Valerio Ascani Arte medievale in mostra nel 2005 L'anno che si avvia a conclusione ha rimarcato tutte le difficoltà legate all'organizzazione di grandi mostre dedicate all'arte medievale, in particolare nel nostro paese. A fronte del moltiplicarsi di iniziative, restauri, giornate di studio, creazione di siti web, esposizioni locali incentrate soprattutto su un singolo manufatto, si nota l'assottigliarsi del numero di esposizioni di ampio respiro e di raggio d'azione meno che locale. Occorre dire, come già rilevato in altre occasioni, che la stessa fenomenologia del patrimonio artistico medievale che l'Italia possiede non facilita il compito di chi intende allestire mostre di vaste dimensioni, rappresentative anche di singoli momenti della vicenda artistica medievale nella penisola o anche in una sola delle sue maggiori regioni. Questo non soltanto per la vastità della produzione e per l'enorme corpo di opere conservate, ma anche per le obiettive difficoltà logistiche che il loro spostamento (ove possibile) comporta. Gran parte delle opere che il Medioevo ha lasciato in Italia sono tuttora indissolubilmente legate al contesto originario, assai più che in altre nazioni: le sculture in funzione architettonica, le decorazioni e le pitture murali rimaste fortunatamente in situ costituiscono in percentuale una buona parte del patrimonio artistico medievale italiano e ne rappresentano anzi uno dei dati peculiari e dei motivi di interesse che spinge costantemente da secoli molti visitatori verso la penisola. A questi manufatti vanno aggiunte tipologie di opere mobili che col tempo, per motivi soprattutto di conservazione e tutela, hanno perduto la possibilità di un agevole spostamento, come la maggioranza delle grandi pitture su tavola due-trecentesche che, seppure in passato siano state impiegate talvolta in esposizioni fuori sede, sono divenute sempre più difficili da ottenere per gli organizzatori di nuove mostre, soprattutto una volta che nuove analisi o restauri ne abbiano ribadito la fragilità. Dipinti, anche di dimensioni non proibitive per un viaggio aereo o su gomma, che sono sempre più esclusi dal prestito dai maggiori musei internazionali, soprattutto europei. Ciò rende ormai impossibile attuare una completa esposizione anche sui maestri italiani del periodo gotico, come si è visto dalle importanti, inevitabili assenze nelle mostre su Duccio e, ancor più, su Giotto, negli scorsi anni. A questi ostacoli non superabili si vanno però ad aggiungere molto spesso problemi legati alle politiche culturali degli enti locali, o dei singoli istituti depositari delle opere che, a volte, nella benemerita intenzione di valorizzare il patrimonio posseduto finiscono per impedire una più ampia contestualizzazione di quelle opere e una più differenziata fruizione, da parte anche di un pubblico geograficamente e culturalmente diverso. Finanche oggetti come manoscritti, opere di oreficeria, o sculture di piccole dimensioni, per loro natura facilmente trasferibili, spesso trovano opposizioni al proprio spostamento, per motivi di conservazione o di sicurezza, e rimangono nei musei che li possiedono. A questo problema va aggiunto quello, non meno serio, rappresentato dai costi dei trasporti specializzati e delle coperture assicurative che, soprattutto in anni di possibili, quanto vigliacchi attentati criminali contro opere d'arte, hanno raggiunto cifre proibitive, sostenibili solo con l'aiuto di cordate di finanziatori. Il risultato di questa situazione sono esposizioni molto spesso incentrate su un singolo pezzo restaurato, o su un ristretto periodo di un singolo artista legato ad una particolare località, mostre in cui il preponderante aspetto di rapporto col territorio ancorché limitativo da un punto di vista culturale diventa invece motivo di orgoglio civico e di catalizzazione delle forze locali politiche ed economiche, in grado così di assicurare la copertura finanziaria e logistica dell'esposizione. Una tipologia di mostre spesso piccole, talora tuttavia non prive di interesse per lo storico dell'arte e per i visitatori, cui sempre più ci si dovrà abituare in futuro, soprattutto in Italia. Ben diversa la situazione estera, non soltanto oltre Oceano, dove il patrimonio conservato è per forza di cose interamente rescisso dal contesto originario, e dunque già in partenza facilitato allo spostamento, ma anche in una nazione come la Francia, in origine altrettanto ricca quanto l'Italia di testimonianze artistiche medievali, ma dove, soprattutto lungo tutto il diciannovesimo secolo, gran parte delle opere sacre sopravvissute alle guerre di religione e agli eccessi rivoluzionari fu rimossa dal suo originario alloggiamento e ricoverata entro le grandi strutture pubbliche di conservazione. Una mostra come La France Romane au temps des premiers Capétiens 987-1152, realizzata al Louvre nella primavera di quest'anno[1], possiede per la stessa ammissione dei suoi curatori – tra cui Danielle Gaborit-Chopin - l'ambizione di voler esemplificare l'intera produzione artistica, nelle varie tecniche, di due dei secoli più ricchi dell'arte europea, in una nazione, come la Francia, che conserva una grossa parte dei più importanti esempi a noi giunti. Seppure anche in questo caso molti contesti decorativi legati all'architettura – dai grandi portali figurati ai mosaici pavimentali – siano ancora fortunatamente intatti, e dunque inamovibili, questa selezione di opere a suo tempo rimosse e ora integralmente restaurate ed esposte in una galleria di respiro enciclopedico consente di seguire lo svolgimento di una complessa vicenda artistica, focalizzata regione per regione e tecnica per tecnica, entro sezioni integrate nell'ottimo catalogo da efficaci e sintetici capitoli introduttivi. Unico limite per l'operazione è il carattere nazionalistico dell'impostazione, che finisce per non consentire la messa in luce di tutti quei rapporti internazionali che in un periodo di viaggi, crociate, guerre e spostamenti di artisti come quello Romanico hanno costituito uno degli elementi di vitale e innovativo apporto al linguaggio artistico delle singole regioni. Regioni che, peraltro, all'epoca, lungi dall'andare a costituire una geografia politica via via centripeta, come nei secoli successivi, erano altrettanti focolai di autoctona cultura, politicamente spesso legate a forze esterne all'odierno esagono francese.Interessanti le sezioni incentrate sui ritrovamenti di scavo di manufatti dell'undicesimo secolo, che mostrano ‘trasversalmente' l'uso dei manufatti artistici nella cultura materiale dell'epoca in ambito civile, militare e religioso, mentre anche le opere provenienti dai musei sono esposte per nuclei problematici, dal culto dei santi alle crociate, dal pellegrinaggio alla cultura scientifica, che permettono di affrontare tematicamente gli aspetti più rappresentativi della vita dell'età romanica, sia pure con un mescolamento delle opere che risulta, com'è facile immaginare, disorientante ad un visitatore interessato a seguire lo sviluppo delle singole tecniche artistiche o la stessa storia del linguaggio stilistico. A questa carenza fa però in parte riscontro un'ampia sezione dedicata alle arti nelle regioni della Francia, dove viene proposta, attraverso l'accostamento delle opere, scelte peraltro solo in parte tra le più significative, e talora più tarde del limite fissato nel titolo dell'esposizione, una sintetica linea di sviluppo della vicenda artistica locale nei differenti media espressivi. Singole sezioni sono dedicate alle esportazioni artistiche conseguenti alla conquista dell'Inghilterra, al rapporto tra la monarchia plantageneta e l'abbazia reale di Saint Denis e, infine, alla nascita del capitello istoriato e allo sviluppo della tecnica degli smalti nel dodicesimo secolo. Quello che sembra di poter cogliere dall'impianto critico dell'operazione nel suo complesso è la volontà di offrire un panorama indicativo della cultura artistica nell'attuale Francia nell'XI-XII secolo, e, malgrado le semplificazioni storico-politiche contenute nell'assunto e la carenza di opere dell'XI secolo per intere regioni, emerge la rivalutazione di un periodo come quello protoromanico, spesso in passato oscurato dalle splendide realizzazioni del secolo successivo, e dalla coeva aulica produzione architettonica e artistica tedesca e italiana. Ambiti con i quali peraltro ci si aspettava di trovare indicati contatti e tangenze, anche in contesti come quello provenzale e soprattutto borgognone dove influenze e presenze esterne sono maggiormente rilevabili e finanche documentate. Malgrado le ambizioni, non siamo certo di fronte a un completo riesame, neppure per sommi capi, della produzione artistica della Francia romanica, ma questa esposizione, monumentale anche per il numero di opere esposte, ha il merito di una veste e di un'organizzazione didatticamente efficaci e di un forte richiamo mediatico, a garanzia di un buon risultato divulgativo. Per quanto riguarda l'Italia, tra le esposizioni e le celebrazioni aventi per oggetto il Medioevo artistico – nessuna di carattere generale, come si è detto –, emergono soprattutto alcune iniziative concernenti il tardo Duecento come la mostra su Cimabue al Museo Nazionale di San Matteo a Pisa e le mostre e giornate di studio arnolfiane, in Toscana e non solo, tra 2005 e 2006.La prima[2], occorre ammetterlo preliminarmente, non presentava esposte, a dispetto del titolo, le maggiori opere locali del maestro fiorentino, e questo per i motivi lamentati poc'anzi, nella fattispecie soprattutto l'inamovibilità della pala pisana di Cimabue portata per ordine di Napoleone a Parigi e oggi come ben noto al Louvre, mentre la seconda documentata opera pisana del maestro, il brano di mosaico con San Giovanni Evangelista nel catino absidale orientale del Duomo è ancor oggi al suo posto. Tuttavia, l'esposizione ha permesso di riunire le due valve di un dittico cimabuesco oggi smembrato tra la National Gallery di Londra e la Frick Collection di New York, e di porlo a confronto con i più significativi maestri operanti a Pisa nel secondo Duecento ed oltre. Se da un lato appare finanche eccessivo il ventaglio cronologico delle opere presenti, dalla Bibbia di Calci del 1168 a tavole di matrice giottesca del quarto del Trecento, queste a prima vista sin troppo variegate presenze apparivano giustificatamente motivate dai confronti con il periodo al centro dell'indagine critica dei curatori, costituito dalla produzione pisana contemporanea a Cimabue e in parte da lui direttamente o indirettamente influenzata. Produzione artistica analizzata nel saggio introduttivo di Mariagiulia Burresi e Antonino Caleca presente in catalogo e qui più ampiamente contestualizzata grazie anche a puntuali contributi sulla storia politica e culturale della città nel Duecento. Il punto di contatto tra le miniature della Bibbia di Calci e l'ambiente pittorico cittadino è dato dai brani dipinti da palazzo da Scorno e da San Michele degli Scalzi – cui va ad aggiungersi il frammento da San Pietro in Vincoli – che mostrano come gli eleganti ma romanici bizantinismi e il nascente chiaroscuro a gradazione di tinta che connotano i personaggi ospitati nelle iniziali della Bibbia di Adalberto da Volterra trovino accoglimento in pittura a Pisa intorno al finire del Millecento. Che simili testi siano stati basilari nella formazione della generazione di Giunta Pisano, sia pure attraverso la possibile mediazione di ulteriori perdute opere, appare evidente dal confronto con le opere giuntesche esposte, oltre alle celebri croci dipinte, la pala francescana pisana e il dossale vaticano di simile soggetto che in questa occasione vengono a lui ribaditi. Il confronto con la scuola lucchese berlinghieresca, cui si riferisce la croce dipinta da Fucecchio, trova giustificazione nella Madonna di sotto gli organi, non presente in mostra, attribuita al pittore lucchese, cui si correla il problema dell'icona in ambito pisano, con esempi di ambito provinciale bizantino in realtà apparsi qui slegati in assenza del loro principale referente locale. La produzione della generazione successiva s'incentra sui nomi dei Tédici, Enrico, Ugolino – forse il Maestro di San Martino – e Ranieri, dei quali è presente o evocata in mostra pressoché l'intera produzione. Qui il legame con Cimabue si fa stringente, non solo per la contemporaneità delle opere ma anche, com'è ben noto, per i rimandi che legano la Madonna col Bambino da San Martino, vertice qualitativo della pittura pisana medievale, alla pala cimabuesca della Maestà da San Francesco a Pisa, oggi al Louvre. Tale ravvicinato rapporto giunge fino alla comparsa di simili soluzioni come l'impostazione obliqua del gruppo e finanche l'archetto lobato di sapore nicoliano alla base del trono, che vanno a confermare una retrodatazione delle due opere, recentemente avanzata dalla critica[3], che appare sorretta anche dall'analisi stilistica, e che giunge a situare al 1260 circa l'opera del maestro di San Martino e a poco più tardi la pala cimabuesca. Si tratta di proposte che, a mio avviso, anche ritardate più prudentemente di un decennio, in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori in San Francesco, da cui l'opera cimabuesca proviene, e dei rapporti con le ulteriori opere del maestro fiorentino, mantengono un'innegabile validità e confermano l'importanza dei raggiungimenti della pittura pisana in un quadro più generale della pittura tardoduecentesca. L'influenza dell'opera dei pisani di questa generazione, ma ancora di Giunta, e del primo Cimabue, è evidente in pittori come Ranieri di Ugolino e nomi meno conosciuti, che la mostra s'incarica di mettere in luce più compiutamente, giungendo a un corpus di ragguardevole estensione, come Michele di Baldovino o il Maestro di Calci, dai ricordi berlinghiereschi. Il Maestro di Santa Marta sembra, invece, mostrare maggiori riferimenti fiorentini e consonanze con gli sviluppi della scuola romana, rilevati in passato ma resi meno chiari dalle persistenti incertezze cronologiche e meritevoli quindi di futuri approfondimenti. Un'ulteriore parte della mostra si occupa, con minor dettaglio della precedente, invero, degli sviluppi post-cimabueschi della scuola pisana all'inizio del Trecento e degli artisti che a Pisa lavorarono, da Giotto – anch'egli fisicamente non presente con proprie opere – e la sua bottega ai senesi come Memmo di Filippuccio, o a Deodato Orlandi, lucchese ma non sporadicamente attivo a Pisa, del quale sono presenti numerose opere su tavola. I rapporti con le altre tecniche artistiche sono documentati in primo luogo da miniature confrontabili con le opere su tavola esposte, con particolare agilità nel caso dell'ambito di Memmo di Filippuccio, mentre ineludibili sono apparsi i rapporti con la scultura, che hanno motivato la presenza di rilievi come il Redentore benedicente del 1204 da San Michele degli Scalzi od opere mobili di ambito pisanesco, confronti che, ampliati alle opere maggiori della bottega nicoliana, anche in questo caso sono di spunto per studi ulteriori. Venendo ad altre esposizioni, il caso di Arnolfo di Cambio resta emblematico delle difficoltà esposte in precedenza di organizzare in Italia grandi rassegne realmente complete su argomenti anche relativamente circoscritti, in presenza di opere non spostabili o di fronte alla produzione di un artista attivo in differenti località: si finisce per assistere all'allestimento di mostre in ciascuna delle città dove l'artista ha lavorato, quasi a una mostra per opera, molto spesso nel luogo stesso di conservazione delle singole opere. Resta il dato positivo dei restauri e degli studi effettuati per queste occasioni e, a volte, del rinnovato allestimento delle porzioni interessate dei musei che queste opere ospitano. Il settimo centenario della morte di Arnolfo, evento del quale, com'è noto, s'ignora l'anno, ma che avvenne tra il 1302 e il 1310, ha risvegliato da più parti l'interesse verso la figura di questo geniale architetto e scultore toscano, giungendo all'organizzazione, dopo le mostre e i convegni degli scorsi anni a San Giovanni Valdarno, di due ulteriori convegni internazionali e di una serie di mostre[4]. Tra le esposizioni annunciate per quest'anno, il gruppo di quelle umbre, nelle due sedi espositive di Perugia e Orvieto, e quella fiorentina, di cui sono state date interessanti anticipazioni[5]. Nel primo caso[6], si tratta di una nuova analisi delle opere arnolfiane presenti nelle due città umbre, che appaiono ristudiate e contestualizzate, soprattutto in catalogo, grazie all'apporto di storici e urbanisti, con interessanti contributi, tra gli altri di Vittorio Franchetti Pardo sulle trasformazioni urbanistiche delle città umbre nel Duecento e di Agostino Paravicini Bagliani sulle esequie e monumenti funebri dei pontefici morti fuori Roma. L'analisi della fontana arnolfiana in pede platee di Perugia è affiancata in catalogo da studi archeologici dell'area e documentari sulla fontana, sul suo contesto storico-politico e quindi sui successivi suoi smembramenti. La parte relativa ad Orvieto vede gli interessanti saggi di Raffaele Davanzo sulla chiesa di San Domenico, di Paola Refice sulla tipologia del monumento funebre con giacente e di Lucio Riccetti sulla cultura artistica contemporanea ad Arnolfo a Orvieto. La mostra perugina, presso la Galleria Nazionale dell'Umbria, era incentrata sui frammenti arnolfiani e i celebri pezzi bronzei della fontana di piazza, di cui è offerta un'ipotesi di ricostruzione di Bernardino Sperandio, non lontana da quella precedente di Santi, e di cui si forniscono le schede di restauro. Una testa di chierico dal Museo capitolare, ben nota alla critica, è dubitativamente
avvicinata alla bottega di Arnolfo, anche se la provenienza resta
quanto mai incerta. Presente anche uno splendido capitello figurato
con teste angolari da Spoleto di mano vicina a Giovanni Pisano,
oltre ad alcune statue di mano locale che, seppure influenzate
dalla geometrica essenzialità dei panneggi arnolfiani, si
dimostrano, tanto più in presenza del maestro, produzione
di basso livello qualitativo. La sezione orvietana della mostra, nella chiesa di Sant'Agostino, comprende – a corredo del monumento de Braye restaurato, ma in San Domenico – due sculture in passato ritenute parte del monumento de Braye stesso: statue acefale arnolfiane, che nel catalogo vengono però negate al complesso scolpito in San Domenico. Oltre a queste, due statue di Bonifacio VIII di pertinenza del complesso episcopale orvietano attribuite rispettivamente a Ramo di Paganello e Rubeus, e una serie di altre statue pure di provenienza locale raffiguranti la Madonna col Bambino, attribuite ad artisti presenti nel cantiere del Duomo come il Maestro Sottile o Ramo di Paganello, al quale sono date inoltre due interessanti e finemente goticizzanti sculture in legno: una Madonna col Bambino forse modello per quella marmorea sul portale centrale, e un Cristo benedicente. Produzione anteriore e isolata in questo contesto la celebre Madonna col Bambino attribuita – ma talora negata – a Coppo di Marcovaldo dalla chiesa servita di Orvieto, che compare qui con un'attribuzione a Vigoroso da Siena, che merita maggiore approfondimento. Da ultimo, sono presenti in catalogo i due disegni architettonici prototrecenteschi per la facciata del duomo di Orvieto O1 e O2, complessi progetti su cui chi scrive è più volte intervenuto, opere di cui vengono qui confermati attribuzioni e datazione. Come si vede numerosi, interessantissimi spunti in differenti direzioni, ma tutti estranei per cronologia, tecnica e ambiente artistico ad Arnolfo e al titolo della mostra, che avrebbero motivato un titolo più generale, o più semplicemente una diversa occasione di esposizione, vista anche la disponibilità sul luogo di pressoché tutte le opere in mostra. Da rallegrarsi tuttavia che l'opportunità dell'esposizione abbia permesso il restauro e la ripulitura delle opere arnolfiane, principale conseguimento dell'operazione.![]() Crocifissione , dal Messale di Saint-Père di Chartres , 1130-1140, Troyes, Méd. Mun., ms. 894, c. 113 v. ![]() Giunta Pisano, Croce dipinta detta di San Ranierino , Pisa, Museo Nazionale di S. Matteo, 1250 ca. [1] La France romane au temps des premiers
Capétiens, catalogo della mostra
(Paris 2005), Paris 2005, pp. 408, ill. [2] Cimabue a Pisa. La pittura pisana del Duecento da
Giunta a Giotto, a cura di M. Burresi, A. Caleca, catalogo
della mostra (Pisa 2005), Pisa 2005, pp. 310, ill. [4] Si tratta dei convegni Arnolfo's Moment, Settignano,
Villa I Tatti 26-27 Maggio 2005, e Arnolfo di Cambio e le città italiane
in trasformazione, Firenze-Colle di Val d'Elsa 7-10 Marzo 2006. [5] Alcuni primi risultati, conseguenti ai restauri delle
sculture e alle nuove analisi, e la notizia del riconoscimento
in sculture erratiche fiorentine di opere arnolfiane provenienti
dalla facciata di Santa Maria del Fiore sono stati forniti da E.
Neri Lusanna, Riflessioni ‘in itinere' sulle opere di Arnolfo
in restauro, al convegno Arnolfo's Moment, i cui atti
sono in corso di stampa. |