Confessioni di un recensore di mostre
di Antonio Pinelli
Come storico dell'arte, il mio rapporto con le mostre risale ai lontani anni del Liceo e dell'Università. Posso pertanto dire di aver assistito, sia pure con acerba consapevolezza ed in modo alquanto intermittente, al tramonto della “fase artigianale” e agli albori di quella “industriale”, che fu guidata, in Italia, da un manipolo di “capitani coraggiosi”: Zampetti a Venezia, Gnudi a Bologna, e pochissimi altri. Ricordo, tra le altre, un'antologica veneziana di Carpaccio a Palazzo Ducale, che fu forse in assoluto la mia prima “grande mostra” , cui seguirono, qualche anno dopo, un paio di biennali bolognesi (ma non erano le prime della serie, quelle su Guido Reni o sull'Ideale classico nel Seicento, destinate a rimanere avvolte in un alone di mito), e poi, indimenticabile, una straordinaria rassegna di Romanino a Brescia (era nella tarda estate del '66?), già concepita con l'estensione degli “Itinerari nel territorio” (Pisogne e una manciata di altri highlights romaniniani, sparsi attorno al Lago d'Iseo). In compenso mi è sfuggita la superba esposizione mantovana dedicata a Mantegna, da molti considerata una sorta di prototipo delle “grandi mostre” a venire, con le prime avvisaglie del formarsi di quel “popolo delle mostre” che era destinato a diventare una fiumana straripante e composita (da una parte una nutrita élite cosmopolita, pronta a godersi l'intero Grand Tour spostandosi periodicamente da Parigi a Londra, da Amsterdam a Vienna, da Washington a New York, dall'altra, le moltitudini che si limitano a compiere pellegrinaggi di raggio più modesto o esclusivamente locale). Dal novembre 1980, data della mia prima recensione sul quotidiano “Il Messaggero” (una mostra di Henry Laurens all'Accademia di Francia di Villa Medici), il mio rapporto con le mostre è cambiato, nel senso che ho smesso di essere un puro fruitore, sia pure via via più professionalizzato, per vestire l'abito del recensore. Un abito che sarebbe davvero ipocrita definire un cilicio – ti circonfonde di un'aura di potere colma di privilegi, piccoli e grandi – ma che è, come dire?, tessuto con una stoffa tanto delicata da rischiare di strapparsi, mettendo a nudo i tuoi lati peggiori. Non è infatti facile resistere alle lusinghe e alle pressioni, più o meno velate, né sottrarsi alla scomoda situazione di chi opera tra l'incudine e il martello: da una parte c'è il giornale con cui collabori, che ti impone ritmi incalzanti, vorrebbe colpi a sensazione e magari, perché no?, anche qualche bella stroncatura – specie se lo sponsor è il giornale concorrente –; dall'altra, l'ansiosa e narcisistica tribù dei curatori, che spesso conosci da una vita, e quella, sempre più agguerrita, degli uffici stampa, pronti a gratificarti con mille benefits e a soffocarti di premure. Ognuno di noi “recensori di mostre” dovrebbe avere un proprio decalogo deontologico, ma forse lo abbiamo solo in pochi. Io ho sostanzialmente rinunciato a progettare e a curare esposizioni, riducendo al minimo anche la partecipazione a “comitati scientifici” di varia natura; evito il più possibile le inaugurazioni e, in molti casi, anche le “vernici per la stampa”. A questo scopo, sono diventato sfuggente come una biscia, arrivando a negare di possedere un cellulare (anche se dopo aver resistito per anni, alla fine ho ceduto acquistandone uno, il cui numero è ignoto a tutti tranne che ai parenti stretti e ai miei compagni di doppio di tennis). Ma scagli la prima pietra chi può vantarsi di aver saputo mantenere immacolata la propria toga praetexta . Elogi in malafede? Questo magari no, sono riuscito ad evitarlo. Stroncature su commissione? Meno che mai: la mattina ho ancora voglia di guardarmi allo specchio. Ma peccati di omissione sì, Vostro Onore, lo confesso: talvolta la tentazione è stata irresistibile e ho peccato (magari dicendo a me stesso che, in certi casi, il non parlare di una mostra è ancor più nocivo – e agli occhi del suo curatore altrettanto eloquente – di una stroncatura). Dopo più di 15 anni di collaborazione con “Il Messaggero” sono passato a “La Repubblica”, su cui scrivo tuttora: come recensore non posso dire di essere stato monogamo, ma neppure pluridivorziato o allegramente dedito alla poligamia. Fatto sta che ho festeggiato l'anno scorso le mie “nozze d'argento” con questa specifica professione, avendo scritto, in sostanza, solo per due testate. Almeno cinque volte ho meditato seriamente di smettere, dandomi come termine la fine di ogni lustro. Ma puntualmente ho ogni volta deciso di rinviare al lustro successivo. Nell'analisi dei costi/benefici, almeno finora, hanno prevalso i benefici, il principale dei quali è, ai miei occhi, che questo mestiere mi costringe a non isolarmi nell' hortus conclusus dei miei argomenti di studio preferiti, obbligandomi a continue sortite nelle più disparate direzioni, anche in territori da me poco frequentati o addirittura inesplorati. I costi sono che si aggiunge un'altra “voce”, spesso fastidiosamente incalzante, a tutto il resto – insegnamento universitario, ricerca, svago, affetti –, con il supplemento di stress che inevitabilmente ne consegue. In questo quarto di secolo di professione ho visto cambiare molte cose, e quasi mai in meglio. I miglioramenti più concreti sono stati di carattere tecnologico: i miei primi articoli li scrivevo a macchina e li portavo di persona al giornale. Da Venezia e dall'estero trasmettevo i miei pezzi al telefono, grazie al misterioso e prezioso supporto del “servizio dimafonisti”. Poi le cose si sono notevolmente semplificate con l'introduzione del fax, e subito dopo ultrasemplificate con l'avvento del computer, dei modem, dell'e-mail e delle immagini scansionate e spedite su CD o direttamente via cavo. Un taglio di tempi e costi impagabile (io, ad esempio, sprecavo montagne di fogli, per scrivere un articoletto), che ha ancora la capacità, a distanza di tanti anni, di rallegrarmi, più di quanto immagino succeda a chi non abbia sperimentato direttamente l'era della “macchina da scrivere”. Tra l'altro, ora che di fatto li confeziono io stesso anche dal punto di vista tipografico, i miei testi non pagano più l'inevitabile penalità degli innumerevoli e spesso esilaranti fraintendimenti che prima subivano nel passare da una mano all'altra in redazione e in tipografia. E se comunque qualche sfondone sopravvive, non ho che da prendermela con me stesso. Quando ho esordito già cominciavano a manifestarsi i primi segni di alluvione espositiva, tipici della “fase industriale” in ascesa, e credo di essere stato tra i primi a dare l'allarme, coniando il termine “mostrite” (oggi si preferisce parlare di “mostramania”, ma il concetto è lo stesso). Allora mi era stata affidata la responsabilità dell'intero settore, avendo come “vice” un valente ed esperto factotum, Vito Apuleo, più navigato nel campo del contemporaneo. All'inizio, ma solo all'inizio, in due riuscivamo a “coprire” tutti gli eventi principali, non solo italiani ma europei (per qualche tempo riuscii anche a coinvolgere Vittorio Fagone, poi, in maniera via via crescente, cominciò ad occuparsi del settore anche un inviato del giornale destinato a specializzarsi sempre più in “beni culturali”, Fabio Isman). La mia “produzione” toccava, a quei tempi, i quaranta-cinquanta articoli all'anno. Mi occupavo anche di contemporaneo e viaggiavo di continuo: andavo almeno tre volte l'anno a Parigi e un paio a Londra, e poi a Bruxelles, Madrid, Vienna, Amsterdam, Monaco… Talvolta anche a New York, Washington, Boston, Chicago, Philadelphia. Ogni due anni scrivevo il mio “pezzo” sulla Biennale, e un paio di volte mi è capitato di recensire anche Documenta . Gli articoli avevano svariati “formati”: quelli per gli eventi più importanti erano di centottanta righe, poi c'erano quelli da centoventi, da novanta, e quelli più brevi, da sessanta. Naturalmente non scrivevo soltanto recensioni di mostre, ma anche articoli su altri argomenti: restauri, scoperte, polemiche nel campo della gestione dei beni culturali, convegni di un qualche spicco; e poi ancora, recensioni di libri, necrologi di artisti e di storici dell'arte, celebrazioni di anniversari. Tuttavia, mano a mano che le mostre aumentavano, diminuivano le righe a disposizione, e anche lo spazio per articoli che non fossero recensioni di mostre. Oggi, un po' perché a “Repubblica” ho un ruolo più specifico – mi occupo solo di “arte medievale e moderna”, mai di contemporanea – un po' perché ho autoridotto il mio impegno giornalistico per poter far fronte alle crescenti responsabilità didattiche e accademiche, scrivo soprattutto recensioni di mostre – una ventina all'anno – anche perché di queste, e quasi solo di queste, sembra essere ingordo un quotidiano come “Repubblica”, che è fra i pochi ad aver destinato una pagina settimanale al riguardo. Ma torniamo alla “mostrite”, cui allude la copertina di questo numero speciale di “Predella” e di cui si percepivano le avvisaglie già all'inizio degli anni '80. L'industria delle mostre vive ormai da anni una fase di inflazione, un boom produttivo (il boom che precede immancabilmente il crack ?, potremmo domandarci, parafrasando una vecchia battuta degli economisti) che forse prelude ad un ulteriore passaggio (una fase post-industriale?). Fatto sta che la situazione appare singolarmente ambigua, un vero e proprio Giano bifronte, poiché questo soffocante diluvio è alimentato da due sorgenti tanto copiose quanto, di fatto, contrapposte. Da una parte c'è il blob , in continua espansione, della miriade di iniziative ancora caratterizzate da un alto tasso di artigianalità, ibrida e talvolta velleitaria mescolanza di localismo e buoni propositi. È un'attività che si autoalimenta grazie agli incentivi più diversi, ma che spesso finisce con il costituire una vera e propria dissipazione di risorse, tanto da far sperare che, almeno in parte, possa essere indirizzata verso scopi meno effimeri. Sull'altro versante avanza e si espande a macchia d'olio il network , sempre più potente, delle mostre progettate, prodotte e distribuite “chiavi-in-mano” dai “poteri forti”. Esposizioni dietro le quali si intravede sempre più spesso non tanto la sponsorizzazione quanto l'investimento produttivo del capitale finanziario: banche, assicurazioni, grande editoria. Stanno nascendo – ed è lecito attendersi che si affermeranno sempre più – apposite imprese, S.p.a che nascono “private”, ma poi finiscono per subentrare agli apparati e agli operatori tradizionali, siano essi dipendenti statali o degli enti locali (un caso esemplare: Zétema, che da società per azioni si è di recente trasformata, se ho ben capito, in una sorta di società parastatale, o meglio paramunicipale, cui è stata delegata, a Roma, la produzione-gestione di tutti i maggiori eventi espositivi di iniziativa comunale). In un futuro nemmeno troppo lontano s'intravede la figura dello storico dell'arte “funzionario di produzione”: ai piani alti il progettista, sorta di designer del prodotto-mostra; a quelli bassi – e già ne esistono legioni ingaggiate grazie alla formula “flessibile” del co.co.pro. – , l'estensore di schede, didascalie, itinerari, di materiali per CDrom e audiovisivi per le visite guidate, e così via. Tutto questo è un male? Il discorso sarebbe lungo e mi sforzerò di sintetizzarlo al massimo, ma una breve premessa mi è necessaria. Negli anni Sessanta furoreggiava la contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”: da una parte coloro che avevano in “gran dispitto” i mass media e l'industria culturale, i nostalgici della belle époque degli happy few , gli inconsolabili vedovi delle lucciole (che poi, chissà com'è, sono ricomparse a sorpresa, tornando a frotte a svolazzare tra le siepi e a punteggiare, con le loro lucine intermittenti, le notti estive); dall'altra, coloro che accettavano di buon grado l'industria culturale, talvolta fino al punto di arruolarsi nei suoi ranghi. Io sono in grado di capire, e in qualche caso di condividere, nostalgie e preoccupazioni degli apocalittici, ma per indole e per convinzione faccio parte, senza tentennamenti, della seconda schiera: quella degli integrati. Ciò non significa accettare passivamente ogni risvolto negativo della società dei mass media , ma partire dal presupposto che la democratizzazione della cultura – perché in ultima istanza è di questo che si tratta –, è un bene in sé per sé, un progresso irrinunciabile, anche se comporta costi pesanti, a volte dolorosi. Si tratta di individuarli e, per quanto possibile, di cercare di sterilizzarli o minimizzarli. Prima ho parlato di un mio decalogo, ora posso aggiungere che la lancetta della mia bussola, in quanto recensore di mostre, è costantemente orientata su questa stella polare. Che è poi la stella polare di chi affronta le novità che avanzano senza spaventarsi, e magari con curiosità e interesse, pur senza lasciarsi abbagliare dal luccichio che emana dal recto della medaglia. Quanto al rovescio, se ne analizzano le opacità e si cerca di emendarle denunciandole. Proviamo allora a fare il punto: la mostramania, ovvero la tendenza infestante alla proliferazione delle mostre, è nell'ordine delle cose: va combattuta, ma nell'intento di correggerne le devianze più vistose e di canalizzarne le energie verso fini più utili e produttivi. Nell'era della cultura di massa e della civiltà dell'immagine, l'arte non solo non ha perduto la sua “aura”, ma sembra averla intensificata e resa ancora più ammaliante. In un mondo che si va sempre più secolarizzando (parlo del mondo economicamente e civilmente evoluto, beninteso), l'arte è diventata una sorta di nuova religione planetaria e la formula della mostra temporanea risponde perfettamente ai canoni di una società che ha nel clamore mediatico il suo vitale tam tam comunicativo. Ma a questa collaudata funzionalità del modello dell'esposizione temporanea alla cultura dei mass media si aggiunge il fatto che esso è anche perfettamente aderente ad un'esigenza di efficacia comunicativa che i tradizionali musei e pinacoteche, con la loro labirintica dispersività, non riescono più ad assolvere (ed infatti molti di essi hanno adottato la formula dell'esposizione temporanea anche per rivitalizzare le proprie collezioni permanenti). La mostra, infatti, presuppone un progetto, un'intenzionalità, un ben preciso disegno, ed è questo suo carattere genetico che va salvaguardato e incoraggiato, deprecandone l'assenza, o la sua debolezza e pretestuosità, in tante rassegne che oggi ci vengono propinate. Il meccanismo della spettacolarizzazione ad oltranza è come l'incantesimo messo in moto dall'apprendista stregone, induce ad una banalizzante autoreplicazione: pur di autoriprodursi lo spettacolo-mostra è capace di macinare il vuoto, di generare solo cloni. Non ho voglia qui di ripetere quali siano i peggiori difetti dell'attuale alluvione, puntualmente rispecchiati, specie in Italia, da cataloghi tanto più sovradimensionati ed elefantiaci, quanto più si rivelano disorganici, colmi di interventi eterogenei e privi di un progettato aggancio con le esigenze della mostra e perfino con le legittime curiosità da essa suscitate nel visitatore. Basti qui ricordare uno dei guasti più clamorosi della spettacolarizzazione forzata, e cioè l'ossessiva riproposizione dei “soliti noti”. È quella che ho chiamato la politica delle “grandi firme”, in virtù della quale ai devoti pellegrini del Grand Tour i santuari che allestiscono “grandi mostre” offrono il solito menu a base di cinque o sei nomi, sempre gli stessi: Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Manet, Monet e gli altri impressionisti, van Gogh, Gauguin, Kandinskij, Picasso. L'Olimpo felicemente politeista dell'arte diviene in questo modo un orto asfittico, angusto, abitato da poche divinità: gli «eternamente esposti» ed «eternamente restaurati», coloro che vengono presentati e ripresentati in tutte le salse, perché richiamano le folle e garantiscono un sicuro «ritorno d'immagine». O che magari non ci sono materialmente in questa o quella grande mostra, ma vi sono rappresentati per procura da pallidi surrogati – repliche, copie, opere di epigoni, originali più che dubbi – salvo poi comparire con i loro nomi di richiamo a far da specchietto delle allodole nei titoli gridati ai quattro venti dai media . In questi ultimi due anni, ad esempio, le rassegne nel cui titolo compariva il nome di Caravaggio sono state innumerevoli, in una ridda di varianti il cui balletto è stato, a dir poco esilarante: mostre in cui il “gran lombardo” c'era davvero, ed anche in forze (a Napoli, ad esempio), altre in cui c'era per interposto epigono (magari promosso sul campo al rango del maestro), altre in cui i quadri di Caravaggio annunciati e pubblicati in catalogo erano del tutto diversi da quelli che realmente comparivano nel percorso espositivo, ed altre ancora in cui le sue tele erano negligentemente confuse tra quelle di una folla di mezze figure. È mancata la mostra in cui c'è Caravaggio nel titolo, ma è del tutto assente sulle pareti, ma non dubito che, prima o poi, qualche solerte ideatore di mostre saprà rimediare. Tempo fa Antonio Paolucci polemizzò con chi, come Paola Barocchi, Michael Hirst, Salvatore Settis e me, aveva firmato un appello contro una delle tante esposizioni imposte dalla “ragion politica” e da motivazioni economico-commerciali: una mostra del Rinascimento italiano destinata al Giappone. In replica alla nostra lettera, Paolucci (che peraltro stimo molto) ci accusava di essere nostalgici dell' ancien régime e ci invitava ad arrenderci all'evidenza che nel mondo d'oggi l'arte è per le masse un mito che ha sostituito le verità rivelate delle religioni e delle ideologie politiche. Evito l'autoparafrasi, citando direttamente la mia risposta in un articolo apparso su “La Repubblica”: “Non sono un nostalgico dell'a ncien régime . Ho firmato, non lo nego, insieme ad altri colleghi […], una lettera di protesta contro il movimento perpetuo con cui si mettono a rischio opere d'arte di prestigio assoluto per far da testimonial in eventi espositivi motivati più da ragioni politico-diplomatiche che culturali. Ma non per questo mi auguro di vedere gli Uffizi deserti come quando li visitava Berenson, né vorrei che le mostre fossero frequentate da pochi e scelti conoscitori. Anche a me hanno insegnato che non si sputa nel piatto in cui si mangia. […] Ma venendo al merito della questione che abbiamo posto con la nostra lettera, poiché, come anche Paolucci ci concede, non siamo in assoluto contro gli spostamenti di opere d'arte, ma ci auguriamo semplicemente che siano concessi con discernimento, torna a proposito proprio l'esempio della mostra sul cardinal Ferdinando che si tiene in questi giorni a Villa Medici. Paolucci, giustamente, rivendica il merito (e il coraggio) di essersi assunto la responsabilità, contro il parere dei Direttori dei Musei direttamente interessati, di prestare alla mostra il Mercurio di Giambologna e due statue del gruppo dei Niobidi. Ma quella mostra, come ricorderà chi ha letto la mia entusiastica recensione, si sforza di ricostituire, sia pure temporaneamente, il contesto originario della collezione del cardinale Ferdinando de' Medici nella sua villa romana: di qui l'importanza rivestita dalla presenza di opere come quelle prestate da Paolucci, che di quel contesto originario erano gli elementi di maggior spicco. Il problema, insomma, non è quello di negare i prestiti ad ogni costo, ma di concederli a ragion veduta, e questa ragione non può essere di pura opportunità politica, perché il compito di un Conservatore non è quello di accondiscendere incondizionatamente alle richieste della politica e nemmeno quello di contrastarle per principio, ma quello di orientare le decisioni politiche in modo che siano in sintonia con le ragioni della cultura. E queste ultime consigliano che un Paese come il nostro sia geloso della salvaguardia dei contesti storici e della propria identità culturale, piuttosto che assecondare la tendenza alla dissipazione spettacolare e all'omologazione che è già di per sé così forte nell'era della globalizzazione. Alla nostra richiesta di salvaguardare questa identità e di impedire che il nostro Paese dia il triste spettacolo di svendita all'ingrosso che stanno dando proprio in questi anni Paesi di più modesta cultura e tradizione, Paolucci risponde che bisogna arrendersi di fronte alle ragioni della promozione pubblicitaria e all'inarrestabile tendenza alla mitizzazione di massa delle opere d'arte, “pallidi soli” che sostituiscono nell'immaginario delle masse “le declinanti religioni, la politica che non c'è più, le identità sociali sempre meno riconoscibili”. Molto ben detto : ma io continuo a pensare che il compito di un intellettuale non sia quello di demonizzare i “segni dei tempi”, ma nemmeno di assecondarli acriticamentente. Se c'è, come c'è, una deriva mitizzante, proprio perché se ne intendono le motivazioni profonde, spetta a chi fa il nostro mestiere contrastarne gli effetti di appiattimento unidimensionale, inoculando dosi massicce del vaccino di cui dovremmo essere i depositari: lo spirito critico”. Ecco: io penso che la funzione principale dell'intellettuale sia di alimentare lo spirito critico, la capacità di distinguere e capire. È il più prezioso insegnamento che mi ha lasciato in eredità Giulio Carlo Argan, che è stato il mio maestro, e cerco di attenermici per quanto so e posso. Quanto al mio maestro d'elezione, il mio “intellettuale di riferimento” (perché ciascuno di noi ne ha almeno uno ed io non faccio eccezione), il mio è Diderot, genio immenso e irraggiungibile, del cui vertiginoso talento di “ragionatore ardente” mi basterebbe possedere anche solo la millesima parte. Ma sarà proprio un caso che egli fu anche il primo “recensore di mostre” nel senso moderno del termine?
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