano: esilio, fuga, emigrazione, piaghe vecchie e nuove alle quali la civiltà del nuovo millennio sembra ormai assuefatta. Mastrovito propone una narrazione statica, facendo ricostruire mentalmente allo spettatore la storia di questi personaggi colti in cammino e di spalle, mentre comunicano una disperazione di insieme all’insegna dello scardinamento dai luoghi familiari, mostrando il dolore muto del disorientamento e della perdita. E altrettanto disorientanti per lo spettatore, seppur in modo meno diretto, sono gli oggetti scultorei installati: Paolo Piscitelli, attratto dalle tematiche dell’incontrollabile e del marginale, dispone nello spazio Noccioli che, come pacchi o semi giganti venuti da chissà dove, sembrano pronti a fecondare l’ambiente con il loro carico di ignoto dalla gigante dimensione transgenica, celando il terrore per potenziali forme vitali destinate a sfuggire al controllo umano; Alice Cattaneo con Untitled propone una scultura fragile nell’aspetto quanto violenta e costrittiva dal punto di vista concettuale, creando una struttura fatta di fascette autobloccanti in plastica, legno e nastro adesivo che sembrano una versione soft di manette e sistemi di tortura che richiamano gesti di controllo e coercizione. Nella medesima stanza ancora uno sguardo diverso sulla paura grazie alle foto di Domingo Milella e Rossella Biscotti: con Bari lo sguardo del primo si sofferma sulle silhouettes geometriche dei palazzi accecate dalla luce, mostrando una città modulare, quasi irreale (altri nella mostra i ritratti di città, da Ankara a Gela, che mostrano luoghi marginali dove si consuma la lotta tra natura e civilizzazione); Biscotti con Senza titolo (Cities continous lines) e Congo – Congo, Bruxelles, Bruxelles si sofferma sull’andamento lineare di edifici carichi di storia, apparentemente vuoti, abitati in un passato che ha lasciato memoria.
La stanza successiva è interamente dedicata al lavoro di Biscotti dal titolo Il sole splende a Kiev, composto da un video, due diaproiezioni e un poster che sono il risultato di un lavoro di indagine e ricerca sul disastro della centrale nucleare di Chernobyl, attraverso la raccolta di varie testimonianze che indagano la relazione tra la memoria personale e collettiva e la ricostruzione del ricordo, l’amnesia e la censura come meccanismi escogitati per cambiare i fatti della storia. L’artista si concentra sulla paura scatenata dalla contraffazione della verità come mezzo di coercizione e lo fa in modo sommesso, quasi silenzioso, come gli spot luminosi che compaiono sulle pellicole girate e sulle diapositive scattate sui luoghi che non sono altro che l’evidenza fisica della presenza delle radiazioni.
Con Eine symphonie des Grauens, Mastrovito estende l’opera pittorica in uno spazio tridimensionale, tramite un disegno a parete composto su fogli di carta bianca a quadretti assemblati, sui quali viene proiettata una luce accecante che spinge lo spettatore a sciogliere il dilemma della rappresentazione sospesa tra realtà e fantastico, proponendo uno spazio bucolico animato da esseri umani e forme anfibie che hanno del meraviglioso, giocando sul confine tra la paura dell’ignoto e l’alterazione del reale. L’ambiguità ironica del circostante viene indagata in modo ludico anche da Cattaneo in Variable dimension, 1’ 41” e Passaggi, video nei quali l’autrice si avvale non solo dell’effetto burlesco dell’illusione ottica della falsa profondità di campo, ma pone l’attenzione sui banali gesti del quotidiano da una prospettiva nuova, invitando lo spettatore a superare con coraggio la soglia della visione canonica in favore di uno sguardo più libero e fanciullesco.
E la natura, questa madre, questa casa pur sempre sconosciuta e incontrollabile è oggetto dei lavori Senza Titolo (Shining) di Becheri e Some prefer nettles # 2 di Piscitelli: nella prima opera fogli giganti di carta copiativa sono attraversati da scie lucide create dal passaggio di chiocciole che hanno “decorato” i fogli. L’artista si sottrae al meccanismo del disegno rappresentativo, negando l’autorevolezza della vista, innescando processi auto-generanti che hanno una componente incerta, incontrollabile quanto disorientante. Nell’animazione grafica in 3D di Piscitelli ritroviamo una vera e propria celebrazione dell’ortica, pianta infestante che nasce e cresce spontaneamente, simbolo del marginale che avanza, della sopravvivenza come impulso di libertà incontrollabile fuori dalle costrizioni, dalle regole, priva di timore. Interessante e sempre collegata alla simbologia delle ortiche è l’installazione acustica di Piscitelli intitolata One year’s seed, seven years need in cui ascoltiamo un testo realizzato grazie all’elaborazione di alcuni blog americani che suggeriscono come combattere le piante infestanti, mentre il tono della voce dello speaker è roboante e iperbolico, esattamente come il linguaggio fiero e combattivo statunitense, legato ai contesti del business e della guerra.
Il terrore, la follia data dalla perdita di controllo di una società che sembra non avere più paura di niente eppure ossessionata da se stessa e soverchiata dalla nevrosi, è riscontrabile nell’installazione monumentale in sei proiezioni intitolata Ten Insects to Feed dei Masbedo, dove dieci persone lottano nell’acqua cercando di sopraffarsi, come i dieci insetti che aggrediscono un cadavere dopo la morte spartendoselo. Una rappresentazione dall’impatto acustico violento per un immaginario che seppur realista sembra provenire direttamente dai meandri oscuri dell’inconscio.
Ancora altre le opere da vedere, le chiavi di lettura da cercare per riflettere su crepe piccole e grandi del quotidiano che talvolta ci risucchiano, altre volte devono solo essere superate o auspicabilmente rimarginate. Conoscere la paura per affrontarla freddamente, provando a oltrepassarla. Cercando di accostarsi all’arte contemporanea come luogo eletto di interpretazione poetica del circostante. Forse è questo quello che lo spettatore dovrebbe provare a fare.



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Alice Cattaneo, 1 minute 41 seconds, frame da video, 2007, Courtesy Galleria Suzy Shammah, Milano


Domingo Milella, Cuautepec, discarica, Città del Messico, c-print, 190x150 cm, 2004

 

 

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