All'incrocio delle arti: Harmonie en bleu et or. Debussy di
Jean-Michel Nectoux
di Chiara Savettieri
«La musique avant toute chose». Il verso d'esordio dell' Art
poétique di Verlaine coglie uno dei tratti essenziali
della cultura dell'epoca simbolista: il tendere delle arti verso
la musica.Il presupposto di questo ruolo cardine dell'arte musicale
risale all'età romantica.
Ancora fino alla prima metà del ‘700 la musica era considerata
inferiore alla poesia per il suo carattere “vago” e indeterminato,
perché in essa non vi è un messaggio, un significato
definito; per questo motivo la musica vocale, in quanto accompagnamento
di “parole”, era reputata superiore alla musica strumentale. Tra la
fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo la situazione cambiò:
con la crisi della concezione mimetica e con l'affermarsi delle teorie
idealiste e romantiche sull'arte, la musica assurse al rango più elevato
nel sistema delle beaux-arts ; nella sua immaterialità e
astrattezza, sembrava essere un'incarnazione diretta del sentimento.
Fu proprio allora che si cominciò a vagheggiare l'idea di un'“opera
d'arte totale”, in cui le singole espressioni artistiche si fondessero.
Come aveva sottolineato Schiller fin dal 1795, nel momento in cui le
arti valicano i loro limiti specifici, fanno affiorare la loro più profonda
identità, che è la forma, non il contenuto: solo allora è possibile
cogliere somiglianze e corrispondenze tra di esse. La valorizzazione
nella riflessione estetica dell'aspetto formale, del “come” rispetto
al “che cosa” ha innescato questa svolta fondamentale, che ha fatto
della musica un'arte-guida, un modello di riferimento. Tale idea costituì uno
dei nuclei fondamentali della cultura simbolista. Nelle arti figurative
come nella poesia s'assistette, infatti, ad un'esaltazione del sogno,
del senso dell'arcano, dell'indeterminatezza, e ad una rivendicazione
dell'autonoma funzione espressiva dei significanti (linea e colore
in pittura, la dimensione fonetica della parola in poesia): tutti elementi
che rimarcarono il ruolo cardine della musica, arte della vaghezza
e del mistero, sfuggente e indefinita. Si pensi a Paul Gauguin che,
in una lettera ad André Fontainas (1899) sul Trittico D'où venons-nous,
que sommes-nous, où allons-nous , scriveva: «Pensez
aussi à la part musicale que prendra désormais la couleur
dans la peinture moderne. La couleur, qui est vibration de même
que la musique est à même d'atteindre ce qu'il y a de
plus général et partant de plus vague dans la nature:
sa force intérieure». Mentre il critico e poeta simbolista
Charles Maurice, amico di Gauguin e suo collaboratore nella raccolta Noa
Noa, nel suo fortunato libro La littérature de toute à l'heure (1889),
facendosi interprete di un'istanza largamente condivisa, affermava: « L'art
remonte à ses origines et, comme au commencement il était
un, voici qu'il rentre dans l'originelle voie de l'Unité, où la
Musique, la Peinture et la Poésie, triple reflet de la même
centrale clarté, vont accentuant leur ressemblance.»Una
nuova luce, che rischiara quest'universo estetico tanto complesso e
affascinante, è emanata dal libro di Jean-Michel
Nectoux che, sin dal titolo Harmonie en bleu et or. Debussy (Adam
Biro 2005), dichiara programmaticamente il suo obiettivo: non concentrarsi
unicamente sulla musica di Debussy con qualche raro e superficiale
riferimento ai suoi rapporti con letterati e artisti (come è avvenuto
in molti testi sull'argomento), ma porre al centro della propria indagine
le molteplici relazioni che il musicista intrecciò con le altre
arti, esattamente come aveva già fatto con successo col suo
libro su Mallarmé qualche anno fa ( Mallarmé. Un
clair regard dans les ténèbres. Peinture, musique, poésie ,
1998). Il contributo di questo testo alla storia della musica, dell'arte
e della letteratura, è notevolissimo poiché ricostruisce
in modo efficace lo spaccato di una cultura che s'alimenta del sogno
wagneriano dell'opera d'arte totale e in cui ogni singola arte, pur
rivendicando spesso la propria autonomia, guarda con interesse alle
altre sorelle. Data la ricchezza di stimoli che l'opera di Nectoux
offre, e che è difficile sintetizzare in poche righe, ne enucleerò solo
alcuni aspetti. L'autore non si limita a spiegare - fatto già di
per sé notevole – e ad illustrare, tramite uno smagliante apparato
d'immagini, i rapporti diretti e indiretti che il musicista intrattenne
con esponenti della cultura del suo tempo (da Mallarmé a Degas,
da Camille Claudel a Whistler a Maurice Denis, per citarne alcuni)
grazie anche all'amicizia chiave con Ernest Chausson, musicista e pittore,
e con Henry Lerolle, pittore e poeta, tramite i quali entrò in
contatto col milieu artistico e letterario di matrice simbolista.
Infatti l'utilità e la preziosità di questo libro consistono
nel fatto che l'imponente apparato documentario è accompagnato
da una profonda riflessione sulle somiglianze e differenze della musica
di Debussy con la poesia e la pittura del suo tempo: qui il testo rivela
la sua originalità.
S'è spesso parlato d'“impressionismo musicale” a
proposito della musica di Debussy: un'etichetta che lascia intravedere
un'affinità con l'impressionismo pittorico, per il quale, in
realtà, sembra che il musicista non ebbe una particolare simpatia.
Di fatto, le sue propensioni concernevano piuttosto artisti estranei
alla tecnica impressionista: ad esempio Degas, modernissimo nelle anticonvenzionali
impaginazioni spaziali, capace di risultati fortemente astrattivi (come
i paesaggi monotipi esposti alla Galleria di Durand Ruel nel 1892 e
nel 1894, di cui uno fu acquistato dal principe Poniatowski, amico
e confidente del musicista); oppure il simbolista Maurice Denis, che
illustrò la copertina della partitura della Demoiselle élue (1893);
o ancora pittori inglesi come Turner e Whistler. Ben documentata, inoltre, è l'attrazione
di Debussy per l'art nouveau (che si comprende bene alla luce del gusto
debussiano per l'arabesco melodico, si pensi ai Deux Arabesques
pour piano ) e soprattutto per la cultura orientale, oltre alla
giapponese (una delle 36 vedute del monte Fuji di Hokusai illustrò la
copertina del poema sinfonico La Mer del 1903-5), quella
indiana. Effettivamente la musica di Debussy è fortemente evocativa,
si fonda sulla suggestione, sul senso del mistero, rifuggendo da qualunque
istanza descrittiva. Se i titoli delle sue opere lasciano presumere
che la fonte di ispirazione siano immagini artistiche (ad esempio Images del
1905-12 o Estampes ) o visioni della natura (ad es. Nuages del
1897-9), in realtà il contenuto visivo è trasposto in
una materia musicale autonoma, dalla tessitura cromatica e mobile,
caratterizzata da timbri puri, impreziosita da iridescenze, e colma
di risonanze ed echi: l'immagine è evocata in modo sfuggente,
arcano. Potremmo applicare a Debussy quanto Mallarmé dichiara
a proposito della poesia in cui deve aver luogo una “disparition vibratoire” ( Avant-dire
au “traité du verbe” de René Ghil, 1886) del soggetto.
Tali caratteristiche rivelano una vicinanza di Debussy alla cultura
simbolista piuttosto che a quella impressionista. Come scriverà Maurice
Denis (1923): «Le rêve d'art que nous partagions avec Debussy,
c'est Pelléas qui l'a réalisé pour la postérité.
L 'esthétique symboliste, cette poésie de l'intuition,
l'intuition chère à M. Bergson qui lui aussi à cette époque
débutait – cet art d'évoquer et de suggérer, au
lieu de raconter et de dire, ce lyrisme intégral que les poètes
et les artistes s'efforçaient de faire passer dans leurs ouvrages,
cet admirable mouvement idéaliste de 1890, c'est Debussy qui
aura fixé les acquisitions essentielles, c'est le génie
de Debussy qui les aura imposées au Monde».
D'altro canto opere come Nocturnes (1897-9)
rimandano all'universo pittorico di Whistler: Debussy affermò che
non si trattava della forma tradizionale di Notturno, ma “de tout ce
que ce mot contient d'impression et de lumières spéciales.
Nuages: c'est l'aspect immuable du ciel avec la marche lente et mélancolique
des nuages, finissant dans une agonie grise, doucement teintée
de blanc. Fêtes: c'est le mouvement, le rythme dansant de l'atmosphère
avec des éclats de lumière brusque, c'est aussi l'épisode
d'un cortège (vision éblouissante et chimérique)
passant à travers la fête, se confondant avec elle; mais
le fond reste, s'obstine et c'est toujours la fête et son mélange
de musique, de poussière lumineuse participant à un rythme
total. Sirènes: c'est la mer et son rythme innombrable, puis,
parmi les vagues argentées de lune, s'entend, rit, et passe
le chant mystérieux des Sirènes». Commentando (1894)
il colore orchestrale dei Nocturnes , il musicista precisava: «C'est
en somme une recherche dans les divers arrangements que peut donner
une seule couleur, comme par exemple ce que serait en peinture, une étude
dans les gris». Come non pensare ai Notturni di Whistler,
anch'essi “arrangiamenti” di colori? Tra il pittore e il musicista,
che ebbero modo di conoscersi negli anni '90 ai martedì organizzati
da Mallarmé a Rue de Rome, l'affinità è profonda.
In entrambi si ravvisa un affrancamento dai limiti accademici, da regole
e schemi tradizionali (Debussy dalle norme della consonanza, della
bipolarità tematica, delle cadenze obbligate, dalle progressioni
armoniche; Whistler dal principio della verosimiglianza, della riconoscibilità della
realtà rappresentata, della finitezza dell'opera), la liberazione
del timbro cromatico, la trasposizione del soggetto in una dimensione
evanescente e indefinita. D'altro canto la rivendicazione debussiana
che la musica, prima ancora d'essere un sistema di regole, è principalmente
un fatto sonoro va di pari passo con i titoli musical-cromatici di
Whistler, che mettono in rilievo il valore formale e musicale del colore,
in cui si fa risiedere l'identità dell'opera. Una tale concentrazione
sui mezzi espressivi rispettivamente della musica e della pittura trova
a sua volta riscontro nel dibattito simbolista sul verso libero negli
anni '90, riecheggiato nello scritto di Mallarmé Crise de
vers. Una riflessione sull'autonomia dei significanti, che implica
una rottura con le norme convenzionali, accomuna dunque le tre arti.
Solo un musicologo acuto, e nello stesso tempo esperto conoscitore
dell'arte e della letteratura dell'epoca come Nectoux, poteva individuare
il posto occupato da Debussy nella cultura del suo tempo. Nelle ultime
pagine del libro, animate da una prosa poetica e contemporaneamente
lucida, l'autore si concentra sull'originalità della musica
debussiana. Il musicista, come Turner, che tanto ammirava, e come Whistler,
nutriva un panteistico sentimento della natura. Non i fenomeni in sé lo
affascinavano, ma quanto in essi vi è di poetico, universale,
misterioso. Per lui il Mondo è – rileva Nectoux - «une
totalité mystérieuse dont il tente de finer les lumières,
les échos, la beauté pour la révéler»:
la sua arte si configura non come interpretazione, ma piuttosto come “divinazione” della
natura, come cassa di risonanza dell'arcana poesia del cosmo. Ed è qui,
a mio avviso, che Debussy può esser paragonato ad un pittore
considerato “impressionista” per eccellenza, Monet, le cui affinità elettive
con Turner e Whistler sono state ben indicate da un'indimenticabile
mostra al Grand Palais di Parigi ( Turner, Monet, Whistler 2004).
Non è un caso che quando il suo nome ricorre negli scritti del
musicista è sempre in termini positivi ed elogiativi; il che
non va visto in contraddizione con le riserve di Debussy nei confronti
dell'“impressionismo” poiché allora con questo termine si indicava
genericamente pittura moderna; inoltre l'evoluzione di Monet – mi riferisco
alle serie come i Pioppi, i Covoni , o le Ninfee, che
egli realizzò a partire dagli anni ‘90 - lo rende profondamente
diverso da Sisley o Pissarro. Indicativa è una frase contenuta
in un testo redatto nel 1898 da Debussy e René Peter, in cui
s'evoca una coppia grottesca incontrata “à une exposition tout à fait
merveilleuse de Claude Monet. C'était des études de meules”.
La mostra cui si fa riferimento è quella del maggio 1891 presso
Durand-Ruel, quando furono esposti i Covoni . A questo punto
non possiamo non ricordarci della nota dichiarazione di Kandinsky ( Sguardi
sul passato, 1913) secondo cui la visione di uno dei Covoni gli
fece comprendere che cosa fosse realmente un quadro e quanto fosse
inutile il soggetto. Lo stesso Kandinsky altrove ( Lo spirituale
nell'arte, 1911) accenna al rapporto tra Debussy e gli impressionisti «perché come
loro si ispira nelle sue opere ai fenomeni naturali che interpreta
soggettivamente a grandi tratti»; tuttavia, sottolinea anche
la differenza legata al fatto che nel musicista l'«aspirazione
all'interiorità è talmente intensa che nelle sue opere
si riconosce immediatamente l'anima del presente, col suo suono incrinato,
le sue sofferenze strazianti e i suoi nervi a pezzi», concludendo
che in verità egli «non usa mai, neppure nelle immagini “impressionistiche” una
descrizione puramente materiale…ma sfrutta il valore interiore del
fenomeno».
L'arte come espressione di una visione interiore e spirituale in cui
risuona il ritmo, il battito pulsante dell'universo: pensiamo alla
musica di Debussy, ma anche alle serie di Monet, in cui sfocia l'impossibile
desiderio di abbracciare non più questo o quest'altro fenomeno
(come avvenne nella sua prima fase impressionista), ma il mobile divenire
del cosmo nel suo perpetuo fluttuare di luce e colore.

La copertina del libro di Jean-Michel Nectoux, Harmonie en bleu et or. Debussy
La scomparsa di Oreste Ferrari
di Claudio Gamba
La morte di Oreste Ferrari, avvenuta nel novembre 2005, è passata
quasi sotto silenzio; solo qualche stringatissimo necrologio e il tacito
rimpianto degli amici, dei colleghi, degli allievi. Eppure con Ferrari
scompare uno degli ultimi rappresentanti di quella generazione irripetibile
che si era affacciata al mondo degli studi subito dopo la seconda guerra
mondiale, di quella scuola di storici dell'arte dagli interessi multiformi,
che andavano dalla riscoperta di settori inesplorati della storia dell'arte
fino alla militanza nella creazione artistica contemporanea, e in cui
ancora potevano conciliarsi l'intelligenza critica con l'attivismo
nella tutela.
Nato a Roma il 5 aprile 1927, Oreste Ferrari si era infatti formato
alla scuola di Lionello Venturi, dal quale discendevano, oltre all'attenzione
per la storia della critica, i suoi primi interventi su artisti contemporanei;
accanto all'insegnamento venturiano vi era stata la lezione di Mario
Salmi, che l'aveva illuminato sulla non marginalità degli studi
dedicati alle arti decorative: «Ho ancora ben vivo – ha scritto
Ferrari – il ricordo dello sgomento che colse, con me, altri allievi
della Scuola di perfezionamento in Storia dell'arte dell'Università di
Roma quando […] Mario Salmi ci assegnò le tesine annuali, tutte
su argomenti relativi alle arti cosiddette decorative. […] Quella di
Salmi era, comunque, una indicazione essenzialmente di metodo di ricerca
e di metodo operativo, stimolante anche per la pratica della catalogazione,
nell'intendimento che questa fosse quanto più possibilmente
esaustiva, completa e non selettiva, non limitata alle “cose di rilevante
interesse”». Da questi insegnamenti derivarono le pubblicazioni
che Ferrari dedicò allo studio delle arti applicate e alle classi
tipologiche di oggetti, studi che si affiancavano a quelli sulla pittura
e sulla scultura dal Cinque al Settecento (dalla fondamentale monografia
su Luca Giordano, condotta con Giuseppe Scavizzi e uscita nel 1966,
fino al corpus delle sculture del '600 a Roma, firmato con Serenita
Papaldo e pubblicato nel 1999).Da subito, però, all'impegno
critico si era affiancato quello pratico nel Ministero, grazie anche
all'incontro con Giulio Carlo Argan: «fu
così che Argan mi fece assumere nel 1949, ben prima che io conseguissi
la laurea, nella amministrazione delle Antichità e Belle Arti,
con la qualifica di operaio temporaneo e destinazione alle Soprintendenze
alle Gallerie di Venezia prima e di Napoli poi: affinché, proseguendo
gli studi, subito cominciassi a far pratica negli organismi di tutela;
affinché insomma lo studio, la ricerca, l'indagine storica subito
si temprassero sul concreto, a volte oscuro e faticoso ma sempre appagante,
esercizio dei compiti della cura del patrimonio». Fu sempre Argan
che lo coinvolse nella commissione di studio sui problemi della catalogazione
costituita dal CNR d'intesa col Ministero della P.I. (1964-67), da
cui sarebbe nato nel 1969 l'Ufficio Centrale del Catalogo (diventato
nel 1975, con la nascita del Ministero dei Beni Culturali, l'Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione ), che Ferrari diresse
alacremente per oltre vent'anni, fino al 1990.Tutta l'opera di Oreste
Ferrari è stata tesa a dimostrare,
non solo teoricamente ma nei fatti, cioè attraverso l'indagine
conoscitiva, che non esiste una gerarchia tra filologia analitica e
catalogo sistematico, che l'una non viene prima dell'altro, che studiare
e tutelare sono parte di un unico e inscindibile processo: non si salva
ciò che non si conosce, non si conosce ciò che non si
individua, non si individua ciò che non si sottrae alla distruzione,
alla dispersione e all'oblio. L'Istituto Centrale del Catalogo non
era un concorrente, né una premessa o una conseguenza, dell'Istituto
Centrale del Restauro, come non lo era della ricerca scientifica condotta
nelle Università. Anche il catalogo, come il restauro, è prima
di tutto un atto critico, cioè un'indagine scientifica, che
deve essere affidata a personale altamente qualificato: «La catalogazione – ha
scritto – non è un fatto meramente strumentale, non è meramente
finalizzata solo ai compiti di tutela, ma è un'attività d'indagine
e di ricerca […] Attraverso la catalogazione si stabilisce quel patrimonio
di conoscenze tecniche e storiche che possono essere, insieme a quel
patrimonio di esperienza e di previsionalità, la sola garanzia
dell'autonomia scientifica degli organi tecnici. Un'autonomia che non
vuole essere astrattezza o separatezza dai problemi, ma possibilità di
relativa indipendenza e opportunità di incidere sopra gli altri
poteri o interessi che pure esistono».
La dimestichezza con l'indagine capillare sui contesti e su quei materiali
anche apparentemente minori non gli faceva comunque mai perdere di
vista il problema dell'individuazione del valore dell'opera d'arte,
così importante per tutta la generazione che si era formata,
attraverso Venturi e lo storicismo crociano fino all'approdo fenomenologico,
sul rigetto di un miope e asfittico positivismo. Catalogare non era,
non è, un'operazione burocratica e meccanica, sebbene Ferrari
abbia sempre insistito sulla necessità di criteri omogenei e
sull'applicazione dei sistemi informatici che man mano si rendevano
disponibili agli studiosi; non si può infatti catalogare senza
una piena padronanza della storia e della cultura. Non a caso uno dei
temi a lui più congeniali è stato quello del rapporto
tra arte e letteratura: sebbene non possa stabilirsi una semplice equivalenza,
come fossero frutto di un unico “spirito del tempo” che informa e condiziona
ogni cosa, tuttavia la comprensione dell'opera d'arte, sia dei manufatti
che dei testi letterari, non è possibile senza far interagire
ogni informazione che la riguarda, dalle tecniche al contesto culturale.
Alieno da vane e astratte disquisizione metodologiche, Oreste Ferrari
non è stato comunque un empirico ricercatore di dati e notizie
ma propriamente uno storico, che ha restituito al catalogo lo statuto
di una piena dignità scientifica. Oggi che viviamo una parcellizzazione
degli studi sempre più accentuata e che quegli Istituti centrali – che
dovrebbero costituire la punta più avanzata, insieme della conoscenza
e della tutela – stanno vivendo un periodo di continui attacchi alla
loro autonomia tecnico-scientifica, la lezione di Oreste Ferrari mirante
a coniugare il rigore filologico, l'acribia del catalogatore e l'intuizione
del critico, non dovrebbe essere dimenticata.
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