Ann M. Roberts, Dominican Women and Renaissance Art. The Convent of San Domenico of Pisa, Ashgate 2008, pp. 390, £ 60

di Linda Pisani

   Èmerito degli studi di Ann Roberts, anticipati alcuni anni addietro in un saggio (Chiara Gambacorta of Pisa as patroness of the Arts, in Creative Women in Medieval and Early Modern Italy: A Religious and Artistic Renaissance,  a cura di E. A. Matter e J. Coakley, Philadelphia 1994, pp.120-154), ed ora riassunti in un volume, l’aver calamitato l’attenzione del pubblico internazionale sull’importanza storica, assolutamente non provinciale, del monastero di clausura femminile di San Domenico a Pisa. Oggi, infatti, è assai difficile intuire il ruolo centrale svolto, fra XIV e XV secolo, da tale comunità in relazione al movimento dell’Osservanza domenicana: ciò che rimane degli ambienti del convento è da tempo trasformato in esercizi commerciali, e, l’annessa, piccola chiesa, affacciata su una delle vie più centrali della città, ma spesso chiusa al pubblico, si nota a fatica, a causa dell’aspetto volutamente dimesso della facciata (fig. 1).
Ubicato in Corso Italia (l’antica Via San Gilio), l’edificio - ancor oggi consacrato - è da alcuni anni affidato all’ordine dei Cavalieri di Malta che utilizzano i locali dell’ex coro delle monache per le proprie riunioni o, più saltuariamente, per concerti e piccole mostre. Le suore domenicane, dopo i bombardamenti subiti dall’edificio durante l’ultimo conflitto mondiale, hanno invece abbandonato la loro sede storica per trasferirsi nel monastero di San Domenico Nuovo (al n. 26 di Via della Faggiola), portando con sé, per preservarne il culto, le reliquie e le opere d’arte di maggior valore per la devozione popolare che erano sopravvissute in chiesa anche dopo le soppressioni napoleoniche e post unitarie. 
   Il convento fu fondato soltanto alla fine del XIV secolo, dunque relativamente tardi rispetto alla sede pisana dei frati dello stesso ordine - il prestigioso monastero di Santa Caterina - e nacque per volere di Chiara Gambacorti. Fonte preziosa sulle sue vicende storiche resta il volume dell’erudito pisano  Nicola Zucchelli (La Beata Chiara Gambacorti, la chiesa e il convento di San Domenico a Pisa, Pisa 1914), che rende conto di molte indagini d’archivio. Poiché l’edificio, le opere d’arte che gli appartengono ed anche lo stile di vita che vi si condusse sono fortemente legati alla personalità della Gambacorti, occorrerà spendere qualche parola sulla sua biografia, centrale, del resto, anche per il libro della Roberts. Da fanciulla, Chiara era nota come Tora, forse diminuitivo di Teodora, ed apparteneva alla potente famiglia mercantile dei Gambacorti, che nel Trecento divennero per due volte signori di Pisa. Tora nacque probabilmente a Firenze nel 1362 durante il bando di suo padre Pietro. Riammesso in patria, per irrobustire la sua posizione politico-sociale, il Gambacorti la dette in sposa, ancora bambina, ad un nobile pisano di nome Simone Massa. Tora rimase però vedova soltanto tre anni dopo, appena quindicenne, e alla volontà paterna, che avrebbe voluto per lei un nuovo matrimonio, preferì l’esempio di Santa Caterina da Siena, incontrata a Pisa nel 1375. La giovane decise dunque, pur fortemente osteggiata dalla famiglia, di unirsi alla comunità monastica domenicana del convento pisano di Santa Croce in Fossabanda, incoraggiata dalla stessa Caterina con la quale intrecciò un fitto epistolario. Fra alterne vicende (incluso il rapimento dal monastero), la ragazza riuscì a prendere i voti col nome di suor Chiara e presto, valutata la nuova situazione anche dal punto di vista politico, il padre accettò il suo stato. Nel 1377 Pietro accolse a Livorno il papa Gregorio XI, che da Avignone, su incitamento di Caterina Benincasa, stava ritornando stabilmente a Roma, e poco dopo finanziò la costruzione di un nuovo monastero per la figlia, dedicato a san Domenico. Dodici anni dopo, quando Chiara, a soli trentatrè anni, era ormai diventata badessa di quel monastero, Pietro Gambacorti ed i suoi figli maschi caddero vittima di una congiura fomentata dai Visconti di Milano. Erano anni difficili per la città toscana, ormai lontana dai fasti dei secoli precedenti. Nel 1398 Pisa veniva venduta dal tiranno Gherardo d’Appiano al signore di Milano Gian Galeazzo Visconti, e poco dopo, nel 1406, veniva conquistata da Firenze, destinata a dominarla fino al 1494. Chiara usò le ricchezze  dei Gambacorti per fare del convento  anche un punto di accoglienza per ogni sorta di bisognosi, comprese, quando lo chiesero, le donne della famiglia dei d’Appiano, acerrima nemica dei Gambacorti. Le sue consorelle la acclamarono santa già in punto di morte, mentre il culto come beata fu confermato dalla Chiesa soltanto nel 1830.
   Del convento pisano suor Chiara fece però soprattutto un centro di diffusione del movimento riformatore dell’Ordine: il suo monastero fu tra i primi a seguire le linee guida dell’Osservanza promossa da Raimondo da Capua e Giovanni Dominici (che per un periodo fu lettore nello studio pisano di Santa Caterina) e divenne modello di vita per altre case femminili di nuova fondazione, come il convento di San Pietro Martire a Firenze o quello di San Silvestro di Pisa a Genova. Il vastissimo fenomeno dell'Osservanza, moto di riforma verificatosi all'interno di vari Ordini religiosi della Chiesa occidentale, divenne infatti un aspetto importante della vita spirituale degli anni intorno al 1400. Il termine ‘Osservanza’ alludeva alla tendenza caratterizzante dei promotori di questo movimento, cioè la observantia ad normam Regulae o la stricta observantia regularis, vale a dire la reazione contro la decadenza o contro le attenuazioni con dispense papali a norme qualificanti della Regola. L'Osservanza si configurò diversamente nei vari Ordini religiosi, ma le tendenze principali del movimento si riferirono ovunque soprattutto alla disciplina interna che avrebbe dovuto improntare l’esistenza dei religiosi in materia di povertà e vita comune. Una caratteristica emergente fu il radicalismo con cui si voleva rivivere l'esperienza delle origini: la clausura, la povertà, l'ascesi, la meditazione e, a volte, persino l'opposizione agli studi, considerati pericolosi per l'umiltà e l'obbedienza. Celebre è la polemica del Dominici con Coluccio Salutati, nella Regola del governo di cura familiare, in cui , nel 1401, è formulata la condanna degli aspetti della nascente mentalità umanistica, ritenuta paganeggiante.
   Il volume pubblicato dalla Roberts si concentra sul primo secolo dell’esistenza del monastero: dalla fondazione, avvenuta nel 1382, all’ampliamento promosso dalle badesse Chiara Gambacorti (1395-1420) e Maria Mancini (1420-1433), fino al completamento della prima campagna decorativa degli ambienti del monastero e degli altari della chiesa, conclusasi verso la fine del Quattrocento.
Il testo è suddiviso in sette capitoli, agili e ben illustrati, ed è corredato da una ricca appendice documentaria in cui sono utilmente trascritti anche tutti gli inventari ottocenteschi dei beni del convento. Linee guida e punti di forza nel testo della Roberts sono l’esame della figura della beata Chiara, intesa sia come religiosa sia come committente di opere d’arte, e la ricostruzione del patrimonio figurativo del monastero e chiesa di San Domenico considerato in relazione con la spiritualità delle monache. Per il primo aspetto risulta importante la ricostruzione del sepolcro della beata, mentre per il secondo l’attenzione si concentra soprattutto sull’iconografia dei dipinti che un tempo adornavano il monastero.
   Della Gambacorti viene messa giustamente in rilievo la ricerca di una santità lontana dagli estremismi, e la figura che, sebbene austera, non fece soltanto della severità il fulcro della propria vita spirituale. Leggendo le pagine della Roberts resta infatti impresso il circuito di rinnovata spiritualità, in cui Chiara, che può vantare come mentori santa Caterina, il beato Dominici e Alfonso Pecha de Vadaterra (confessore di santa Brigida di Svezia ed autore del Liber Celestis Revelationum che ne divulgava le visioni mistiche), risulta essere inserita. La badessa si mostra anche piuttosto illuminata dato che, pur aderendo al movimento osservante, comprende ed incoraggia lo studio delle Sacre Scritture da parte delle monache e si preoccupa di cercare finanziamenti, che ottiene dal mercante pratese Francesco Datini,  non soltanto per l’ampliamento del convento (realizzato a partire dal 1395), ma anche per la carta di cui le domenicane necessitavano per trascrivere i testi sacri. Appare certo infatti che presso il convento fosse sorto uno scriptorium, mentre risulta plausibile che vi fosse anche un centro di elaborazione di miniature.
   Se il capitolo dedicato dalla studiosa all’analisi della struttura architettonica del monastero e della sua chiesa mette ben in luce come la scelta dell’ubicazione nel quartiere di Kinzica sia condizionata dai legami familiari della Gambacorti e come l’architettura (fig. 2), atipica fra gli edifici pisani, sia il riflesso degli ideali dell’Osservanza (per la struttura con una chiesa doppia, comprensiva del cosiddetto coro delle monache collegato alla chiesa dei laici soltanto da due grate, e per la facciata disadorna), ancor più approfondita è la disamina del sepolcro della beata e degli aspetti di devozione e propaganda religiosa ad esso collegati. Poco dopo la scomparsa della badessa, nel 1420, il suo corpo fu tumulato ai piedi dell’altare nella chiesa interna; la tomba terragna venne chiusa con una lastra marmorea recante l’effigie di Chiara con in mano un giglio e racchiusa da un baldacchino goticheggiante dai cui pennacchi si affacciano due angeli adoranti (fig. 3). Credo che l’autrice abbia ragione nel confrontare questo rilievo, almeno per l’impaginazione ancora fortemente compromessa con modi gotici, e per  la solennità dell’immagine, con esempi pisani di inizio secolo, come una lastra tombale nella chiesa pisana di San Francesco, cui si potrebbero aggiungere anche altre occorrenze tardotrecentesche, come le tombe dell’orefice Domenico di Ranieri e dell’arciprete Ranieri da Ripafratta, entrambe nel Battistero pisano, oltre a quella, segnalata da Roberto Paolo Ciardi (Scultura a Pisa tra Quattro e Seicento, a cura di Idem, L. Tongiorgi, C. Casini, Pisa 1987, p. 17 e nota 45), di Martino Coscia, oggi al Louvre, scolpita nel primo Quattrocento per la chiesa pisana di Santa Caterina. Una notizia documentaria, già ben nota, ci informa che uno scalpellino di nome Giovanni rese vari servigi al monastero delle terziarie domenicane nel periodo della scomparsa della badessa, ma finora qualsiasi tentativo di riferirgli la realizzazione del rilievo sepolcrale o di farne una figura storicamente individuabile deve rimanere confinato nel limbo delle ipotesi. D’altra parte, come evidenzia la Roberts, presentare la beata pisana semplicemente con un giglio in mano sembra anche un’allusione al suo legame con Caterina Benincasa, tradizionalmente identificata da quell’attributo. Come riferisce la stessa studiosa, facendo tesoro delle fonti manoscritte conservate presso l’archivio diocesano di Pisa (specie i preziosi appunti del canonico settecentesco Ranieri Zucchelli, che cita, a sua volta, un liber memorialis della fine del XVI secolo), nel 1432, tredici anni dopo la scomparsa della Gambacorti e in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione del monastero, il suo corpo fu collocato in una cassa di cipresso e la sua lapide venne posta in una nicchia a cornu evangeli dell’altar maggiore decorata ad affresco con la raffigurazione della Crocifissione a cui assistono san Domenico ed una piccola monaca beata, nella quale ab antiquo viene indicata un’effigie della stessa Chiara. In fondo al coro delle monache, sulla parete sinistra, si staglia infatti ancor oggi un arcosolio con, nella parete di fondo, un’immagine della Crocifissione, e nell’intradosso e nella fronte dell’arco i tredici busti clipeati di Cristo e degli apostoli (figg. 5-7). La struttura appare molto tradizionale e simile a quella delle tombe ad arcosolio che nel corso del XIV secolo si potevano facilmente incontrare nei cimiteri italiani, come, per fare un esempio geograficamente prossimo, una tomba – anch’essa decorata da busti di profeti reggicartiglio inseriti entro clipei – nel cimitero di Santa Caterina nel chiostro della basilica lucchese di San Frediano. Nel 1828, alcuni esperti di belle arti, fra cui Carlo Lasinio, convocati dall’arcivescovo Ranieri Alliata, si recarono nella chiesa di San Domenico per un sopralluogo. Dalla loro relazione, citata nel volume della Roberts, si evince con certezza che, allora, lastra e affresco costituivano un unicum. Il bassorilievo (88 x 234 cm) era appoggiato sulla mensola interna dell’arcosolio (65 x 238), sporgendo da esso di diversi centimetri. Posso aggiungere che la situazione era rimasta pressoché invariata più di trent’anni dopo, quando il pittore pisano Annibale Marianini descriveva una “lunetta a fresco… Cristo in Croce con le Marie, san Giovanni, san Domenico, la beata Chiara. Nell’archivolto in tredici formelle centinate Cristo e li Apostoli. Contiene la tavola di marmo che chiude il corpo della Beata Chiara fondatrice col ritratto in bassorilievo opera del Trecento assai bene conservata” (cfr. A. Marianini, Inventario dei Beni artistici nel compartimento di Pisa. 1860-1863,, a cura di M.G. Burresi, Pontedera 2008, p. 73). D’altronde, si può ancora notare come la lunga epigrafe (Hic jacet devotissima religiosa soror clara vita et miraculis gloriosa Priorissa, atque fundatrix huius monasterij filia olim magnifici domini Petri de Gambacortis), correndo tutt’intorno al bordo esterno della lastra, renda difficile immaginare che quest’ultima fosse stata concepita per essere appoggiata al muro sotto l’affresco, e inoltre, come mi fa notare Gerardo de Simone, proprio all’inizio del Quattrocento fra i sepolcri di monache si incontrano esempi con lastre incassate e sporgenti da arcosoli, probabilmente concepiti quasi come altari (fig. 4). Un discorso a parte merita la scelta del pittore, giustamente identificato da Mariagiulia Burresi (Affreschi medievali pisani, Pisa 2003, p. 138) in Turino Vanni. Si tratta di un artista, come hanno chiarito gli studi di Antonino Caleca, non innovativo, ma molto prolifico ed altrettanto longevo. Nel 1433, anno in cui dovette esser realizzato l’affresco, aveva ormai fatto ritorno a Pisa, dopo un lungo soggiorno in Liguria. Rilievo, decorazione ad affresco e struttura del sepolcro rispondono dunque ad una tipologia di retaggio ancora trecentesco, piuttosto arcaicizzante se pensiamo che a Pisa, già da alcuni anni, Masaccio aveva portato a termine un polittico tanto moderno come quello del Carmine, oggi smembrato fra varie sedi museali.
    Se il sepolcro fu approntato dopo la scomparsa della badessa, sappiamo peraltro che lei stessa aveva fortemente incoraggiato, durante gli anni del suo priorato, la decorazione del monastero pisano. Come ha precisato l’indagine della Roberts, sono molteplici le committenze che si possono riferire al periodo in cui Chiara fu alla guida del convento: fra queste si segnalano molte opere oggi nel Museo Nazionale di San Matteo, come la tavola con lo Sposalizio mistico di Santa Caterina dipinta da Martino di Bartolomeo, lo Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena, dovuta ad un anonimo artista pisano (a mio avviso, forse, da riconoscere in  Cecco di Pietro), la Crocifissione  su tela di Giovanni di Pietro da Napoli, il polittico di Martino di Bartolomeo raffigurante la Madonna col Bambino e santi (con la predella raffigurante Storie di Santa Brigida alla Gemaeldegalerie di Berlino), il polittico di Francesco d’Antonio (il cui scomparto centrale è conservato al Denver Museum of Art, mentre i laterali, con due santi ciascuno, sono nel museo pisano, fig. 9).
Anche dopo la scomparsa della Gambacorti, non venne meno l’attenzione per l’ornamentazione dell’edificio che continuò ad accogliere opere di artisti pisani, come Borghese di Piero, autore del San Girolamo nello studio e nel deserto conservato al Museo di san Matteo a Pisa (fig. 8), o Niccolò dell’Abbrugia, cui si deve un paliotto ligneo con Cristo in pietà oggi a San Domenico Nuovo, ma anche forestieri, come Bicci di Lorenzo, Beato Angelico, il fiammingo Maestro della Leggenda di Santa Lucia, Paolo Schiavo, Benozzo Gozzoli e Ambrogio d’Asti. Se Creigthon Gilbert (Tuscan Observants and Painters in Venice c. 1400, in Interpretazioni veneziane: studi di Storia dell’arte in onore di Michelangelo Muraro, a cura di D. Rosand, Venezia 1984, pp. 109-120) aveva identificato in un’anconetta dipinta da Andrea di Bartolo verso il 1394 e raffigurante la Vergine dell’Umiltà e il Crocifisso, oggi alla National Gallery di Washington, un esempio della decorazione delle celle delle monache domenicane nel convento osservante di Venezia, la Roberts riesce dunque a ricostruire molto più in dettaglio i gusti del corrispondente contesto pisano.
È bene dire subito che il testo risulta abbastanza spesso poco informato, o ingiustamente cauto e laconico, per tutto ciò che riguarda identificazione, stile o carriera degli artisti. È invece sul piano della lettura iconografica dei dipinti che il libro si fa più interessante; nei soggetti si ravvisano le tematiche in cui le monache di clausura potevano più facilmente immedesimarsi, come le raffigurazioni delle vergini martiri (come Eulalia ed Orsola), o gli sposalizi mistici (di santa Caterina d’Alessandria e di santa Caterina da Siena), quelli che potevano ricordare loro il compito di pregare per la salvezza dei propri congiunti (la Resurrezione di Lazzaro o Cristo fra Marta e Maria Maddalena), invitarle ad esperienze  di misticismo (come nel caso di santa Brigida di Svezia), ribadire l’importanza del silenzio (con la raffigurazione di san Domenico che invita ad esso) e propagandare nuovi culti sostenuti dall’ordine domenicano (come quello dei diecimila martiri).  L’autrice chiarisce, ad esempio, con i legami documentati fra le monache e l’ordine francescano, la vistosa presenza di san Francesco ai piedi della Croce nella Crocifissione di Giovanni di Pietro da Napoli e la commissione del dipinto da parte del frate francescano Stefano Lapi. Apprendiamo così che sin dal 1402 il Capitolo generale dei francescani aveva concesso alle monache di San Domenico la facoltà di partecipare ai benefici spirituali dell’ordine francescano ma anche che il Lapi era amico personale di Chiara e con figlie e moglie fattesi monache a San Domenico. Un buon approfondimento è offerto anche per il polittico dipinto da Martino di Bartolomeo ed un tempo sull’altar maggiore della chiesa pubblica. La Roberts ne collega infatti la realizzazione ad un lascito del 1405 da parte di una zia della Gambacorti di nome Giovanna, e sottolinea come l’insistenza sulla raffigurazione di santa Brigida (protagonista di tutte le scene della predella) si debba alle scelte personali di Chiara, che aveva conosciuto il confessore della santa, Alfonso de Vadaterra, e che doveva avvertire la spiritualità della mistica svedese particolarmente prossima alla propria. Brigida era infatti stata proclamata santa soltanto pochi anni prima, nel 1391, ed il suo nome non era ancora incluso nel calendario domenicano, perciò, dandole così tanto spazio proprio nel dipinto destinato all’altar maggiore della chiesa esterna, Chiara si faceva di fatto promotrice del suo culto. Interessante è anche la ricostruzione della genesi del trittico dedicato a santa Caterina d’Alessandria in cui, alla tavola centrale dipinta su legno di quercia da un maestro fiammingo, e probabilmente spedita dalle Fiandre, furono uniti due laterali eseguiti da un pittore pisano che, per le scene della predella, trasse ispirazione dalle incisioni fiorentine di Francesco di Lorenzo Rosselli. Considerando come, trattandosi di un monastero femminile, all’interno della struttura non fossero permesse né sepolture di laici né cappelle gentilizie, o ancora come le monache non avvertissero il bisogno di un numero elevato di altari, non avendo, a differenza di molti frati, l’obbligo di officiare, colpisce ancora di più la quantità di opere d’arte realizzate per l’edificio pisano. Dipinti, ceri pasquali issati su bastoni decorati (come quello di Cecco di Pietro oggi al Museo di San Matteo) e sculture, dovevano essere dislocati sugli altari, che, stando all’autrice, nella seconda metà del XV secolo sarebbero stati tre nella chiesa esterna e quattro in quella interna; mentre gli spazi comuni del monastero erano abbelliti da affreschi, e altri dipinti di formato minore dovevano trovarsi sugli altari dei dormitori delle monache, come è stato appurato nel caso della già citata tavoletta di Borghese di Piero (fig. 8) con San Girolamo penitente e nello studio ed una devota domenicana (cfr. A. Thomas, Art and piety in the female religious communities of Renaissance Italy. Iconography, space and the religious women’s perspective, Cambridge 2003, pp. 13-21 e 123).
La Roberts sottolinea inoltre come, sebbene osservanti, le monache di San Domenico dovettero per lungo tempo dipendere giuridicamente dai frati (non osservanti) di Santa Caterina, poiché, come ogni convento femminile dell’ordine, anche quello pisano faceva riferimento, per la cura monialium, dalla congregazione maschile più vicina. Si può comprendere come si trattasse di una ‘difficile convivenza’ e come quando, nel 1488, anche i frati di Santa Caterina si unirono al ramo osservante, tale evento trovò immediato riflesso nelle opere d’arte del monastero femminile, in cui il riecheggiamento di quelle della casa madre fiorentina, cioè il convento osservante di San Marco, poté finalmente risultare palese. Fu forse in tali frangenti che a Pisa giunse la tela con la raffigurazione del Cristo eucaristico dipinta dal Beato Angelico (oggi al Museo di san Matteo), mentre certamente in questi anni furono realizzati l’affresco del chiostro con un San Domenico che incita al silenzio (tema che si incontra anche a San Marco) e la Crocifissione dipinta da Benozzo nel Refettorio, per la quale la Roberts indica a modello l’Allegoria della Crocifissione nella Sala Capitolare del convento fiorentino.
Fin qui i meriti di questo volume, ma occorrerà dire anche delle critiche. In primo luogo, sarebbe piaciuto trovarvi anche qualche riferimento all’ulteriore attività di questi artisti, almeno per capire se i forestieri, quando lavorarono per le domenicane, erano già conosciuti in città, oppure se lo furono in seguito, quasi che l’attività per San Domenico fosse loro valsa da trampolino di lancio sulla scena locale. Per esempio, del pittore fiorentino Francesco d’Antonio, di cui si mette ben in evidenza, nel trittico dipinto per le suore (fig. 9), la scelta di una carpenteria semplice e quasi arcaicizzante, si poteva forse sottolineare come questa fu ragionevolmente la prima opera pisana, seguita però da una consistente attività per la città, segnalata dai documenti (dov’è citato all’inizio degli anni quaranta) e da alcune opere superstiti (come gli affreschi - Crocifissione ed I santi Cosma e Damiano - della controfacciata della Cattedrale) ed altre da riferirgli (come la Vergine incoronata fra Santi, affresco staccato e parte di un palinsesto, nella basilica di San Piero a Grado, che a mio avviso gli spetta, fig. 11 – la si confronti ad esempio con la Madonna col Bambino oggi alla National Gallery di Londra, fig. 10). Di Borghese di Piero, invece, si poteva ricordare come il San Girolamo nello studio e nel deserto (fig. 8), già ampiamente indebitato con le novità masaccesche, sia di fatto l’unica opera pisana nota di un artista che, a dispetto delle sue origini e del possibile alunnato col pisano Battista di Gerio (sotto la cui egida, a mio avviso, dovette dipingere anche quest’anconetta venduta a Budapest nel novembre 1917 con la collezione di Hugo von Kilènyi, che conosco solo dalla pagina del catalogo d’asta e che viene qui riprodotta nella speranza che riemerga dal nulla, fig. 12) fu attivo pressoché esclusivamente per Lucca.
   È doveroso inoltre menzionare alcuni altri studi recenti sul patrimonio artistico di San Domenico, usciti poco prima o in contemporanea alla pubblicazione del volume della Roberts. In due saggi di G. de Simone[1] si rintraccia un tondo raffigurante un Cristo in Pietà (oggi a San Domenico Nuovo), attribuito a Niccolò dell’Abbrugia, viene rivalutato un Crocifisso ligneo di primo Trecento un tempo ritenuto miracoloso, e viene approfondito il finora trascurato Cristo benedicente dipinto su tela dal Beato Angelico. Si segnala poi un testo, in vero di non facile reperibilità (M. Burresi, Opere d’arte del Trecento e del Quattrocento della chiesa e del monastero di San Domenico, in L’arte e la storia, incontri tra il Sovrano Militare Ordine di Malta e gli Amici dei Musei e Monumenti pisani, Pisa 2007, pp. 101-120), che offre una ricognizione delle opere d’arte realizzate fra Tre e Quattrocento per la chiesa pisana in cui si possono trovare valide integrazioni al patrimonio preso in considerazione dalla Roberts (che infatti non tutela le sculture), come l’Annunciata lignea scolpita da Agostino di Giovanni nel 1321, la Madonna col Bambino di scultore renano del Trecento, ed un’altra Annunciata lignea dell’ambito di Francesco di Valdambrino, opere oggi tutte confluite nella raccolta del Museo Nazionale di San Matteo.


1.Da San Domenico, Pisa: un inedito Cristo in pietà di Niccolò Pisano, in ‘Commentari d’arte’, 9/12, 2006, pp. 5-11; L’Angelico di Pisa: ricerche e ipotesi sul “Redentore benedicente” del Museo Nazionale di San Matteo, in ‘Polittico’, 5, 2008, pp. 5-35.

 

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1- Facciata della chiesa di San Domenico, Pisa

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2- Ricostruzione della pianta antica della chiesa di San Domenico, Pisa

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3- Sepolcro della beata Chiara Gambacorti, lastra tombale, Pisa, chiesa di San Domenico Nuovo

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4- Sepolcro di una monaca, XV secolo, Basilea, Barfüsserkirche-Historisches Museum

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5- Turino Vanni, Crocifissione con san Domenico e la beata Chiara, Pisa, chiesa di San Domenico

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6- Turino Vanni, Crocifissione con san Domenico e la beata Chiara (dettaglio), chiesa di San Domenico, Pisa

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7- Turino Vanni, Crocifissione con san Domenico e la beata Chiara (dettaglio), chiesa di San Domenico, Pisa

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8- Borghese di Piero, San Gerolamo penitente e nello studio con una devota domenicana, Museo Nazionale di San Matteo, Pisa

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9- Francesco d’Antonio Banchi, I santi Domenico e Michele Arcangelo, Museo Nazionale di San Matteo, Pisa

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10- Francesco d’Antonio Banchi, Madonna col Bambino e angeli (dettaglio), National Gallery of Art, Londra

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11- Francesco d’Antonio Banchi, Madonna col Bambino (dettaglio), basilica di San Piero a Grado, Pisa

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12- Borghese di Piero, Madonna col Bambino e angeli (qui attribuito), ubicazione ignota

 

Chiara Piva, Restituire l’antichità. Il laboratorio di restauro della scultura antica del Museo Pio-Clementino, Edizioni Quasar, Roma 2007

di Ilaria Sgarbozza

È la seguente, densa, affermazione di Marguerite Yourcenar ad introdurre il lettore al lodevole  saggio Restituire l’antichità. Il laboratorio di restauro della scultura antica del Museo Pio-Clementino: «Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita». È proprio su uno dei momenti nodali della secolare vita delle sculture antiche, il restauro, che si sofferma, in effetti, Chiara Piva, studiosa di formazione romana già autrice di numerosi contributi sulla teoria e la pratica del restauro delle antichità in età moderna. Piva scandaglia, in particolare, la vicenda, finora trascurata, del laboratorio di restauro annesso al Museo Pio-Clementino in Vaticano, attivo per circa un ventennio, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del XVIII secolo, quando la febbre dell’antico investì la città del Papa, centro del Grand Tour e capitale delle arti. Così facendo, completa la ricostruzione della genesi del più importante museo di antichità dell’Europa moderna; una ricostruzione avviata negli anni Ottanta da Carlo Pietrangeli e condotta successivamente da Gian Paolo Consoli, Paolo Liverani e Orietta Rossi Pinelli, ai quali spetta il merito di aver indagato le scelte architettoniche ed espositive dei fondatori.
Piva interpreta l’attività del laboratorio annesso al Pio-Clementino come l’emanazione delle direttive impartite da Giovanni Battista ed Ennio Quirino Visconti, primi direttori del museo e autori (in particolare il secondo) di un catalogo in folio delle opere della collezione considerato la massima testimonianza del livello di erudizione raggiunto dalla cultura antiquaria romana settecentesca. Nato per ridurre i costi del restauro in atelier (ovvero del trasferimento dei marmi antichi dal Vaticano agli studi degli scultori, concentrati per lo più nella zona del Tridente), il laboratorio si afferma sulla scena capitolina di fine secolo come un privilegiato luogo di dialogo e scambio tra antiquari e artisti-restauratori. Nei suoi locali la collaborazione virtuosa tra gli uni e gli altri produce la messa a punto di quella metodologia di restauro finalizzata alla restituzione dell’originaria identità iconografica ed estetica dell’opera d’arte, che è una delle più significative conquiste ed eredità dell’età neoclassica.
Senza indugiare in considerazioni di carattere teorico o ideologico, facendo piuttosto ricorso ad un’ampia e inedita documentazione d’archivio, l’autrice disegna la fisionomia, il funzionamento e l’organizzazione dell’atelier. Ne stabilisce l’ubicazione non lontana dalla Torre dei Venti, nella parte settentrionale del Cortile del Belvedere, a ridosso delle sale espositive. Si occupa di ricostruire dettagliatamente le varie fasi dell’intervento di restauro, così come danno ad intendere la manualistica settecentesca (gli scritti di Bartolomeo Cavaceppi e Francesco Carradori, in particolare) e le relazioni e note di spesa presentate ai Visconti dal personale dell’atelier. Dall’eliminazione dei depositi presenti sulla superficie marmorea, alla realizzazione delle integrazioni, alla lustratura finale, il metodo di lavoro viene così messo a nudo, rivelandosi un’operazione lunga, complessa e coinvolgente numerose professionalità. Proprio l’elencazione delle professionalità attive all’interno del laboratorio è un punto centrale dello scritto, che svela l’esistenza di una schiera di tecnici specializzati, organizzata secondo una rigida suddivisione dei compiti e sottoposta a un diversificato trattamento salariale. In Vaticano scultori, intagliatori, scalpellini, lustratori, segatori cooperano, trasmettendosi generalmente l’impiego di padre in figlio. Sono tutti alle dipendenze di un “sovrintendente ai restauri”, nominato dal direttore del museo, il quale ha libertà di scelta dei fornitori e dei collaboratori saltuari. Ai due “sovrintendenti” che si succedono, Gaspare Sibilla (1723-1782) e Giovanni Pierantoni (1742-1817), l’autrice dedica uno spazio speciale. In particolare, del secondo ricostruisce l’intera biografia, dagli esordi nella bottega di Cavaceppi, alla maturità, spesa tra attività di restauro, di scavo, di intermediazione nel mercato antiquario e attività più propriamente artistica, all’età avanzata, quando è investito dalla crisi finanziaria che si abbatte sullo stato pontificio ed è costretto a disfarsi della propria collezione di opere d’arte antiche e moderne. Quanto all’incidenza dei costi del laboratorio di restauro sul budget annuale del Pio-Clementino, Piva rielabora statisticamente i dati forniti dalla documentazione archivistica per arrivare a riconoscerne il valore massimo tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta, quando, terminati i lavori architettonici, il definitivo ordinamento delle sale diviene la priorità dei curatori. Tra il 1780 e il 1791 l’impiego di lavoranti cresce pressoché costantemente, mentre il 1793 è il momento del crollo delle commesse, coincidente con la depressione economica che, sotto l’incalzare degli avvenimenti internazionali, colpisce la città.
Creatura di Pio VI, l’ultimo papa mecenate, e simbolo, in nome del primato della cultura classica, dell’universalismo artistico romano, il Museo Pio-Clementino, nel suo assetto e nella sua organizzazione originaria, non sopravvive alla Rivoluzione francese. A partire dal 1796 si perdono le tracce del laboratorio di restauro; un anno più tardi gli inviati del direttorio, in testa Gaspar Monge, imballano i più celebri capolavori, non di rado appena usciti dall’atelier della Torre dei Venti, con destinazione Louvre.
È all’interno dell’ampia riflessione sul primato di Roma nelle arti e nell’elaborazione della moderna scienza della conservazione che il libro di Chiara Piva deve essere dunque inquadrato. La straordinaria e breve storia del laboratorio guidato da Sibilla e Pierantoni racconta molto del debito che l’istituzione-museo, così come si è venuta configurando in Occidente tra XIX e XX secolo, ha contratto con la città dei papi. Che i responsabili dei musei pubblici europei abbiano apprezzato la metodologia integrativa e il processo di lavorazione messi a punto in Vaticano è d’altronde incontestabilmente dimostrato dall’arruolamento, nei primi decenni dell’Ottocento, di un gran numero di scultori, scalpellini e lustratori in fuga, per necessità o per scelta, dalla declinante capitale dello Stato Pontificio.

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La copertina del volume

Maurizio Tani, La rinascita culturale del ‘700 ungherese. Le arti figurative nella grande committenza ecclesiastica, Roma, Gregorian University Press, 2005

di Emanuele Pellegrini

La porzione orientale dell’Europa conosce nel corso del diciottesimo secolo la significativa emersione di alcuni paesi capaci di giocare un ruolo centrale nelle vicende politiche e quindi negli equilibri dell’intero continente. Essi attivano fitti dialoghi con gli altri paesi, giungendo a vivere stagioni da protagonisti anche dal punto di vista culturale, attirando artisti e proponendo soluzioni mecenatizie di indubbio livello, che in qualche caso si sono ripercosse pure sulla storia civile e culturale del resto dell’Europa. La Polonia di Stanislao Augusto Poniatowski, e soprattutto la Russia degli illuminati zar Pietro e Caterina, sono senz’altro gli esempi principali. Tuttavia non sono gli unici. Il volume di Maurizio Tani viene, infatti, a illuminare in maniera molto approfondita la situazione culturale dell’Ungheria del diciottesimo secolo, quella parte che si potrebbe definire “di confine” del grande colosso dell’impero austriaco. Tani riesce a spiegare in modo chiaro quanto complicata fosse la situazione ungherese a livello geo-politico, e di conseguenza anche culturale, proprio per questa sua posizione tra l’Europa, il sempre minaccioso Impero Ottomano, e l’Oriente; tuttavia il cuore del suo studio si rivolge allo straordinario rapporto creatosi tra mecenati ed eruditi ungheresi e l’Italia, decisivo per quella che l’autore definisce la “rinascita culturale” ungherese del Settecento. La sua minuziosa ricerca pone, infatti, in evidenza le feconde relazioni tra la classe colta magiara e la cultura italiana lungo tutto il corso del diciottesimo secolo, soprattutto con la città di Roma. Tani dimostra con dovizia di particolari il ruolo centrale che una giovanile formazione italiana giocò nella vita dei molti ungheresi, rientrati poi in patria e qui presto divenuti protagonisti attivi nella vita delle proprie città e diocesi, in cui si enumerano molte nuove commissioni, ristrutturazioni, riordinamenti di biblioteche, fondazione di colonie arcadiche. Ne derivò un tangibile incremento degli studi, regolato sull’esempio di eruditi coevi come Muratori e Maffei, il cui museo lapidario sarà “replicato” difatti in alcune residenze ungheresi: già Luigi Ferdinando Marsigli nel suo Danubius Pannonicus-Mysicus, edito tra 1726 e 1744, aveva avuto modo di segnalare il ricco materiale archeologico presente in alcune collezioni ungheresi. E basti poi pensare a figure come quella di Michele Federico Althann, vicerè di Napoli e pastore arcade, significativamente ritratto dal Solimena nella tela Il conte Althann offre all’imperatore Carlo VI il catalogo della Pinacoteca imperiale (fig. 1), oggi conservata a Vienna. Il contributo della ricerca di Maurizio Tani consiste essenzialmente in una mediazione culturale tanto rara quanto cospicua, essendo l’autore madrelingua ungherese e quindi capace di proporre al pubblico, in primo luogo italiano, una quantità di materiale altrimenti inaccessibile, dato soprattutto l’ostico ostacolo linguistico. Il libro possiede un innegabile valore in un duplice senso: intanto perché rischiara le complesse e poco note vicende della vivacissima cultura ungherese del diciottesimo secolo - con frequenti e non marginali rimandi ai secoli precedenti sino al “mito” rinascimentale di Mattia Corvino -, ossia un periodo ricco di studiosi, mecenati e anche artisti, tanto da permettere di definire gli anni 1740-1780 una vera e propria rinascita culturale. In secondo luogo perché contribuisce in misura non inferiore alla precisazione di taluni aspetti del contesto romano settecentesco, notoriamente articolato e giunto forse all’acme del suo plurisecolare cosmopolitismo, in merito a cui si aggiungono alcune utili informazioni, specialmente inerenti la produzione degli artisti italiani per la committenza ungherese. Una serie di maestranze queste, dagli architetti agli argentieri (Gaetano Nesi, Vincenzo Milione, Gaetano Pesci, Giuseppe Agricola), a volte ancora ben poco conosciuta e su cui Tani ha modo di aggiungere documenti e opere. Ad essi si associano non marginali notazioni a proposito del mercato artistico e della produzione di copie, segnatamente dei numerosi capolavori italiani (Maratti e Reni su tutti) richiesti per arredare chiese e collezioni d’Ungheria, spesso costruite dichiaratamente «ad normam italicam» (p. 102). Per non parlare infine delle incisioni, che gli ungheresi compravano in largo numero al fine di addobbare residenze private e studioli, dove domina il nome di Piranesi, le cui vedute divengono a loro volta fonte primaria per motivi decorativi (pp. 148-152). Tanto che in qualche caso si creano interessanti situazioni di resistenza alla “romanizzazione” che portava ad eliminare le caratteristiche più antiche, ma autoctone, degli edifici ungheresi, con contrasti aspri tesi a contrapporre la forma «gothica» a quella «romana» (ad esempio pp. 131-133: temi che lo stesso Tani aveva in parte svolto in un recente e documentato articolo apparso sulla rivista “Commentari”, 15/17, 2000). Particolare attenzione viene poi giustamente deputata a quegli edifici che costituirono un coagulo per la comunità ungherese a Roma, come il Collegio Germanico e Ungarico, le chiese di Santo Stefano Rotondo e Santo Stefano degli Ungheresi; oppure a quelle iniziative di cultura promosse dagli stessi ungheresi in Italia, tra cui sarà debito segnalare il ben noto «Diario ordinario di Chracas», fondato a Roma nel 1716, e che costituisce ancora oggi una miniera di informazioni utili sulla Roma settecentesca. Una duplicità di riferimenti, quindi, italiani, e soprattutto romani, e ungheresi, che trova una decisiva premessa e un saliente trait d’union nel «ruolo egemone svolto dalla Chiesa romano-cattolica nell’Ungheria del Settecento» (pp. 24 e sgg.). Numerose infine sono le notizie, anche biografiche, su studiosi ungheresi, spesso in stretto collegamento con gli eruditi italiani. Larga parte della notazione del volume mira proprio a ricostruire il profilo biografico degli ungheresi che ebbero rapporti stretti con l’Italia. A volte essa risulta persino eccessiva, arrivando a coprire intere pagine e in qualche caso affatica od ostacola lo svolgimento della lettura. Soprattutto anche perché molte di queste stesse notizie, che sono state poste all’interno delle note, aggiungono informazioni non semplicemente accessorie o di complemento, bensì assai utili alla precisazione del quadro ricostruito nel volume e sarebbero potute stare tranquillamente nel testo. Resta, infine, da segnalare ancora l’appendice documentaria e un’utile bibliografia, che completano il quadro di un lavoro senz’altro utile per gli studi italiani, soprattutto perché veramente originale, tanto che si spera non manchino in futuro ulteriori approfondimenti.

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Francesco Solimena, Il conte Gundaker Althann offre all’imperatore Carlo VI il catalogo della Pinacoteca imperiale, 1728, olio su tela, cm 209 x 284, Vienna Kunsthistorisches Museum

 

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