Desiderio da Settignano: la scoperta
della grazia nella scultura del Rinascimento
di Stefano Luppi
Uscendo dal museo del Bargello, dopo aver visitato la mostra “Desiderio
da Settignano. La scoperta della grazia nella scultura del Rinascimento” (fino
al 3 giugno 3007, direzione di Beatrice Paolozzi Strozzi) si ha l’impressione
di essere penetrati a fondo nell’opera e nella poetica di questo
scultore-principe della metà del XV secolo. Certamente l’appuntamento – prodotto
dal Polo Museale di Firenze con l’Ente Cassa di Risparmio, già organizzato
al Louvre e visibile dopo la tappa toscana anche alla National Gallery
di Washington – è prezioso e ottimamente concepito anche
se forse qualcosa di più si poteva fare in seno alla divulgazione
per il pubblico appassionato ma non esperto. Di Desiderio (nacque secondo
Gentilini nel 1429/1430 e morì giovane nel 1464) infatti ancora
poco si conosce in termini di documenti e soprattutto di opere, con
altalenanti attribuzioni non sempre confermate all’unanimità dalla
critica. Va anche detto che forse si è esagerato – anche
nella “riscoperta” ottocentesca – nel definire le
sue sculture con un’aggettivazione troppa “romantica”:
già il primo biografo, Vasari, utilizza termini come “grazia,
leggiadria, affetti” nella sua breve notizia sulla vita dell’artista
e anche gli studiosi moderni non si limitano troppo, ricorrendo sovente
a termini come “patetico, commovente, straziante”. Non
paia un semplice cenno linguistico perché la tradizione può aver
influito sull’assegnazione o meno di alcune opere e sull’analisi
generale, come perspicacemente ricorda Gaborit in catalogo. L’imposizione
vasariana di un Desiderio virtuoso senza pari nel trasformare il duro
marmo in leggera nuvola graziosa ha contribuito forse al fatto che
nel 1848, all’asta della collezione francese Debruge-Duménil,
gli esperti assegnassero alla sua mano un busto di Beatrice d’Este che
presenta sì le caratteristiche rientranti nell’aggettivazione
vasariana ma che spetta in realtà a Gian Cristoforo Romano (1470-1512,
lavorò per gli Este, gli Sforza e i Gonzaga; la scultura in
questione è oggi al Louvre). Anche sull’apprendistato
presso Donatello sussistono più dubbi che certezze nonostante
il solito Vasari scriva che “fu costui imitatore della maniera
di Donato”: non tanto perché negli anni giovanili dello
scultore di Settignano il grande fiorentino fosse attivo a Padova (1443-1453)
con un gruppo di “aiuti” tra i quali Desiderio non viene
menzionato. Le motivazioni che invitano a muoversi con i piedi di piombo
in questo senso sono legate alla stessa scultura di Donatello, capace
di alternare moltissime “forme” in un complesso coacervo
stilistico da cui diventa non semplice definire una linea di demarcazione
chiara tra le “graziosità” desideriane e le “asprezze” del
supposto maestro. Lo stesso San Giovanni Battista Martelli che
apre la mostra al Bargello e viene oggi assegnato a entrambi tormenta
da anni gli studiosi (Donatello? Desiderio? L’uno e l’altro
in successione?). Dal 1453, al più tardi, Desiderio doveva essere
già ben noto e autonomo se viene chiamato in qualità di
esperto a giudicare i rilievi marmorei eseguiti da Andrea Cavalvanti
il Buggiano per il pulpito di Santa Maria Novella. Restando ai dati
documentari quel che si può invece ricordare è che il
protagonista di questa ottima rassegna monografica nacque in una famiglia
di artisti (il padre Francesco di Bartolo si definisce “scharpellatore” e
dichiara che tre figli lo seguivano in questa attività, Francesco,
Geri e Desiderio appunto) nello stesso paese che diede origine alla
famiglia dei Gamberelli che poi altri non sono che gli scultori Bernardo
e Antonio Rossellino. Geri e Desiderio, secondo un documento catastale
del 1458, hanno una bottega comune ben avviata: forse già dallo
stesso 1453 e, tenendo conto che a giudicare il Buggiano era stato
chiamato anche il coetaneo Antonio, si può supporre una formazione
comune dei due fratelli presso Bernardo Rossellino.
Venendo più specificamente all’esposizione (di tutte le
vicende attributive si discuterà al convegno, curato da Beatrice
Paolozzi Strozzi, Joseph Connors e Gerhard Wolf, del 9-10-11 maggio
al Kunsthistorisches Institut di Firenze), la prima monografica in
assoluto dedicata a Desiderio, va ricordato che la tappa fiorentina è imprescindibile
rispetto alle altre per la possibilità di vedere due capolavori
inamovibili come il Monumento funebre di Carlo Marsuppini in
Santa Croce e il Tabernacolo del Sacramento in San Lorenzo.
Nelle sale sono esposte statue, tondi e ritratti che hanno contribuito
alla grandezza di Desiderio con tratti espressivi pressoché inconfondibili
e forse in parte visivamente già noti anche al largo pubblico.
Che dire ad esempio del Fanciullo che ride (1460-1464) o del Cristo
Bambino proveniente dalla Kress collection con quel ciuffetto
modernissimo, quasi un “tirabaci” che pende dalla fronte?
(quest’ultimo è tra l’altro l’unico busto
di cui si possa indicare la collocazione fiorentina prima del XIX secolo,
l’oratorio dei Vanchetoni). La maestria e la perizia sono al
massimo grado, così anche negli altrettanto straordinari capi
d’opera, il Giovinetto del Bargello (1450-55), la Marietta
Strozzi di Berlino (1460 ca., non tutta la critica è però concorde
sull’attribuzione), la Gentildonna del Bargello ammirata
da Leonardo per lo sfumato, il tondo Arconati Visconti (1455-57) dove
il dialogo tra i piccoli Gesù e san Giovanni raggiunge vertici
di intima confidenza, il rilievo marmoreo ‘stiacciato’ con San
Gerolamo nel deserto e le Madonne col Bambino, (Panciatichi, Foulc,
Galleria Sabauda, etc.). Tutte opere suddivise per tipologie nel percorso
tematico. Un’ultima nota deve necessariamente riguardare il catalogo,
pubblicato da 5 Continents Editions, partner editoriale del Louvre,
in tre lingue. Pur non essendo una monografia in senso stretto
diviene lo strumento di riferimento per lo studio di Desiderio. Curato
da Beatrice Paolozzi Strozzi, Marc Bormand e Nicholas Penny affianca
all’eleganza grafica una completezza encomiabile per quanto riguarda
le schede delle opere (si poteva solo forse aggiungere la nota sulle “esposizioni” per
i pezzi amovibili) e soprattutto i saggi – di Jean René Gaborit,
Giancarlo Gentilini, Francesco Caglioti, Andrea Baldinotti – di
specialisti di varie scuole.

Desiderio da Settignano, Cristo Bambino, Washington, National
Gallery of Art, Kress Coll

Desiderio da Settignano, Pietà, part. del Tabernacolo
del Sacramento, Firenze, S. Lorenzo
Valencia
a Firenze. L’impronta
fiorentina e fiamminga a Valencia. Pittura dal XIV al XVI secolo
Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 4 marzo - 24 aprile 2007
Catalogo a cura di cura di Fernando Benito Domenech e José Gomez
Frechina, in lingua spagnola con traduzione italiana
di Margherita Melani
Valencia, grazie al suo porto sul Mediterraneo, nel XV secolo era
uno dei principali centri commerciali d'Europa, non a caso i banchieri
valenciani prestarono denaro a Isabella I di Castiglia per il viaggio
di Cristoforo Colombo del 1492. Lo sviluppo economico favorì le
arti e la cultura a tal punto che Valencia fu la prima città spagnola
con una pressa da stampa utilizzata nel 1478 per stampare la
prima Bibbia in una lingua neolatina. Non dobbiamo quindi stupirci
della presenza di artisti italiani a Valencia nel corso del XV secolo
a partire da Gherardo Starnina (doc. 1354 – 1409), che
visse ed operò nella città dal 1395 al 1401, eseguendovi
il retablo della Certosa di Portacoeli (1396-97, ora nel Museo
de Bellas Artes di Valencia) insieme ad altre opere perdute come
il retablo per Sant’Agostino (1398-1400) e le pitture
murali sulla tomba del mercante Guglielmo Costa nel chiostro dei Francescani
(1398). Nel 1418-24 a Valencia è documentato Giuliano di Giovanni
da Poggibonsi, allievo di Lorenzo Ghiberti, autore di una serie di
dodici rilievi in alabastro, con episodi del Vecchio e Nuovo Testamento,
per il coro della cattedrale (ora nella Cappella del Santo Calice).
Gli scambi con l'Italia furono poi favoriti dal cardinale Roderic de
Borja i Borja (italianizzato in Borgia), il futuro Alessandro VI (1431-1503),
inviato a Valencia come legato di Sisto IV nel 1472. Rodrigo Borgia,
nato a Xàtiva a poco più di 60 km da Valencia, come personale
omaggio alla cattedrale valenciana donò una Madonna col
Bambino del Pinturicchio (Valencia, Museo de Bellas Artes)
e portò con sé un seguito di tre pittori incaricati di
decorare il coro della cattedrale cittadina (poi scialbato): Paolo
da San Leocadio di Reggio Emilia (1447-1519), Francesco Pagano di Napoli
e Maestro Riccardo.
Gli artisti italiani furono sicuramente un punto di riferimento per
pittori iberici come Llorenç Saragossà (doc. 1363-1406)
autore di quattro tavole con Storie di San Luca esposte, fino
al 24 aprile, a Palazzo Medici Riccardi di Firenze insieme ad altre
24 tavole in gran parte provenienti dal Museo de Bellas Artes
di Valencia. Tra le opere in mostra, tutte recentemente restaurate,
non si può fare a meno di notare la Madonna col Bambino,
san Giovannino e angeli con gli strumenti della Passione dello
spagnolo Vicent Macip (c.1475-1550), che denota la conoscenza diretta della
pala di Pinturicchio, o la tavola del figlio Joan de Joanes (1500 –1579)
con l’Assunzione della Vergine,unica opera della rassegna
fiorentina che ricorda l’artista definito il ‘Raffaello
spagnolo’.
Analoghe considerazioni si possono fare per gli scambi artistici intercosi
tra Valencia e le Fiandre. Alfonso V d’Aragona (1396-1458) durante
la sua reggenza aveva dimostrato uno spiccato apprezzamento per i fiamminghi
a tal punto da inviare il pittore Lluis Dalmau in Fiandra per completare
la sua formazione (1431-36) e chiamare a Valencia il fiammingo Luis
Alimbrot (dal 1439). Questo spiega la presenza di elementi fiamminghi
nella produzione di artisti spagnoli come Gonçal Peris Sarria
(c. 1380 - 1451) la cui Vera immagine della Vergine è stata
assunta ad icona della mostra, Joan Reixach (doc. 1431-1486) qui rappresentato
da uno splendido retablo con scene della Passione di Cristo,
o di Bartolomé Bermejo di cui si può vedere la Vergine
del latte.
La mostra fiorentina poteva sicuramente essere un’ottima occasione
per richiamare l’attenzione del pubblico, con una serie di opere
rappresentative, sugli scambi intercorsi tra Valencia e l’Italia,
ma anche tra Valencia e le Fiandre. Purtroppo i pannelli affiancati
alle opere erano scarsi di informazioni di tipo storico, dimostrando
invece una netta preferenza per elementi iconografici e indicazioni
sui recenti restauri. La mancanza non era colmata da altri elementi
didascalici che inquadrassero il periodo storico, l’unico pannello
d’insieme riportava il testo del pieghevole promozionale (coincidente
con quello del comunicato stampa), eccessivamente generico. Solo approfittando
dei due comodi divani neri posti nella prima sala, e leggendo con calma
uno dei due cataloghi messi a disposizione dei visitatori – unico
modo peraltro di avere accesso al catalogo, il bookshop essendone incredibilmente
sfornito –, era possibile ricavare le informazioni necessarie
alla comprensione della mostra dai saggi di Fernando Benito Domenech
e José Gomez Frechina.

Gonçal Peris Sarria, Vera immagine della Vergine, Valencia,
Museo de Bellas Artes

Joan Reixach, retablo con Storie della Passione, Valencia,
Museo de Bellas Artes

Vicent Macip, Madonna col Bambino, san Giovannino e angeli con gli
strumenti della Passione, Valencia, coll. priv.
CÉZANNE
A FIRENZE.
Il vivace ambiente culturale del capoluogo toscano tra Otto
e Novecento attraverso le collezioni di Egisto Paolo Fabbri Jr. e Charles
Alexander Loeser.
di Katiuscia Quinci
«Ho sempre avuto simpatia per gli indesiderabili…Soltanto
in questo modo si può pensare di formare una collezione».
Questa frase di Charles Alexander Loeser (New York 1864 - Firenze 1928)
rispecchia emblematicamente la filosofia alla base delle scelte collezionistiche
di questo importante personaggio, che tra Otto e Novecento, contemporaneamente
ad Egisto Paolo Fabbri (New York 1866 - Firenze 1933), raccolse nel
capoluogo toscano la prima grande raccolta europea di opere di Paul
Cézanne (Aix-en-Provence 1839 – 1906), contribuendo non
poco all’affermazione di un genio sperimentale e solitario, incompreso
e “indesiderato” dalla critica contemporanea, dal pubblico
e anche da molti colleghi.
Nato da una famiglia benestante che desiderava per lui una carriera
d’avvocato, Cézanne dimostrò ben presto di preferire
i pennelli ai libri di diritto e così, nonostante gli accesi
contrasti con il padre, intraprese l’attività di pittore,
trasferendosi a Parigi dove iniziò a frequentare intellettuali
e artisti, fra cui alcuni dei futuri maestri dell’Impressionismo.
Nel 1870 scoppiò la guerra tra Francia e Prussia e, per evitare
la chiamata alle armi, Cézanne lasciò Parigi per la Provenza,
trasferendosi all’Estaque, nel golfo di Marsiglia, insieme a
Hortense Fiquet, sua modella, poi moglie e madre del figlio Paul. Il
decennio 1872-82 fu quello di maggiore vicinanza di Cézanne
all’Impressionismo: insieme all’amico Camille Pissarro
- fra tutti gli impressionisti quello cui era più legato -
iniziò a dipingere en plein air nella campagna a nord
di Parigi, trasponendo sulla tela la sua personale scoperta del colore
e della luce. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novantainsisté nella
realizzazione dei medesimi soggetti (paesaggi, marine, bagnanti, giocatori
di carte, nature morte e la famosa montagna Sainte-Victoire)che dimostrano
la sua ossessiva ricerca della perfezione, mentre il suo stile andò progressivamente
distaccandosi da quello degli impressionisti per una nuova attenzione
allo spazio e alla volumetria delle forme.
Bistrattato dai critici e dal pubblico, rifiutato dai Salon parigini
(partecipò soltanto a quello del 1882, dove dominava una pittura
accademica e tradizionalista), negli ultimi anni della sua vita Cézanne
si ritirò nella solitudine della campagna provenzale, tra Aix,
Gardanne, l’Estaque e la tenuta di famiglia del Jas de Bouffan,
oggi inglobata nella città di Aix. Il carattere, da sempre ombroso,
divenne sempre più chiuso e incupito da una profonda rabbia
verso il mondo intero; nonostante fosse malato, l’artista continuò a
dipingere fino alla morte, sopraggiunta per una polmonite causata dalla
lunga permanenza all’aperto.
Posta a sigillo delle manifestazioni celebrative per il centenario
di questa ricorrenza, l’esposizione Cézanne a Firenze rappresenta,
dunque, un’occasione eccezionale per ammirare una serie di capolavori
del pittore francese provenienti dalle più famose collezioni
internazionali, qui riunite seguendo il filo conduttore rappresentato
dalle brillanti personalità di Fabbri (che fu anche un pittore
di discreta qualità, come dimostrano alcune sue opere esposte
in questa sede per la prima volta) e Loeser, alle cui biografie è dedicata
la prima sezione della mostra.
Di origine italiana (Fabbri) e tedesca (Loeser), nacquero entrambi
in America e furono accomunati dalla fortuna di disporre di ingenti
risorse finanziarie e dal pionieristico interesse per Cézanne
che si manifestò concretamente a Parigi nel 1896 quando, presso
la galleria di Ambroise Vollard, acquistarono ciascuno tre dipinti
dell’artista provenzale. Trasferitisi a Firenze negli anni novanta,
Fabbri e Loeser non si frequentarono, ma continuarono a procedere di
pari passo nella loro passione per Cézanne, proteggendo gelosamente
i suoi dipinti in loro possesso (Fabbri arrivò a possederne
trentadue, Loeser “soltanto” sedici) e mostrandoli esclusivamente
a quegli amici e conoscenti che (secondo loro) sarebbero stati in grado
di capirli. Alle vicende di queste due collezioni è dedicata
la seconda sezione della mostra, in cui sono esposte alcune delle più famose
opere del pittore provenzale: La stufa nell'atelier (1865
ca.) proveniente dalla National Gallery diLondra, Madame Cézanne
sulla poltrona rossa (1877 ca., Museum of Fine Arts di Boston), Cinque
Bagnanti (1880 ca., Detroit Institute of Arts), la Casa sulla
Marna (1888-89, eccezionalmente prestata dalla Casa Bianca), due Autoritratti (tra
cui quello con il berretto del 1873-75, dal quale sembra emergere
tutta la scontrosità, tutte le asperità del carattere
di Cézanne) e diverse nature morte. È proprio osservando
queste ultime (in particolare la stupenda Natura morta con ciliegie
e pesche del 1883-86, conservata al County Museum of Art di Los
Angeles) che si riesce a comprendere la vera rivoluzione della pittura
di Cézanne. Egli diceva ad Émile Bernard nel 1904: «Tutto
in natura si modella secondo la sfera, il cono, il cilindro. Bisogna
imparare a dipingere sulla base di queste figure semplici, dopo si
potrà fare tutto quello che si vorrà». Ed ecco,
infatti, le ciliegie e le pesche ridotte a sfere di puro colore che
risaltano prepotentemente sul fondo bianco dei vassoi, collocati su
di un tavolo la cui resa prospettica disobbedisce alle ferree regole
della rappresentazione visiva tradizionale.
Oltre ai dipinti, in questa sezione è esposto anche un interessante
apparato documentario, nel quale spicca la lettera autografa che Cézanne
inviò a Fabbri nel 1899 in risposta alla sua richiesta di potersi
recare ad Aix-en-Provence per conoscerlo e manifestargli tutta la sua
ammirazione. Il pittore, con la ritrosia che riservava anche ai pochi
ammiratori, si rifiutò di ricevere Fabbri perché temeva
di deluderlo («Il timore di apparire inferiore a quello che il
mondo si aspetta da una persona considerata all’altezza di ogni
situazione, è senza dubbio la scusa che mi fa vivere in disparte»),
ma non nascose una sincera meraviglia nell’apprendere che, a
quella data, il giovane collezionista possedeva già sedici suoi
quadri.
Comunque non soltanto Fabbri e Loeser dimostrarono precoce attenzione
verso l’artista francese: Gustavo Sforni – raffinato collezionista
e mecenate – fu il primo fiorentino, nel 1911, ad acquistarne
un’opera, l’importante Ritratto di monsieur Chocquet,
ulteriore significativo segnale del rilievo che la pittura di Cézanne
stava acquistando a Firenze in quegli anni.
A quest’argomento sono dedicate le successive sezioni dell’esposizione,
le quali offrono un rilevante spaccato del panorama artistico e culturale
internazionale tra Otto e Novecento che trovò nel capoluogo
toscano un eccezionale centro di aggregazione, in cui confluirono nomi
di stranieri illustrissimi (Bernard Berenson, Vernon Lee, Edith Wharton
e tanti altri studiosi, artisti, scrittori). Fu anche grazie allo stimolo
dato dal collezionismo di opere di Cézanne che a Firenze, nelle
sale del Lyceum, venne organizzata da Ardengo Soffici la Prima Mostra Italiana
dell’Impressionismo (1910), in parte ricostruita in questa sede
con l’esposizione del Giardiniere di Van Gogh (appartenuto
a Gustavo Sforni) e di una nutrita antologia di sculture di Medardo
Rosso, all’epoca provocatoriamente scelte da Soffici per mostrare
al pubblico degli esempi di plastica “impressionista”,
lontana dai canoni scultorei accademici.
La sezione finale è dedicata agli effetti che la presenza a
Firenze di queste importanti collezioni ebbe sugli artisti fiorentini
e toscani. Primo fra tutti Soffici, che soggiornò a Parigi all’inizio
del Novecento e che nel 1908 su La Voce pubblicò un
fondamentale saggio su Cézanne. A lui si affiancarono Giovanni
Fattori, Amedeo Modigliani, Oscar Ghiglia, Eduardo Gordigiani, Alfredo
Muller, alcuni pittori livornesi, Felice Carena, e gli scultori Libero
Andreotti, Antonio Maraini e Romano Romanelli, i quali, interpretando
lo stile del maestro francese in linea con lo spirito del loro tempo,
si espressero con un linguaggio comune.
Cézanne a Firenze: due collezionisti e la mostra dell’Impressionismo
nel 1910.
Firenze, Palazzo Strozzi
2 marzo - 29 luglio 2007
Tutti i giorni 9.00/20.00 - giovedì 9.00/23.00
Catalogo Electa
Info mostra +39 055 2645155
www.cezanneafirenze.it

Paul Cézanne, Autoritratto con berretto, 1873-75, San
Pietroburgo, Ermitage

Paul Cézanne, Natura morta con ciliegie e pesche, 1883-86,
Los Angeles, County Museum of Art
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