Nuova luce sull’Armadio degli Argenti

recensione di: Creighton Gilbert, Lex Amoris. La legge dell’amore nell’interpretazione di Fra Angelico, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 120, euro 14

di Gerardo de Simone

L’Armadio degli Argenti è una delle opere più complesse e affascinanti del Beato Angelico, ma anche, nonostante la notorietà delle singole scene, tra quelle non ancora sufficientemente studiate nel suo insieme. È così chiamato, metonimicamente, in quanto i trentasei scomparti quadrati che lo compongono – per un totale di trentacinque episodi, il Giudizio Finale occupa due scomparti – in origine fungevano da ante esterne dell’armadio ligneo che custodiva le preziose offerte votive (gli “argenti”, appunto) destinati dai fedeli all’affresco dell’Annunciazione venerato nella chiesa fiorentina della SS. Annunziata, collocato a sinistra dell’ingresso principale e incorniciato dal monumentale tabernacolo commissionato da Piero de’ Medici – committente anche dello stesso Armadio – a Michelozzo e Pagno di Lapo Portigiani (1448). L’armadio  era posto dietro il tabernacolo, nella prima cappella sinistra: il sistema convenzionale di apertura ad ante fu sostituito nei primi anni sessanta del Quattrocento da un più ingegnoso meccanismo a “cateratta”, cioè a saracinesca azionata da una carrucola (si vedano in proposito gli studi di E. Casalini, in “Commentari”, 14, 1963 e La SS. Annunziata di Firenze. Studi e documenti, Firenze 1971), con ogni probabilità per consentire un migliore accesso al vano della cappella. L’agile volumetto di Creighton Gilbert – pubblicato direttamente in traduzione italiana –, segna un decisivo progresso nella vicenda critica dell’opera, e ne chiarisce in modo risolutivo la lettura.
Gilbert infatti, recuperando un’indicazione presente sì in precedenti, lontani studi sulle tipologie biblico-iconografiche – A. von der Gabeläntz, Die Kirchliche Kunst im italienischen Mittelalter, Strasbourg 1907, e H. Cornell, Biblia Pauperum, Stockholm 1925 – ma finora del tutto trascurata nella bibliografia angelichiana, ha rintracciato in un manoscritto illustrato della Biblioteca Marciana di Venezia (Ms. Lat. I, 72 [=2501]) la puntuale fonte iconografica e testuale dell’intera opera. Come è noto, l’Armadio degli Argenti illustra nove episodi dell’infanzia di Cristo, dall’Annunciazione alla Disputa tra i dottori, tre relativi alla vita adulta di Cristo (Nozze di Cana, Battesimo, Trasfigurazione, spettanti alla mano di Alesso Baldovinetti), venti storie della Passione (dalla Resurrezione di Lazzaro alla Pentecoste) seguite dal Giudizio Finale e da altri due pannelli. Aprono e chiudono la serie due riquadri più complessi: il primo mostra uno schema, tipico dei trattati di mnemotecnica, a doppia ruota concentrica, con i quattro Evangelisti e i quattro apostoli autori del Nuovo Testamento in quello interno, dodici profeti in quello esterno, a evidenziare il tema canonico della concordia Veteris ac Novi Testamenti che informa tutto il ciclo narrativo; nei due angoli inferiori le figure accovacciate di Ezechiele e di S. Gregorio Magno, i cui passi rispettivi sono riportati negli angoli superiori – quello del profeta è infatti la fonte della “rota in medio rotae”, quello di Gregorio ne è il commento. Coerentemente, tutti gli episodi del ciclo sono incorniciati da due cartigli, uno in basso relativo al corrispondente passo evangelico, l’altro, in alto, indicante il precedente veterotestamentario. Nell’ultimo appare, sotto forma di una personificazione femminile, la Lex Amoris, ma gran parte del campo pittorico è occupata da una sfilza di cartigli affissi su di un candelabro a sette braccia e ai lati della croce d’oro svettante dal braccio centrale del candelabro, chiara simbologia della superiorità del Nuovo Testamento sul Vecchio: tale immagine è tratta, come per primo si avvide Orlandi (Beato Angelico, Firenze 1964, p. 120), da un passo della Summa Theologica di S. Tommaso (I. II. 107), nel quale sono anche citati i passi di Ezechiele e Gregorio presenti nel primo pannello. L’Aquinate è dunque il teologo della “Legge dell’Amore” del Nuovo Testamento contrapposta alla “Lex Timoris” del Vecchio, l’auctoritas alla base tanto del manoscritto veneziano quanto del dipinto dell’Angelico.
 La successione delle scene e la scelta dei testi di accompagnamento appare identica, con qualche eccezione, nell’Armadio e nel manoscritto. Quest’ultimo, sulla base dello stile dei disegni acquerellati, sembra risalire ai primi del Quattrocento ed essere di fattura norditaliana, forse veneta. Secondo Gilbert il ponte con il domenicano Angelico potrebbe individuarsi nell’ambiente dell’Osservanza servita: molti serviti osservanti provenienti dal Veneto sono attestati presso la SS. Annunziata a partire dal 1441, per iniziativa del veneziano Eugenio IV, favorevole agli osservanti; il più importante convento osservante era quello di S. Alessandro a Brescia, che aveva commissionato proprio all’Angelico nel 1431 una tavola con l’Annunciazione, pagandola nove ducati. Gilbert ritiene l’entità del compenso consona ad un dipinto di piccole dimensioni, non ad un pala d’altare, come si crede in prevalenza negli studi angelichiani, che sarebbe andata perduta, cadendo così l’ipotesi, finora assai accreditata, che essa possa essere stata eseguita e non consegnata (molti l’hanno identificata infatti con l’Annunciazione di Montecarlo) e che la pala commissionata a Jacopo Bellini nel 1444 possa considerarsi sostitutiva del dipinto dell’Angelico.
Nel manoscritto ciascun episodio neotestamentario è accompagnato da due precedenti tipologici veterotestamentari, di cui uno illustrato: l’Angelico mantiene solo il testo del typus non illustrato. La penultima scena dell’Armadio, sempre interpretata come Incoronazione della Vergine in virtù dello schema iconografico (malgrado l’implausibile seriorità rispetto al Giudizio e la non pertinenza delle iscrizioni), grazie al confronto con il manoscritto trova il suo reale soggetto nel Riposo eterno dell’anima ovvero Cristo incorona la vita eterna, presente anche nella Biblia Pauperum e la cui fonte prima è un passo della Civitas Dei di Agostino.
Le tre scene su citate dipinte dal Baldovinetti hanno sempre costituito un problema, sia quanto alla datazione, sia quanto all’ordine invertito tra le Nozze di Cana e il Battesimo, sia perché si è spesso creduto che in origine gli episodi della vita adulta di Cristo fossero di più, nove e non solo tre, così come nove sono le storie dell’infanzia. Una conferma in tal senso parrebbe venire del manoscritto marciano, in cui appunto sono nove, per un totale di quarantuno. Gilbert tuttavia, confrontando le dimensioni della cappella con quelle dell’Armadio nel suo insieme, argomenta che non ci sarebbe stato spazio sufficiente per le ipotetiche sei scene supplementari: di conseguenza sarebbe stata operata una selezione tra gli episodi della vita adulta, scartando i soggetti meno noti e meno (o quasi mai) ricorrenti nella tradizione, e dando un risalto particolare al Battesimo, in quanto sacramento; altrettanto si verifica con l’Eucarestia, simboleggiata da più episodi, e l’enfasi sacramentale è ribadita dall’elencazione di tutti i sacramenti – con i rispettivi passi biblici di riferimento – nel pannello conclusivo della Lex Amoris. In questo l’Angelico concentra, con miniaturistico virtuosismo, un sistema di iscrizioni che nel manoscritto occupa due pagine supplementari. Alla serie dei sacramenti in basso corrisponde, nella metà superiore, la serie dei dodici articoli del Credo niceno, con i ‘tipi’ relativi: qui il pittore mostra di attingere anche a codici del genere “Speculum Theologiae” (come il Salterio di Robert de Lisle).
Fin qui i meriti, come si vede molti e considerevoli, dello studio di Gilbert; non si può però tacere qualche appunto. Innanzitutto viene ignorata la voce bibliografica più puntuale ed esaustiva relativa all’Armadio, la scheda di Andrea De Marchi nel catalogo della mostra Una scuola per Piero (Venezia, 1992, pp. 114-120), i cui risultati nella ricostruzione della configurazione originaria dell’Armadio e della sua vicenda storico-critica anticipano molte delle conclusioni dello studioso americano. A proposito dell’intervento del Baldovinetti si può osservare che mentre De Marchi, come già molti altri, lo datava in contemporanea o a ridosso dell’esecuzione angelichiana (l’opera nel suo complesso potrebbe essere stata pronta per la data di consacrazione della cappella, l’8 gennaio 1453, e sicuramente entro il 22 dicembre dello stesso anno, quando alcuni operai sono pagati per il montaggio degli stipiti), Gilbert lo sposta invece un decennio più tardi, al momento della trasformazione del sistema di apertura; a me sembra preferibile la prima ipotesi (va ricordato che il Baldovinetti risulta documentato in relazione alla chiesa fin dal 1450, poi ancora nel 1454 e nel 1460-63), giudicando verisimile una chiamata dell’artista più giovane a completamento dell’opera, rimasta interrotta per la chiamata dell’Angelico a Roma dopo il biennio in cui fu priore del convento domenicano di Fiesole (1450-52), e anche in considerazione del carattere schiettamente angelichiano, tale da far sospettare l’esistenza almeno di un disegno preparatorio di mano dell’Angelico, delle composizioni baldovinettiane, pur stilisticamente improntate a una diversa epidermicità materica sensibile alla lezione di Domenico Veneziano.
In merito poi alla funzione del dipinto dell’Angelico, di sportello di chiusura di un mobile, Gilbert ricorda come precedenti le ventotto storie di Cristo e di san Francesco dipinte da Taddeo Gaddi nel 1335 come anta esterna di una grande credenza della sacrestia di S. Croce (chiesa per cui l’Angelico aveva eseguito un trittico nel 1429), oggi custodite nella Galleria dell’Accademia (già segnalate da J. T. Spyke, Angelico, Milano, 1996, p. 80), il Reliquiario del Corporale in smalto nel Duomo di Orvieto, la tradizione veneziana delle porte dipinte (ad esempio delle ante di tabernacoli sugli altari), nonché, su scala monumentale, le porte bronzee del Ghiberti per il Battistero di Firenze; a questi ritengo che si debbano aggiungere anche alcuni esempi senesi, in particolare l’Arliquiera del Vecchietta per la ex cappella delle reliquie in S. Maria della Scala (1444), preceduta nel secondo Trecento dal trittico a sportelli del Museo di Pienza (proveniente dalla chiesa di S. Niccolò a Spedaletto) e nel primo Quattrocento dall’armadio di Benedetto di Bindo per la sacrestia del Duomo di Siena, e seguita dalle Storie di S. Giovanni Battista di Giovanni di Paolo (cfr. C. B. Strehlke in La pittura senese del Rinascimento, Milano 1989, p. 231).
Infine, Gilbert definisce l’Armadio degli Argenti “l’ultima opera dipinta da Fra Angelico, prima della sua morte nel 1455”. Tuttavia, come credo di avere dimostrato in altra sede (“Ricerche di storia dell’arte”, 76, 2002, pp. 41-87), l’Angelico si recò a Roma negli ultimi anni di vita (forse già dopo aver rifiutato, nel marzo del 1452, l’offerta di decorare la cappella maggiore del Duomo di Prato) per affrescare il chiostro di S. Maria sopra Minerva con il ciclo delle Meditationes elaborato dal cardinale spagnolo Juan de Torquemada, committente dell’opera. Tale ciclo, includente storie del Vecchio e del Nuovo Testamento ed altri soggetti (come lo stesso cardinale in adorazione di san Sisto, la processione del Corpus Domini, la Messa dei morti), era contraddistinto da una cospicua presenza di testo scritto in calce ad ogni scena. L’interrelazione quanto mai complessa e inestricabile di parole ed immagini era ancora più sviluppata di quanto avviene nell’Armadio degli Argenti, che pure viene a ragione indicato da Gilbert come l’opera in cui l’impiego di iscrizioni da parte dell’Angelico (artista tra i più inclini all’adozione di inserti verbali lungo tutto il corso della sua produzione) raggiunge il suo acme. Inoltre il ciclo perduto è ricostruibile dalle illustrazioni di alcuni codici manoscritti e incunaboli a stampa delle Meditationes, che riproducono in modo spesso molto fedele le composizioni originarie: si profila così, sia pure con un rapporto inverso rispetto a quello tra il manoscritto marciano e la Lex Amoris, un quadro, meritevole di approfondimenti ulteriori, degli ultimi anni dell’attività del pittore domenicano contrassegnato da un intreccio sempre più fitto tra produzione pittorica e cultura letterario-teologica, con un fertilissimo, reciproco interscambio tra progettazione iconografica e sistema di elaborazione e impaginazione dei libri illustrati.


Beato Angelico, Rota in medio rotae, part. dell’Armadio degli Argenti, Firenze, Museo di San Marco


Beato Angelico, Cristo incorona la vita eterna, part. dell’Armadio degli Argenti, Firenze, Museo di San Marco



Rota in medio rotae, Venezia, Bibl. Marciana, ms. Lat. I, 72 [=2501], f. 1v

 

Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano, Bruno Mondadori (collana “Sintesi illustrata”), 2006, 256 pp., ill. in b/n e a colori, ISBN: 88-424-9238-8, € 40,00.

di Federica Veratelli

 

Il volume di Simone Ferrari colma una lacuna spesso lamentata nel panorama degli studi sull’ambiente artistico veneziano fra Quattro e Cinquecento e i suoi legami con il Nord. La definizione della personalità artistica di Jacopo de’ Barbari è questione spinosa, perché viziata da una vicenda storiografica ampia e stratificata, che ha dato luogo a malintesi interpretativi e ad uno scenario «quasi privo di certezze», come indica lo stesso studioso nella premessa al volume (Questioni risolte e problemi aperti, p. VII). Nella bibliografia sull’artista «luogo e data di nascita, formazione, interpretazione del simbolo del caduceo, catalogo dei dipinti, cronologia delle incisioni, rapporti con Dürer, valore intrinseco dell’artista vengono infatti prospettati secondo opposte modalità o non trovano soluzione».
La ricerca – che trova pubblicazione in questa che si presenta come la prima monografia sull’artista – ha creato sin da subito non pochi problemi, in parte superati grazie alla verifica dei documenti e ad un attento spoglio bibliografico, che ha permesso di rintracciare testimonianze successive poco conosciute sull’artista, contribuendo a fornire un quadro più completo su questa personalità eclettica del Rinascimento veneziano. Infatti, è soprattutto attraverso la sua fortuna critica (cui questo lavoro dedica ampio spazio) che la figura di Iacomo de Barberino Veneziano (come lo chiama il Michiel) sembra acquistare rinnovato vigore e fuoriuscire dal panorama «assai nebuloso» che lo ha sempre contraddistinto: fortuna critica che qui è «intesa non come successione di diverse opinioni ma come fondante momento di snodo, di possibile soluzione di singoli problemi, di variegato telaio che contribuisce a delineare l’effettiva e non banale caratura del maestro».
Proprio ad un primo dispiegamento di alcune questioni legate alla analisi della sua fortuna critica è dedicato il primo capitolo (La fortuna critica di Jacopo de’ Barbari: problemi di geografia artistica, pp. 1-15), che indaga con chiarezza e cognizione le prime indicazioni e le letture che si sono susseguite dal Cinquecento in poi, con momenti di alta concentrazione critica successiva, come l’Ottocento e il Novecento. Le tematiche , alla «sfortuna» critica che invece sembra investirlo in patria sin dal silenzio vasariano, dal rapporto con l’incisione italiana (Mantegna) e nordica (Schongauer e Dürer), al nesso «labile e poco risolutivo» Barbari-Bellini, fino ai richiami alla bottega di Alvise Vivarini, al Messina e al Lotto. Partendo dai dati più sicuri come la sua origine veneziana (già attestata da Michiel come da Dürer), lo studioso propone, inoltre, soluzioni ad alcune controversie attraverso una rigorosa verifica e contestualizzazione dei dati a nostra disposizione: come la data di nascita, per la quale viene suggerito il 1475, una data che sembra concordare con la cronologia individuata delle opere. Altre questioni di difficile soluzione riguardano, in primo luogo, «l’impossibilità di circoscrivere il suo stile entro i tranquillizzanti parametri di una “scuola regionale” e di ricondurre le opere fra comodi schemi consolidati». Proprio questa sua caratteristica analizzata insieme alla sua «precoce versatilità in ambito incisorio» (si veda la celebre celebre Veduta di Venezia), riconosciuta in pieno già dal Kristeller (Das Werk des Jacopo de’ Barbari, Berlin, 1896), induce lo studioso a riflettere maggiormente sulle origini del maestro e a ipotizzare un legame di parentela stretto con Georg Walch, celebre stampatore tedesco attivo a Venezia fra gli anni settanta e ottanta del Quattrocento (cap. 2: Una traccia per le origini di Jacopo de’ Barbari, pp. 17-22). Il terzo capitolo (Gli anni veneziani di Jacopo de’ Barbari, pp. 23-49,  già apparso nel 2002 in forma di articolo in «Arte Veneta», 59, pp. 66-83) è dedicato, invece, alla questione del “caduceo”, ovvero l’emblema utilizzato dall’artista per siglare le opere (soprattutto le incisioni), alla formazione in ambito veneziano e alla prima attività pittorica e incisoria. Altre problematiche sorgono in relazione alla «disgiunzione» esistente «fra l’attività grafica e quella pittorica che si manifesta a vari livelli e riaffora in diversi momenti». Una discontinuità che si riflette anche nella scelta delle fonti figurative, che induce lo studioso a riconoscere due fasi distinte nell’attività pittorica del maestro: una prima “italiana” e una seconda (a partire dal 1500) più marcatamente “nordica”. È a quest’ultima fase che è dedicato essenzialmente il quarto capitolo che si occupa del percorso figurativo dopo gli anni veneziani e che tenta di ricostruire il catalogo pittorico ed incisorio fortemente influenzato da modelli stilistici e tematici nordici (Dopo Venezia: il percorso figurativo, pp. 51-59). A favore della ricostruzione di questa fase (a partire dal 1500 in poi), concorrono un «decisivo incremento dei dati a nostra disposizione»: dati generati dai suoi spostamenti e provenienti dai luoghi di soggiorno (come Norimberga, Wittemberg, Malines, Bruxelles e Anversa), come dai nomi dei committenti certificati da documenti d’archivio (l’imperatore Massimiliano, Federico il Saggio, Enrico V il Pacifico, Alberto di Brandeburgo, Filippo di Borgogna e Margherita d’Austria). Mentre il capitolo quinto riguarda le testimonianze di elogio da parte di umanisti e letterati nei confronti del maestro, un aspetto dimenticato dalla storiografia precedente sull’artista (1500-1508: Jacopo de’ Barbari fra gli umanisti, pp. 61-68), il sesto e ultimo capitolo si occupa della fortuna letteraria di Jacopo de’ Barbari nel decadentismo, “un filone” come osserva Ferrari «fino ad ora trascurato ma non privo di allusioni, menzioni, spunti critici (alternati a fraintendimenti) relativi all’artista» (La fortuna di Jacopo de’ Barbari nel decadentismo, pp. 69-78).
Segue l’accurato catalogo delle opere che costituisce un punto di riferimento essenziale per gli studiosi, dove trovano una convincente collocazione i dipinti (come il problematico Commiato di Cristo dalla Madre della Galleria Franchetti, il discusso Ritratto d’uomo con la Coppia di nudi di Berlino, la celebre Natura morta di Monaco, datata e firmata), le incisioni su rame, le xilografie, i disegni, le opere già attribuite. Concludono gli apparati: un regesto, una utilissima appendice documentaria che raccoglie le trascrizioni di tutti i documenti relativi al maestro e l’aggiornato (e impressionante) corpus bibliografico di riferimento.


Jacopo de’ Barbari, Commiato di Cristo dalla Madre, olio su tavola, 1498-1499 circa, Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro.


Jacopo de’ Barbari, Veduta di Venezia, xilografia (stampata su sei fogli), 1500, Venezia, Museo Correr.

Donne d’arte. Storie e generazioni, a cura di Maria Antonietta Trasforini, Meltemi Editore, 2006, ill. b/n, pp. 236, € 19,50.

di Cecilia Vicentini

Fin dai primi anni Settanta in America e in Europa prende avvio la ricerca sul tema delle donne artiste, promossa e condotta da studiose di vari settori disciplinari e, naturalmente, storiche dell’arte. E’ con Linda Nochlin, agli albori del 1973, con i suoi allarmati interrogativi sull’assenza delle donne nei racconti di storia dell’arte, che prese avvio una prima fase di studi tesa a riconferire la legittima rilevanza a figure femminili del passato da sempre ignorate; qualche anno dopo (1979) fece eco dall’Inghilterra la voce di Germaine Greer  mentre negli anni Ottanta (1981) con Roziska Parker e Griselda Pollock la questione delle costruzioni di genere - ossia l’insieme delle strutture culturali del maschile e del femminile nella società - appariva già nella sua complessa natura di fenomeno proteiforme.
Su questo terreno scosceso per molti versi e ancora privo di un saldo sostrato teorico, si innesta il libro curato da Maria Antonietta Trasforini che prende vita da una serie di conferenze sulla presenza delle donne nell’arte, dal titolo Donne arte: visibilità e memoria, promossa dall’Udi (Unione Donne Italiane) e dalla Casa delle Donne di Pesaro, svoltesi nell’arco del 2004. Un taglio sociologico accomuna i vari interventi che, benché scaturiti da esperienze, generazioni, siti ed attività diverse, lasciano trapelare, in quanto riflessioni sul tema, l’intenzione della curatrice di rendere il ruolo delle donne nell’arte un oggetto di studio sistematico anche in Italia ma altresì di adottarne il punto di vista di genere per riscrivere una storia socio-culturale finora parziale e “a senso unico”. Un primo passo in tale direzione era già stato mosso da Maria Antonietta Trasforini qualche anno fa con la pubblicazione del volume Arte a Parte. Donne artiste fra margini e centro (Milano, FrancoAngeli, 2000) e con l’attività di curatela nell’ambito dell’ormai XII edizione della ferrarese Biennale Donna, organizzata dall’Udi di Ferrara in collaborazione con la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea della stessa città.
Funzionalmente diviso in due parti, il volume è attraversato da un gran numero di protagoniste e co-protagoniste, mai solo semplici comparse, che, da altrettanti ambiti di provenienza, rivestono gli alterni ruoli di storiche-contemporanee-narranti, artiste, imprenditrici, mogli e figlie-narrate, intessendo una fitta trama di corrispondenze fra interpreti. La prima sezione, indicativamente chiamata Storia/Storie dell’arte, volge lo sguardo al passato nel tentativo di rimarcare, sfruttando una nuova e consapevole cognizione di sé, l’impellente necessità di ridare voce e visibilità a chi, fino a tempi recenti, è rimasta “a parte”.
Alle artiste futuriste è dedicato l’intervento di Lia Giachero utile a dimostrare quanto le strutture mentali dei primi decenni del Novecento ancora non fornissero a queste donne, capaci di creare e di scendere in campo nello schieramento di uno storico movimento d’avanguardia, gli strumenti utili ad identificarsi in un concetto di genere, plasmate dal complesso e apparentemente ambiguo ruolo di cui il movimento marinettiano rivestì le proprie donne. Alla luce della vasta risonanza culturale ed artistica riconosciuta oggi alla loro cospicua presenza in queste fila, a partire dalla pubblicazione del 1982 di Claudia Salaris (Le futuriste. Donne e letteratura d’avanguardia in Italia (1909-1944)) fino al fondamentale contributo di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli del 1997 (The Women Artists of Italian Futurism. Almost lost to History), risultano di particolare interesse i saggi di Sabrina Spinazzè, Elena Pontiggia ed Anty Pansera, illuminanti per comprendere come le donne abbiano saputo affrontare e valorizzare lo “spazio” in cui coercitivamente vennero ghettizzate fino agli anni Cinquanta. E’ proprio il concetto di spazio ad essere indicato dalla curatrice stessa nell’Introduzione come tema chiave nell’analisi dei diversi contributi, una sorta di filo rosso che, assumendo via via accezioni diverse, propone un sempre valido punto di riferimento interpretativo. Spazio “pubblico” come raggiungimento di un percorso che muove dagli spazi privati riservati alle donne di fine Ottocento, quando Berthe Morisot e Mary Cassatt erano indotte a dipingere per lo più ambienti loro accessibili connotandoli sulla tela di misogine demarcazioni; o “spazio della tutela” dell’Associativismo femminile durante il Ventennio, quando le potenziali eversive del gruppo femminista vennero forzatamente convogliate negli argini della politica fascista; o ancora passaggio da uno spazio domestico ad un ambiente imprenditoriale come Anty Pansera delinea sottolineando le capacità delle artiste/artigiane di primo Novecento.
Sabrina Spinazzè si inserisce in questo quadro ripercorrendo i momenti principali della valorizzazione dell’attività intellettuale e artistica femminile nel periodo fascista: ne individua gli organi costitutivi, i piani di azione e le fondamentali figure di riferimento attive nell’illusoria partecipazione ad una vita pubblica ad appannaggio, allora, esclusivamente maschile. E’ lo spazio di un singolare compromesso quello in cui indaga la Spinazzè,  il campo d’azione che donne come Maria Castellani, Antonietta Paoli Pogliani e Adriana Apolloni hanno ritagliato, sotto il vessillo dell’ A.N.F.D.A.L., fra una ferma volontà di partecipazione al lavoro e alla cultura e l’immolarsi all’imprescindibile funzione riproduttiva nel nucleo famigliare. Se per la lettura di questi contributi non si è reso finora urgente il ricorso a specifiche opere, con l’intervento di Elena Pontiggia  lo sguardo sull’arte si fa più preciso e mirato a singole personalità tutte riconducibili a determinati movimenti o tendenze ascrivibili agli anni fra le due guerre, mai soggetti artisticamente isolati. Nello studio di artiste come Edita Broglio, Paola Consolo, Antonietta Raphael, Carla Badiali, Maddalena Nodari e Genni Mucchi - alcune delle quali presenti nella recente retrospettiva tenutasi a Roma presso la Galleria Cortese & Lisanti dal titolo Donne d’arte. Pittura a Roma da Antonietta Raphaël Mafai a Giosetta Fioroni - si richiede l’utilizzo da parte del lettore di quegli stessi strumenti d’analisi contestuali e sociologici atti ad indagare il contesto d’azione secondo direttive di genere.
La seconda parte del testo, intitolata Arte relazionale e narrazione, si fa dinamica e decostruttiva. Dopo uno sguardo rivolto al passato e finalizzato ad un faticoso recupero del dimenticato, ora si parte da un’affermazione femminile in campo artistico ormai assodata ed universalmente riconosciuta, documentata dalla metà degli anni Ottanta, ad esempio, dalla rivista tedesca «Kapital» nell’annovero di un numero sempre più consistente di donne all’interno della propria Kunstkompass annuale. Gli interventi delle autrici che ritroviamo in questa seconda sezione, Laura Iamurri, Emanuela De Cecco, Giorgina Bertolino ed Annalisa Cattani, non si soffermano però su questo dato comprovato e statico ma stimolano l’attenzione del lettore nei meandri di un percorso finalizzato a sviscerarne i molteplici fattori costitutivi all’insegna del concetto di “relazione”. Naturalmente non vengono presentati con una  pretesa esaustiva ma si propongono come brevi compendi dotati di una professionale impostazione teorica concepita come fonte di inevitabili riflessioni critiche.
Il contributo forse più emblematico ai fini della comprensione di un tale pensiero è il testo di chiusura di Emanuela De Cecco per la volontà di rendere palpabile ciò che il contesto, inteso come insieme delle “ragioni complesse che stanno attorno all’arte come pratica….” può determinare. L’autrice estrapola dal proprio libro di conversazioni con diciannove artiste, chiamate ad esporre alla mostra Non toccare la donna bianca tenutasi presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino dal settembre 2004 al gennaio 2005, alcune parti significative. Sono narrazioni che si svolgono “a margine di una mostra” ma che ne risultano parte integrante e fondamentale in quanto riflessioni non sull’oggetto artistico quanto piuttosto sul fare arte. Le protagoniste provengono per lo più da paesi in cui la situazione socio-politica risulta difficile, Bosnia, Sudafrica, Brasile e Russia, ed imprime tracce ben riconoscibili nello svolgimento di una pratica che risulta particolarmente intaccata in condizioni di negatività. Il contesto, termine da considerare veramente nella sua accezione più ampia, dall’ambito famigliare a quello geo-politico, le scuote ispirandole oppure le paralizza e disorienta, le spinge ad andarsene e a tornare, ma sempre emerge come variabile attiva influendo anche sulla ricerca di una propria identità in termini di appartenenza o estraneità rispetto ad un movimento, un linguaggio artistico, una famiglia. Testimonianze dunque che mostrano il delinearsi di questa in relazione a variabili molteplici ed ineludibili che fanno della donna un soggetto storico cui riferirsi per misurare le distanze fra le diverse società. Distanze e difformità che la De Cecco, in veste di critica e curatrice, sa di dover trasporre e trasmettere in assetti fruibili dove trovino adeguati spazi per esprimersi e mettersi a confronto.
Tutti i messaggi di questa seconda sezione del volume emergono altresì da una contrapposizione, da un incontro, da un accostamento di entità di cui necessariamente si frantumano i confini per poi riabbozzarli secondo nuove conquiste fatte sul campo dell’indagine socio-artistica e basate su una nuova autenticità dei rapporti. Le prime demarcazioni ad essere abbattute riguardano le figure del critico d’arte e dell’artista stesso tramite un imprescindibile richiamo ad Autoritratto di Carla Lonzi (Bari, De Donato Editore, 1969). Laura Iamurri propone infatti un’accurata analisi dei concetti fondamentali che informarono questa scardinante pubblicazione artistica alla luce di alcune personali annotazioni dell’autrice in un diario, per lo più successive al ’69, funzionali alla ricostruzione di un pensiero e di un contesto eversivi. La volontà di ridimensionare lo spazio e l’autorità concessa da sempre al critico d’arte per dare una soddisfacente risposta alla domanda che assillante si affacciava al pensiero di Carla Lonzi - l’artista chi è? - sposta nettamente lo sguardo, nel continuo fluire di voci degli intervistati, dall’opera all’individuo. Non che dell’arte ci si dimentichi ma, come in una sorta di enorme preterizione, focalizzando l’attenzione su altro, divagando e sfuggendo, ciò che conta emerge in tutta la sua pregnanza. Una richiesta di complicità dunque di cui si deve registrare un fallimento alla cui permanente amarezza si aggiunge la sconfitta nel campo del femminismo ma che porta ancora l’autrice, nell’‘81 (testo senza titolo in Identité italienne, L’Art en Italie depuis 1959, Paris, Centre Georges Pompidou-Firenze), a scrivere di sé.
Lo strumento dell’intervista in campo artistico risulta protagonista anche nello studio di Giorgina Bertolino: condotte per una collana di cataloghi espositivi della Luigi Franco Arte Contemporanea di Torino, le domande vengono formulate ad artisti italiani del secondo Novecento, equamente divisi fra maschi e femmine, e riportate nel testo scritto mantenendo la colloquialità del parlato, come Carla Lonzi già sperimentò scardinando anche le fondamentali regole di questo genere letterario. Concepita come mezzo di indagine comparativa l’intervista non delude mostrando emblematiche divergenze di genere in merito a fondamentali questioni artistiche fin dagli esordi: opera o lavoro? Una distanza semantica che riflette dissimili approcci relazionali al mondo dell’arte ma che svela retaggi filosofici che fanno capo ad Hanna Arendt (The human condition, The University of Chicago; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 2004) e focalizza l’attenzione su un nuovo indiscusso protagonista del modo artistico femminile di fine Novecento: il corpo. Una fisicità in repentino mutare, che trae linfa vitale dalle conquiste del femminismo, si fa protagonista del quotidiano e di tante performance. Ancora demarcazioni che vengono abbattute, ancora nuovi contorni che, più flessibili, si ridisegnano. Non sempre fonte di serene riflessioni , infatti, ma spesso rivelatore di ancestrali tormenti interiori, come nelle famose istallazioni di Marina Abramovich, il corpo assume significato in rapporto ad una nuova fondamentale variabile, lo sguardo. Sguardo di chi guarda ma anche di chi è guardato - performance VB52 nella mostra al Castello di Rivoli di Vanessa Beecroft, analizzata nel primo saggio di Emanuela De Cecco - veicolo e cemento di nuove relazioni.

Naturalmente in tale contesto elemento demiurgico risulta il pubblico e lo spazio pubblico ormai invaso e pioneristicamente occupato da donne artiste: Annalisa Cattani esplora, artista lei stessa, alcuni esempi di Public Art nei lavori di Elisa Vladilo, Eva Marisaldi, Mili Romano, Sabrina Muzzi e Adriana Torregrossa, per dare prova del nuovo assetto dell’arte contemporanea cui non è più consono allineare l’aggettivo “femminile” in quanto specificazione superflua nella comprensione dell’opera. I lavori di queste artiste italiane vengono presentati per essere letti nella loro carica concettuale, nel loro apporto alla ricerca artistica degli ultimi anni, nella capacità di utilizzare tutti gli strumenti  oggi possibili per l’espressione di concetti universali.


Vanessa Beecroft, VB 52, performance, 2003, Castello di Rivoli

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