Chiara Fabi

 

Mostre d'arte antica e salvaguardia del patrimonio artistico.

Un inedito di Cesare Brandi

 

Nel 1939 Cesare Brandi, in qualità di Soprintendente alle Gallerie presso la Direzione generale delle Antichità e Belle Arti, fu inviato dall'allora ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai negli Stati Uniti “per soprintendere alle operazioni relative alla mostra delle opere d'arte concesse in prestito dal governo italiano a Chicago e New York”[1] al termine della Fiera Mondiale di San Francisco. Dell'evento egli consegnò, al suo ritorno, una dettagliata recensione alle pagine della rivista "Le Arti", ove, grazie anche alla penna di Giulio Carlo Argan, ambo le esposizioni statunitensi furono largamente elogiate, sia dal punto di vista dell'allestimento sia sotto l'aspetto conservativo[2] . A chiusura del testo, anzi, si predispose un'apposita "nota" che, riferendo delle speciali misure precauzionali adottate, lodava, con sapiente retorica, "l'attentissimo zelo" e "l'oculata previdenza" dell'organizzazione.

Il rinvenimento, però, presso l'Archivio dell'Istituto Centrale del Restauro, di un documento inedito redatto da Brandi, getta una nuova luce sullo svolgimento di questa mostra itinerante. Nel 1956, infatti, l'eventualità che si allestisse, ancora una volta negli Stati Uniti, una Mostra del Rinascimento a cui avrebbero preso parte opere di indiscusso valore, spinse il Consiglio Superiore Antichità e Belle Arti ad appellarsi – per esaminare lo status dei dipinti di cui era stato preventivato l'invio – al giudizio di Brandi, nel frattempo divenuto Direttore dell'Istituto Centrale del Restauro. Da questa circostanza nacque una "relazione" nella quale, oltre a valutare, in cinque distinti capi, le condizioni dei dipinti su tavola e su tela ed i connessi rischi d'imballaggio e di trasporto, lo storico dell'arte volle includere, per sottolineare e comprovare il bilancio complessivamente sfavorevole alla realizzazione della mostra, una breve appendice sulla precedente "dolorosa esperienza dell'esposizione dei capolavori italiani negli Stati Uniti" [3] . “Chi scrive – precisava Brandi – non organizzò la Mostra né tanto meno scelse i dipinti e le statue: solamente fu incaricato di andare a sorvegliare l'imballo e il trasporto dei dipinti da Chicago a New York. Avveniva questo nel dicembre 1939, anno che non fu particolarmente freddo, ma che segnava a Chicago la temperatura di 15 gradi sotto zero e di poco inferiore a New York. Sebbene non abbia particolare pertinenza al tema – aggiungeva – dirò per incidens che la Mostra era offerta all'America, e che nessun introito venne allo Stato italiano. Funzionava da imprenditore il fu Comm. Ventura che ci si arricchì, e che doveva provvedere con un'aliquota degli ingressi alle spese di trasferta dei quadri e dei funzionali. L'America inoltre corrispose un milione per rassicurazione. Ma dato che nessuna compagnia d'assicurazione italiana poteva sostenere l'onere dell'assicurazione di tali capolavori, il Governo fascista non volle – per ragioni di autarchia – assicurare i dipinti ad una compagnia straniera e pertanto fu deciso di inviarli senza assicurazione!”[4] . A questa rapida premessa, già di per sé inquietante, faceva seguito, nel documento datato 10 dicembre 1956, un accorato resoconto dei numerosi danni subiti dalle tavole e dalle tele trasferite oltreoceano, con una descrizione tutt'altro che in sintonia con quelle "assolute garanzie di salvaguardia" esposte nell'articolo de "Le Arti". Continuava, infatti, Brandi: “Le opere d'arte erano state inviate a S. Francisco, da dove, avendo goduto del clima autunnale quasi mediterraneo della città, furono sbalzate nell'inverno polare dell'interno. Il Museo di Chicago non disponeva allora di condizionamento, ma solo di riscaldamento: e il riscaldamento di un Museo, in America, non è inferiore che di poco a quello, soffocante, di un appartamento privato. È senza eccezione superiore ai 22° centigradi. Questa temperatura, nell'aria secca di Chicago – secca al pari di quella di New York – produsse dei veri disastri nei dipinti. Quando arrivai trovai che la Sacra Conversazione di Palma, delle Gallerie di Venezia, presentava sollevazioni a tetto di grande estensione e in molti punti, sicché dovette essere subito staccata e adagiata in piano. Lo stesso era accaduto al S. Giorgio di Mantegna della stessa Galleria Veneziana: si era sollevato in modo pauroso verticalmente in basso; nella Madonna della Seggiola le assi del supporto segnavano in modo assai più distinto, e la Crocifissione di Masaccio s'era incurvata in modo definitivo”. “Ora si noti bene – sottolineava poi con una argomentazione a lui cara – che se i tre ultimi dipinti sono su tavola, quello del Palma, il più danneggiato, è su tela. E con ciò si consideri quanto sia aleatoria, a conti fatti, la maggior tranquillità con cui si crede di poter trattare i dipinti su tela, circa i viaggi, e gli sbalzi di umidità relativa e di temperatura”. Ad ogni modo, di fronte ad un simile disastro, incisivo fu l'intervento di Brandi, il quale non solo ordinò “la diminuzione della temperatura (di che tutto il pubblico protestava all'unanimità)”, ma impose, con anticonvenzionale prontezza, “la sistemazione di pentole d'acqua sui termosifoni che ristabilissero una umidità relativa del 60-65%. Con ciò – precisava – si evitarono per il momento nuovi guai ma il Palma e il Mantegna richiesero un lungo e minuto intervento di restauro e in quanto al Mantegna rimase curvo”.

Né, d'altronde, questi furono gli unici problemi posti dall'esposizione. La cronaca, anzi, proseguiva, a questo punto, con la descrizione delle difficoltà connesse al trasporto delle opere da Chicago a New York: un ostacolo che Brandi poté affrontare non tanto per merito delle “custodie lignee” protette "da vetro infrangibile" ricordate ne “Le Arti”, quanto piuttosto ottenendo, grazie all' “intervento onnipotente di McCormick, proprietario del Chicago Tribune, che le casse con le opere fossero messe in un vagone in cui non si sarebbe mai alzata la temperatura oltre un certo limite, vagone che fu attaccato al treno espresso Water level, in modo da accorciare il viaggio”. “Tutta la notte io feci la spola per sorvegliare il termometro e fare le misurazioni con lo psicrometro”, ricordava Brandi, insistendo, ancora una volta, sull'avventatezza dell'esposizione e denunciando la gravità di una situazione che neppure si risolse con l'arrivo delle opere, ai primi di gennaio, nella città di New York. Qui, infatti, malgrado il Museum of Modern Art disponesse del condizionamento e della conseguente opportunità di regolare temperatura ed umidità, il clima “rigidissimo” e “secco” della metropoli provocò “ulteriori contrazioni” nelle pitture, sicché fu necessario eseguire “nuovi interventi, seppure di minore entità, sia sul Palma, che sulla cosiddetta Fornarina di Sebastiano del Piombo”.

Si concludeva così il drammatico resoconto della mostra del 1939: una testimonianza il cui valore risiede, al di là dell'efficacia narrativa, nell'opportunità di rileggere criticamente, scardinando alcune apparenti contraddizioni, l'avversione più volte manifestata da Brandi nei confronti delle mostre d'arte antica. Si considerino, ad esempio, gli interventi che egli pubblicò sulla rivista "Ulisse" nel 1957, in quel fascicolo speciale dal titolo Difendiamo il patrimonio artistico che vide la luce proprio in seguito alla polemica scatenata dalla progettazione della suddetta Mostra del Rinascimento negli Stati Uniti[5] . In quella circostanza, mentre non mancò chi, invocando "una legge che inchiodasse in loco tutte le opere mobili", giunse persino ad auspicare "la soppressione delle mostre d'arte antica", Brandi sostenne che le uniche mostre d'arte da promuovere fossero quelle “che implicano revisione dello stato del patrimonio artistico, accertamento, restauro”[6] : un fermo proposito che lo storico dell'arte, assieme alla considerazione che “nessuna esigenza, collegata all'opera d'arte, è da anteporsi a quella della sua conservazione”[7] , ebbe modo di maturare anche grazie all'esperienza del 1939, quando il Palma, il Mantegna e il Masaccio furono condannati, come scriveva lui stesso, a “portare in eterno i segni dell'avventura americana”.

 

*Desidero ringraziare il Direttore dell'Istituto Centrale del Restauro, la dott.ssa Caterina Bon Valsassina, per avermi gentilmente concesso di accedere alla consultazione del materiale dell'Archivio relativo a questa ricerca. Ringrazio, inoltre, il responsabile dell'Archivio per la disponibilità nel favorire il mio lavoro.

[1] Brandi ricevette il mandato da Bottai in data 8 dicembre 1939. La lettera originale è conservata presso l'Archivio Centrale dello Stato, Direzione Antichità e Belle Arti, Divisione III, 1946-1955, b. 194.
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[2]Cfr. G. C. Argan, C. Brandi, Le Mostre degli antichi capolavori italiani a Chicago e New York, in "Le Arti", a. II, fase. IV, aprile-maggio 1940, pp. 270-274.
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[3]Si tratta della relazione, datata 10 dicembre 1956, compilata da Cesare Brandi e conservata presso l'Archivio dell'Istituto Centrale del Restauro, sezione "Mostre".
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[4] Il milione fu utilizzato dall'Italia per finanziare la nascita dell'Istituto Centrale del Restauro che, dunque, come ebbe modo di sottolineare Brandi in questa circostanza, dovette paradossalmente la propria attrezzatura «ad un atto di indipendenza, non già di provvidenza, nei riguardi delle opere d'arte». Si veda, in proposito, anche l'intervista a Cesare Brandi pubblicata su “Panorama” l'8 giugno 1981.
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[5]C. Brandi, Il restauro e Il problema delle esposizioni, in "Ulisse", a. XI, vol. V, fasc. n. 27, , autunno-inverno 1957, p. 1379-1382 e pp. 1383-1391.
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[6]Ibidem, p. 1389.
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[7]Ibidem, p. 1384.
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Brandi
Una foto di Cesare Brandi