Nicola da Guardiagrele. Orafo tra Medioevo
e Rinascimento
di Gerardo de Simone
Roma, Basilica papale di S. Maria Maggiore, 29 ottobre-8 dicembre
2008
Chieti, Museo nazionale archeologico di Villa Frigeri, 17 dicembre-30
gennaio 2009
L’Aquila Museo nazionale del Castello cinquecentesco, 6 febbraio-15
marzo 2009
Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Catalogo a cura di Sante Guido, con contributi di Aldo Galli, Sante
Guido, Gina Lullo, Giuseppe Mantella, Ezio Mattiocco, Benedetta Montevecchi,
Valentino Pace, Alessandra Rodolfo, Serena Romano, Elisabeth Taburet-Delahaye,
Crispino Valenziano; TAU Editrice, 640 pp.
Nicola di Andrea di Pasquale da Guardiagrele (Chieti) è una
delle personalità più emblematiche e più fulgide
dell’autunno del Medioevo in Italia: orafo anzitutto, in tutte
le sfaccettate accezioni dell’oreficeria del tempo, ma anche
scultore, pittore, microarchitetto, capo-impresario di un’avviata
bottega familiare. Gloria artistica incontrastata della prima metà del
Quattrocento in Abruzzo, erede della nobile tradizione orafa regionale,
e in particolare della scuola di Sulmona, al punto che è assai
probabile una sua formazione presso il sulmonese Amico di Antonio di
Notar Amico, Nicola assimila e metabolizza un variegato mix di influssi ‘internazionali’,
che spaziano dalla Napoli angioino-durazzesca (e dalle propaggini anche
più lontane del Regno meridionale, di cui l’Abruzzo era
parte integrante) alla Lombardia del seminale cantiere del Duomo di
Milano, dalla Francia par excellence gotica a Venezia e Bologna
e Siena: influenze filtrate e mediate secondo modalità più spesso
ipotizzabili o variamente deducibili che documentariamente certificate,
ma non per questo meno plausibili; nel corso del terzo decennio vive
una totalizzante folgorazione ghibertiana a Firenze, che segna una
svolta radicale e senza ritorno del suo stile. Pur nell’eccezionalità della
sua figura, sia per le fortunatamente non esigue testimonianze sopravvissute
della sua arte che per le interessantissime quanto problematiche relazioni ‘di
contesto’ – che ne fanno un exemplum da manuale
dei rapporti tra ‘centro’ e ‘periferia’ nell’età del
Gotico internazionale –, dopo la prima celebrazione pubblica
alla Mostra di antica arte abruzzese a Chieti nel 1905[1] Nicola
ha goduto nel corso del XX secolo di una fortuna via via crescente
ma tutto sommato un po’ marginale al di fuori dell’ambito
locale e degli studi specialistici, per cui si è ben potuto
accogliere come un meritato risarcimento la pubblicazione nel 2005
dell’ampia monografia a cura di Antonio Cadei, ed ora la grande
mostra che, in quattro sedi successive (Roma, Chieti, L’Aquila,
Firenze), rende il dovuto omaggio ad un affascinante protagonista ‘provinciale’ del
tardogotico europeo.
Grazie in primis alla passione ed all’impegno di Sante
Guido, il corpus pressoché completo dell’opera
orafa nota di Nicola – all’appello mancando unicamente
il nodo ex-Pirri oggi ad Amiens – è oggi riunito
per la prima e forse unica volta tutto insieme: ogni singolo pezzo
appare recuperato all’antico splendore da restauri esemplari,
con un effetto di autentica rivelazione per l’occhio dello spettatore,
che non può che restare ammirato come di fronte al discoprimento
di un inatteso tesoro. La mostra è accompagnata da un monumentale
catalogo, magnificamente illustrato, che da un lato offre una mappatura
ricca e dettagliata delle opere di Nicola, dall’altro presenta
una rosa ampia e articolata di saggi, che analizzano il percorso dell’artista
dal contesto di formazione al lascito post mortem, toccando
aspetti e problemi diversi della sua differenziata produzione. Se la
monografia di Cadei aveva infatti tendenzialmente espunto dal corpus di
Nicola sculture e pitture per riconoscerlo esclusivamente come aurifex,
il catalogo odierno gli restituisce a ragion veduta quelle opere che
ne fanno un tipico esponente – come evidenzia Serena Romano – di
artista ‘universale’ della stagione tardogotica, sul tipo
di Giovannino de’ Grassi a Milano, Ghiberti a Firenze, Antonio
Baboccio da Piperno a Napoli. L’operato di Nicola come pittore è testimoniato
unicamente da una piccola, preziosa Madonna col Bambino oggi
agli Uffizi (fig. 1), inequivocabilmente firmata OPUS NICOLAI DE
GUARDIA GRELIS, definita da Aldo Galli una “trascrizione
provinciale e tutta adriatica del Gentile da Fabriano degli anni veneziani”.
Come scultore in pietra Nicola è attestato nell’ultimo
documento che lo ricorda in vita (pubblicato nel 1951), la commissione
nel 1456 di un ciborio in pietra della Maiella, adorno di due leoni
stilofori, quattro capitelli figurati e sette figure di santi, destinato
alla Cattedrale di Ascoli Piceno. Tre anni dopo i figli Antonio, Francesco
e Giacomandrea, ormai orfani, istituiscono una societas ostentante
perizia “…et super artem picturarum et omnium aliorum
operum lapideum, aureum, argenteum et ligneum atque mureum [sic]”,
segno della versatilità della bottega paterna. A Nicola scultore,
il cui profilo fu tratteggiato da Enzo Carli nel 1939 ed è in
questa sede ridefinito da Gina Lullo, possono senz’altro ascriversi,
per stringenti ragioni di stile: il gruppo dell’Incoronazione
della Vergine oggi nel museo di Guardiagrele (in origine sulla
facciata di S. Maria Maggiore, fig. 2), dai falcati ritmi ghibertiani
nei panneggi; l’Angelo annunciante e la Vergine
annunciata sul portale del Duomo di Teramo; le sei formelle con Storie
di Cristo provenienti dal cortile della casa di Teofilo Patini
a Castel di Sangro. La Lullo, che nega l’attribuzione spesso
proposta a Nicola dell’Annunciazione in origine a Tocco
Casauria ed oggi al Bargello, gli assegna però una bella Madonna
lignea del museo di Guardiagrele, (fig. 3) conosciuta come “Madonna
dell’aiuto”, che andrebbe a costituire il suo unico numero
finora noto di scultura in legno. Le sei formelle di Castel di Sangro
costituiscono uno dei nuclei nodali della discussione su Nicola e sul
cruciale ascendente ghibertiano, oggetto dello studio di Aldo Galli:
tre di esse, infatti (Adorazione dei Magi – fig. 4 –, Flagellazione, Crocifissione),
seguono da vicino i prototipi della Porta Nord del Battistero fiorentino
(fig. 6). Dal momento che tutte e sei le storie sangritane – sia
le tre ‘ghibertiane’ che le restanti – si ritrovano
assai simili nel capolavoro più noto di Nicola orafo, il paliotto
di Teramo (figg. 5 e 7), la soluzione più logica, a ragione
ribadita da Aldo Galli di contro a improbabili interpretazioni alternative
(anche recenti), è che Nicola sia l’autore anche delle
formelle in pietra, testimonianti al pari del paliotto del suo soggiorno
formativo a Firenze. La Porta Nord fu “messa in cardini” nel
1424: a ridosso di questa data va legata la cronologia fiorentina di
Nicola, le cui riprese dal capolavoro ghibertiano vengono ulteriormente
precisate e arricchite lungo tutta la susseguente produzione nicoliana
(reiterata ad esempio, nel paliotto e in varie croci, è la citazione
dell’Evangelista Giovanni) da Galli, che esclude altre influenze
toscane talora ipotizzate (del Dossale del Battista a Firenze, di quello
di S. Jacopo a Pistoia, etc., ribadite in catalogo da Valentino Pace)
ad unica eccezione della precedente porta del Battistero fiorentino,
quella di Andrea Pisano, la cui fortuna appare non meno durevole e
ramificata di quella della porta ghibertiana[2].
Nicola eseguì con ogni probabilità svariati calchi da
modelli disponibili nella bottega di Ghiberti, analogamente a quanto
ipotizzato da Krautheimer a proposito dello scultore senese Giovanni
di Turino: proprio Giovanni e Nicola compaiono, forse non a caso, in
cima alla lista degli artefici non fiorentini che Filarete nomina in
relazione all’altare del duomo di Sforzinda, ed entrambi poterono
verisimilmente conoscersi negli anni in cui Ghiberti lavorò al
fonte battesimale di Siena (1425-27).
Il paliotto argenteo eseguito per l’altare di S. Berardo a Teramo
tra il 1433 e il 1448 costituisce l’opus magnum di Nicola
(fig. 7): una “tabula de argento con tucti figuri de la storia
de lo Testamento novo con quattro Avagnelisti et quattro Ducturi con
Dio patre in mezo et con Sancto Francisco con li stimati”, come
viene ricordato in un inventario del 1482. Opera monumentale, summa di
tutte le tecniche orafe esperite nella bottega nicoliana: le formelle
combinano lamine a sbalzo e pezzi a fusione (con rifiniture a cesello
e bulino); i fondi, dorati a foglia, sono talora operati a bulino;
frapposti vi sono ventidue smalti champlevé romboidali,
traslucidi e policromi, raffiguranti Cristo, Maria, gli Apostoli e
i Profeti; altri ventisei inserti a smalto triangolari, a motivi fitomorfi,
punteggiano la cornice esterna, gli otto superiori traslucidi, i restanti
opachi. Unanime è il riconoscimento di una discrasia tra la
metà superiore del paliotto, di qualità tecnica e stilistica
più alta, e quella inferiore, mediamente più scadente,
pur nell’evidente omogeneità linguistica dell’intera
opera: la conclusione più logica – confortata dai dati
di restauro (2002) – è che si debbano postulare due fasi
esecutive, distanziate anche di anni l’una dall’altra e
gravitanti intorno alle due date di inizio e fine dei lavori, e che
Nicola, come da prassi consolidata nelle botteghe tardomedievali, sia
stato coadiuvato dai suoi assistenti.
Al di fuori dell’antependium teramano due sono le tipologie
principali di oggetti che caratterizzano la produzione di Nicola: le
croci processionali e gli ostensori. Di questi ultimi ci restano i
due capolavori del suo periodo giovanile – quello preghibertiano,
di marca internazionale, da Valentino Pace giudicato il più originale
e creativo[3] –,
l’ostensorio di Francavilla al Mare (fig. 8) e quello di Atessa,
datati rispettivamente al 1413 e al 1418. Entrambi sono due straordinarie
microarchitetture – di cui sono stati indicati come parziali
precedenti la cosiddetta “Gabbia di San Nicandro” di Nicola
Piczulo nella Cattedrale di Isernia, il tardotrecentesco reliquiario
di S. Francesco a Castelvecchio Subequo e quello eseguito da Simone
d’Aversa nel 1405 per il Duomo di Piazza Armerina –, coronate
dall’Angelus Testamenti, l’Arcangelo Michele,
e racchiudenti entro una teca preziosamente traforata una statuetta
della Vergine – dal plastico manto colorato, in voluta emulazione
di un émail en ronde-bosse – con la
lunula destinata all’ostia consacrata. Le due basi presentano
eleganti volute alternate a sbalzi e smalti, mentre assai diversa è la
conformazione del nodo: a Francavilla è globulare a spicchi
verde-azzurri, ad Atessa invece compare una microarchitettura ad arcate
ed edicole con sei placchette di smalti traslucidi (che fanno qui la
loro prima comparsa nell’opera di Nicola), raffiguranti i quattro
Evangelisti, l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata, a
comporre una sorta di polittico in miniatura (fig. 9) – corrispettivo
di una loggetta a statuette avente un lontano precedente nel calice
di Giangaleazzo Visconti nel Tesoro di Monza (1390) e che si ritrova,
via via semplificata, nei nodi delle croci di Lanciano (1422), di Guardiagrele
(1431), di S. Massimo all’Aquila (1434), di Monticchio (1436).
Le croci costituiscono le sopravvivenze più numerose e punteggiano
l’intera parabola stilistica dell’orafo abruzzese e della
sua bottega, da quella giovanile (poi riassemblata) di Roccaspinalveti
fino a quella estrema di S. Giovanni in Laterano a Roma (1451: una
commissione che segna l’acme del prestigio di Nicola): così ad
esempio la Croce di Guardiagrele del 1431 è la prima opera denunciante
la svolta ghibertiana, ancora assente nella Croce di S. Maria Maggiore
a Lanciano del 1422. Lo schema iconografico delle croci nicoliane è tendenzialmente
fedele alla tradizione centroitaliana: sul recto al Crocifisso
sono generalmente abbinati i Dolenti ai lati, la Deposizione nel sepolcro
in basso e la Resurrezione in alto, sul verso al Redentore benedicente
si affiancano gli Evangelisti o i loro simboli; nella croce di Lanciano,
destinata ad un tempio mariano (S. Maria Maggiore), sul verso trovano
posto l’Annunciazione, la Morte e l’Incoronazione della
Vergine; nella tarda Croce di Antrodoco in luogo della Deposizione
campeggia un Vesperbild (fig. 10), iconografia nordica dalla
capillare fortuna nell’Italia del Quattrocento. Il sepolcro della
Deposizione è luogo topico per le firme di Nicola: così nelle
croci di Guardiagrele e di S. Massimo a L’Aquila (1434) e in
quella conclusiva del paliotto di Teramo. La stessa tipologia della
firma di Nicola varia nel corso del tempo: in gioventù si firma
col patronimico per esteso in minuscola gotica, ma dopo aver visto
le firme di Ghiberti sulla Porta Nord e di Gentile da Fabriano sulla
pala Strozzi si firmerà più solennemente in maiuscola
gotica: “OPUS NICOLAI DE GUARDIA GRELIS”.
Il settore degli smalti all’interno della produzione di Nicola
riveste un particolare interesse, sia per l’estrema varietà tecnica
via via sperimentata – il dettaglio di tutte le tecniche impiegate
può attingersi dai saggi di Sante Guido e Giuseppe Mantella – sia
perché in questo campo Nicola pare aver agito da supervisore
piuttosto che da esecutore diretto: la parabola stilistica degli smalti
segue così un percorso sostanzialmente indipendente rispetto
a quello degli sbalzi metallici. Se i primi due reperti nicoliani oggi
noti, i nodi di Roccaspinalveti e di Amiens, mostrano inserti champlevés a
goccia in linea con la tradizione locale (il contesto dell’oreficeria
abruzzese è ricostruito in catalogo dallo specialista Ezio Mattiocco),
nell’ostensorio di Atessa si registra l’unica occorrenza
nell’arte di Nicola di smalti a filigrana, di probabile derivazione
adriatico-veneziana, sulle parastine della teca. Gli smalti traslucidi
sul nodo, invece, appaiono strettamente imparentati ai modi del principale
pittore attivo in Abruzzo all’inizio del Quattrocento, l’anonimo
autore del trittico di Beffi (oggi nel Museo Nazionale d’Abruzzo).
Il nesso tra alcuni smalti nicoliani e il Maestro di Beffi è stato
intuito e studiato, in vari contributi culminanti in quello nell’odierno
catalogo – occasione per fare il punto su alcune vicende nodali
della committenza artistica in Abruzzo nel primo ‘400, ruotante
intorno alle famiglie più potenti quali i da Celano, i Caldora,
i Cantelmo, gli Acquaviva –, da Serena Romano, che ha ipotizzato
che il pittore abbia materialmente fornito i disegni dei traslucidi
di Atessa e della Croce di Lanciano del 1422. All’evidenza figurativa
degli accostamenti (figg. 9 e 11)[4] si
aggiungono indizi storici non secondari: nel 1462 all’orafo subentrato
al defunto Nicola nella commissione per la croce di S. Biagio all’Aquila
si chiede di imitare quella in S. Silvestro all’Aquila, oggi
perduta e verisimilmente spettante a Nicola; nella stessa S. Silvestro
il Maestro di Beffi aveva lasciato il suo più ampio e importante
ciclo di affreschi. Un’altra croce perduta di Nicola era stata
eseguita nel 1447 per S. Maria di Paganica, chiesa da cui proviene
un’altra tavola del pittore; il Messale Orsini di Manoppello,
miniato dal Maestro di Beffi tra 1401 e 1406, fu eseguito per S. Francesco
a Guardiagrele.
Morto il Maestro di Beffi nel corso degli anni venti, i traslucidi
che ritroviamo nel paliotto teramano mostrano altre ascendenze stilistiche
(pur essendo gli artefici gli stessi, interni alla bottega di Nicola),
apparentandosi ad esempio secondo Romano alle formelle con Apostoli
e Profeti scolpite da Alberto da Campione per S. Petronio a Bologna,
dunque ad una delle fonti seminali – la cultura dei maestri ‘campionesi’ irraggiante
dal cantiere del Duomo milanese – della formazione di Nicola.
A partire dalla Croce di Guardiagrele del 1431 fa la sua comparsa nel
corpus nicoliano una nuova tipologia di smalto, a ragione lodata da
Romano per la sua bellezza e raffinatezza: smalti risparmiati su fondo
blu notte – che prima dei restauri apparivano neri, venendo così spesso
in passato equivocati come nielli –, prevalentemente a motivi
floreali ma talora con inserti figurali (fig. 12). Se un lontano precedente
in Abruzzo può rintracciarsi nel trecentesco calice di Atri,
Nicola lo arricchisce di un aggiornamento ‘internazionale’,
evidente nel gusto dei roseti e dei ‘millefiori’ (da
confrontare con gli esempi pittorici di Stefano da Verona e Gentile
da Fabriano, ma anche con tappezzerie e stoffe transalpine): una “flessione
araldica e ornamentale” tanto più notevole in Nicola in
quanto “inesistente, per tecnica e per gusto, di tutto ciò che
si conosce di Ghiberti” (Romano), vale a dire nel suo incontrastato
nume tutelare, a queste date.
1 Si ricordi in
aggiunta almeno la Mostra dell’oreficeria sacra abruzzese,
sempre a Chieti nel 1950.
2
Così ad
esempio per l’Annunciazione nel paliotto di Teramo, Nicola
attinge ad Andrea Pisano quanto all’Angelo annunciante e
a Ghiberto quanto alla Vergine Annunciata.
3 “…allineandosi
a Ghiberti e divenendone un epigono in terra d’Abruzzo, Nicola
venne a perdere quella magmatica grandezza di artista, policentrico
e individuale allo stesso tempo, quale ce lo mostrano le sue opere
precedenti” (p. 157).
4
Romano sottolinea il “disegno acuto, bello, miniaturizzato
ma perfetto” degli
smalti di Atessa, e insieme la tavolozza limitata – verde
petrolio, bordeaux, giallo, ocra – e satura, due aspetti
in sintonia profonda con il linguaggio del Maestro di Beffi.

1. Nicola da Guardiagrele, Madonna col Bambino, tempera su tavola, Firenze, Uffizi

2. Nicola da Guardiagrele, Incoronazione della Vergine, scultura in pietra, Guardiagrele, facciata di S. Maria Maggiore (oggi nell’annesso Museo)

S3. Nicola da Guardiagrele, “Madonna dell’aiuto”, scultura lignea, Guardiagrele, Museo di S. Maria Maggiore

4. Nicola da Guardiagrele, Adorazione dei Magi, formella in pietra (da Castel di Sangro), Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

5. Nicola da Guardiagrele, Adorazione dei Magi, particolare della fig. 7

6. Lorenzo Ghiberti, Adorazione dei Magi, scomparto della Porta Nord, 1403-24, Firenze, Battistero

7. Nicola da Guardiagrele, Antependium, 1433-48, cm 148 x 245, Teramo, Cattedrale di S. Berardo

8. Nicola da Guardiagrele, Ostensorio eucaristico, 1413, h 54 cm, Francavilla al Mare, S. Maria Maggiore

9. Nicola da Guardiagrele, Ostensorio eucaristico (part.), 1418, h 50 cm, Atessa, S. Leucio

10. Nicola da Guardiagrele, Vesperbild, part. della Croce processionale di Antrodoco, Rieti, Museo Diocesano

11. Maestro di Beffi, Incoronazione della Vergine, miniatura del Messale Acquaviva, Cleveland, Museum of Art

12. Nicola da Guardiagrele, S. Matteo Evangelista, part. della Croce di S. Massimo, 1434, L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo
Le magiche metamorfosi del pastello: “Le mystère et l'éclat” al Musée d’Orsay
di Chiara Savettieri
In una lettera del 16 agosto 1898, indirizzata ad André Mellerio, Odilon Redon scrive: « L’art suggestif tient beaucoup des incitations de la matière elle-même sur l’artiste […] la matière révèle des secrets, elle a son génie ; c’est par elle que l’oracle parlera ». La materia di cui si serve l’artista – sottolinea Redon – ha in sé infinite potenzialità espressive; può pertanto ispirare il gesto creativo. Questa riflessione sull’intrinseco valore formale dei materiali non può non richiamarci alla memoria le ispirate pagine del capitolo Les formes dans la matière, contenuto ne La vie des Formes, laddove Henri Focillon medita sulla “destinée”, ovverosia sulla “vocation formelle” delle materie. Se un dato materiale, e di conseguenza una data tecnica, contiene delle possibilità formali, un artista li sceglierà in base alla loro “affinità” col proprio obiettivo estetico. Il che vale per i singoli artisti, ma a maggior ragione per intere epoche della storia dell’arte, che hanno privilegiato determinati materiali e determinate tecniche piuttosto che altre: il motivo risiede non solo nei contesti e nelle condizioni sociali, nonché materiali, in cui versa di volta in volta la produzione artistica, ma anche nella rispondenza tra una formalità intrinseca della materia scelta e un determinato orientamento estetico - Kunstwollen diremmo con Riegl - epocale per l’appunto. Ecco perché risulta estremamente intrigante seguire la storia di un materiale e di una tecnica: la sua nascita, la sua vita, la sua morte, a cui può seguire – anche secoli dopo – una rinascita. Una storia a un tempo materiale e formale, una storia multiforme, i cui singoli tasselli sono costituiti dal contributo personale di ogni artista.
Per questi motivi organizzare una mostra su una tecnica artistica è un’impresa stimolante, ma anche delicata: significa concentrarsi su un tema complesso e variegato, che implica a monte una ricerca congiunta sulla storia delle tecniche e sulla storia dell’arte, sulle correnti artistiche in generale e sui singoli artisti in particolare, facendo interagire l’esame della “materialità” dell’opera con la sua identità formale. Significa, del resto, rinunciare al clamore di quegli argomenti “facili”, dai titoli accattivanti, fatti apposta per richiamare grandi masse di visitatori, la cui affluenza va a rimpinguare le casse del museo e della casa editrice del catalogo annesso.
Questo lungo preambolo mi permette di introdurre la bella mostra consacrata al pastello nel XIX secolo che si tiene al Musée d’Orsay a Parigi sino al 4 gennaio: Le mystère et l'éclat. Pastels du musée d'Orsay. Una mostra intelligente che – mettendo al bando prestiti costosi, oltre che spesso imprudenti, da musei o collezioni distanti migliaia di chilometri – sfrutta le proprie stesse risorse, trattandosi, in effetti, unicamente di pastelli appartenenti all’Orsay. Una mostra raffinata, che assicura allo spettatore non pochi momenti di puro godimento, in cui piacere dell’occhio e piacere dello spirito si congiungono, perché si è tanto ammaliati dal fulgore cromatico quanto intrigati dal rapporto indissolubile che lega materia-tecnica-forma.
Certo, al solo nominare la parola “pastello”, la memoria vola direttamente ai sofisticati ritratti di Maurice Quentin de La Tour, prodigiosi per nitidezza al limite del trompe-l’oeil, o a quelli vaporosi e delicati della nostra Rosalba Carriera. Che il XVIII secolo, col trionfo del partito del colore su quello del disegno e con l’affermarsi di un’estetica sensista, veda il trionfo del pastello appare del tutto naturale, tenuto conto che si tratta di una tecnica appartenente sì alle arti grafiche, ma che ingloba in sé il colore e che, a differenza del disegno, non circoscrive e delimita nettamente le forme, al contrario le apre allo spazio, smussandone le asperità, facilitando la fusione di piani e masse. Va da sé che invece la cultura neoclassica, volta a idolatrare le forme statuarie dell’antichità e a ripristinare la priorità del disegno avrebbe chiuso, seppure momentaneamente, le porte al pastello. Solo momentaneamente. Infatti, il più correggesco degli artisti neoclassici francesi, Prud’hon, utilizzerà questa tecnica e così come il colorista romantico per eccellenza Delacroix, per il quale – com’è noto – l’opera doveva costituire una festa per gli occhi. Si riapre così un nuovo e ricco capitolo nella storia di questa tecnica, che la mostra all’Orsay illustra con una grande messe di opere. La presenza nella prima sala di pastelli del XVIII secolo, tra cui uno di Rosalba Carriera, pone l’accento sull’insostituibile e fondamentale precedente settecentesco, al quale, bene o male, i pastellisti successivi guarderanno. Così non fu un caso che alla prima esposizione della Società dei pastellisti francesi nel 1885, fu presentata anche una sezione retrospettiva consacrata al '700. Un interesse, quello per l’arte dell’epoca dei Lumi, di cui si erano già fatti promotori i fratelli de Goncourt. Gli autori di Manette Salomon, recensendo il Salon del 1852, invocavano Maurice Quentin de La Tour, delusi com’erano dei pastelli contemporanei che vi erano presentati. Ma proprio dalla metà del secolo, come rivela la mostra dell’Orsay, il pastello avrebbe avuto una nuova vita: laddove si cercheranno effetti di spontaneità, freschezza, bagliori, iridescenze - il contrario dell’arte accademica combattuta dalle punte più avanzate della ricerca artistica europea - il pastello sarà allora un fedele compagno di lavoro. La presentazione di due pastelli di artisti del XX secolo, Aurélie Nemours e Sam Szafran, sempre nella prima sala, fa intravedere fin dove e fino a quando l’uso del pastello si è spinto.
Dai paesaggisti come Boudin, che lo utilizza per cogliere l’incanto di particolari effetti atmosferici, a naturalisti come Millet, che grazie al pastello infonde un’aura dolce e bucolica alle sue scene rurali, da Manet a Degas, fino ad arrivare ai simbolisti e a Odilon Redon, il pastello vive, come una sorta di Zelig, di vite sempre diverse. Questi artisti, ciascuno a suo modo, risvegliano e sfruttano le potenzialità insite nel medium: potenzialità che la mostra rivela essere innumerevoli. Perché se alcuni – Boudin, Monet – si servono del pastello per fissare un fenomeno istantaneo di luce e di colore (ad esempio i baluginii di un sole calante), altri – come Helleu o Lévy – lo utilizzano per immortalare con estrema raffinatezza, in una dimensione sospesa, la bellezza di dame dell’epoca dalle elegantissime e scintillanti toilettes. Altri ancora, come Redon, puntano agli effetti di flou, d’indeterminazione del pastello per evocare spazi lontani, enigmatici e indefiniti. Dunque, il pastello è ad un tempo sinonimo di luce e di mistero: ecco allora che il titolo della mostra “Le mystère et l’éclat” appare del tutto giustificato.
Va detto, d’altro canto, che il pastello, a differenza di altre tecniche, permette all’artista di cambiare, correggere, aggiustare all’infinito un motivo, che conserva sempre e comunque un aspetto d’immediatezza e vivacità. L’esigenza di freschezza e concisione spinse, ad esempio, Manet ad accostarsi a questa tecnica, che gli consentiva di integrare sinteticamente il disegno nel colore e nello stesso tempo di reintervenire nelle zone già realizzate, senza aspettare, come imponeva invece la pittura a olio, il tempo necessario affinché queste si seccassero. Tra i vari capolavori presenti in mostra, primeggia il Ritratto della giovane donna dagli occhi blu (1877-1878, fig. 1): una sorta di apparizione spettrale, che irradia un riverbero continuo, punteggiato dal blu intenso degli occhi e dal rosso vermiglio delle labbra. Il fondo è trattato con bianchi opachi a cui sono aggiunte ombre grigie o colorate: questa tessitura sofisticata imprigiona la luce che sembra, per l’appunto, emanare dal personaggio.
La possibilità di ritoccare immediatamente il motivo senza tempi di attesa fece di questa tecnica lo strumento espressivo prediletto di un perfezionista come Degas, perennemente insoddisfatto del suo lavoro. L’artista è arrivato anche a servirsi delle sottilissime e trasparenti carte utilizzate per i progetti architettonici, perché gli permettevano di ricalcare i tratti che intendeva conservare di un dato motivo e di correggere quegli elementi che lo lasciavano inappagato.
Degas ha svelato nuove potenzialità espressive del pastello. Al di là dei soggetti tipicamente degasiani (le ballerine, le donne impegnate nella loro toilette etc.), dei suoi audaci tagli e delle sue moderne inquadrature, quel che colpisce di questi fogli spettacolari sono i folgoranti effetti cromatici provocati dalla sovrapposizione ed accostamento, e dunque fusione ottica, di striature verticali, come zebrature, di colori diversi, spesso complementari. Sovente l’artista sovrappone un tono ad un altro, facendo in modo tale da non coprire totalmente, ma anzi da lasciare intravedere lo strato inferiore di colore: ne viene fuori una tessitura densa e mobilissima, le cui venature iridescenti sfaldano la forma. Degas aveva realizzato, alla fine degli anni ’60, anche una sorprendente serie di pastelli raffiguranti piccoli paesaggi (fig. 2), soggetto poco ricorrente nella sua produzione: sorprendente perché, semplificando fino all’estremo la composizione e valorizzando al massimo le potenzialità flou del pastello, l’artista giunge alle soglie dell’astrazione. In quest’aspirazione a cogliere l’infinito e l’indeterminato, egli mostra in questi fogli una sensibilità non troppo distante da quella di Turner.
L’indeterminato costituisce la chiave di lettura di un altro grande pastellista, Odilon Redon. E in effetti il pastello si adattava perfettamente a un’arte che, come diceva lo stesso artista, deve essere soprattutto una “irradiation des choses pour le rêve” e che eleva il mistero ad obiettivo supremo. Nei suoi pastelli la materia cromatica “polverizzata”, caratteristica di questa tecnica, diventa protagonista assoluta: le forme perdono sovente la loro riconoscibilità, l’indistinto e il vago predominano ed esercitano sullo sguardo una misteriosa forza ipnotica.
Oltre a Redon, la mostra comprende un ricco capitolo su artisti riconducibili alla corrente simbolista. Nei ritratti essi mirano non tanto alla somiglianza col modello, come nel XVIII secolo, quanto a suggerire il profondo mistero dell’anima umana, la fragilità dell’essere: sguardi sfuggenti o persi nel vuoto, attitudini ambigue ed incerte. Il caso di Helleu è significativo: dietro l’eleganza della donna ritratta (fig. 3), si nasconde, come sottolinea Jean-David Jumeau-Lafond, una ricerca sull’umanità più profonda di quanto potrebbe apparire di primo acchito. I tratti rapidi costruiscono la figura in una dimensione d’instabilità, mentre gli audaci punti di vista infondono un forte senso di vertigine alla rappresentazione. Di grande interesse sono anche i pastelli di Lucien Lévy-Dhurmer: ispirato dall’indeterminazione della musica, l’artista immerge in una sorta di nebbia le forme semplificate di alcuni suoi pastelli dai titoli musicali; certe sue figure enigmatiche, come Mystère (1895, fig. 4) o Silence (1896), si distinguono per l’estrema sobrietà dei mezzi e per la lucentezza dei fondi notturni vibranti di bagliori metallici, prodotti grazie all’inserzione di particelle d’oro o argento. Atmosfere sospese, silenzi misteriosi, apparizioni ectoplasmatiche: ecco il mondo generato da questo straordinario artista.
Anche nei paesaggi di ambito simbolista il pastello gioca un ruolo importante. Sotto la luminosità crepuscolare di un cielo colmo di nubi, degli uomini avanzano, chinati sotto il peso dei covoni. Le vibranti striature del pastello saldano in un unico essere i personaggi e i loro carichi: si tratta di un commovente pastello di Segantini in cui il duro lavoro dei campi è trasformato in simbolo di un dolore universale che congiunge uomo e natura. L’incanto della notte, l’indecisione del crepuscolo, risvegliati da luci arcane: ecco i pastelli notturni di Jozsef Rippi-Ronai e di William Degouve de Nuncques.
Ma questi non sono che pochi esempi del folto gruppo di opere presentate in mostra. Un solo protagonista, il pastello, ma molteplici, infiniti i modi di maneggiarlo, utilizzarlo, mescolarne le tinte. Inaspettatamente numerose sono le vite di quella magica polvere colorata che Baudelaire, riferendosi a Boudin, paragonava a “une boisson capiteuse” o all’“éloquence de l’opium”.

Fig. 1. Edouard Manet, Giovane donna dagli occhi blu, 1877-1878

Fig. 2. Edgard Degas, Falesie in riva al mare, 1896

Fig. 3. Paul César Helleu, Ritratto di Madame Paul Helleu, 1894

Fig. 4. Lucien Lévy-Dhurmer, Donna con medaglia detta anche Mistero, 1896
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