Fra Angelico a New York: bilancio di una mostra
The Metropolitan Museum of Art, New York, 26 ottobre 2005-29 gennaio
2006
catalogo a cura di L. Kanter e P. Palladino, The Metropolitan Museum
of Art, New York 2005
di Gerardo de Simone
Nel 550 anniversario della morte (1455-2005), il Metropolitan di
New York ha reso omaggio al Beato Angelico con una grande mostra monografica
(la prima su suolo americano, preceduta in Italia solo dalla mostra
cinquecentenaria in Vaticano nell’ormai lontano 1955), curata
da Laurence Kanter con la collaborazione di Pia Palladino. Per il numero,
la qualità e spesso la novità delle opere esposte, per
l’inclusione dei pittori dell’orbita angelichiana (Battista
di Biagio Sanguigni, Zanobi Strozzi, il Pesellino, Benozzo, il Maestro
del Chiostro degli Aranci), per la radicalità e l’estensione
delle proposte critiche, la mostra e il catalogo relativo rappresentano
il tentativo più ambizioso di ridefinizione dell’intero
percorsodell’Angelico da trent’anni a questa parte, vale
a dire dalla standard monograph di Pope-Hennessy del 1974
e dai saggi di Boskovits del 1976. Nell’impossibilità di
documentare in sede espositiva la produzione ad affresco e le grandi
pale d’altare, ha sopperito il catalogo offrendo una mappatura
pressoché completa.
Innanzitutto a venire delineata con una fisionomia del tutto nuova è stata
la fase iniziale della formazione e dell’attività di Guido
di Pietro prima del suo ingresso nell’ordine domenicano, con
l’ipotesi di un alunnato nella bottega di Lorenzo Monaco, il
principale pittore attivo a Firenze nei primi due decenni del Quattrocento.
La mano del giovane Angelico viene ravvisata in alcuni scomparti di
predella di pale di don Lorenzo, ad esempio dell’Incoronazione
della Vergine per S. Maria degli Angeli (1414), in virtù di
un razionalismo compositivo e di un realismo rappresentativo alieni
dal goticismo astraente del maestro. Così nei disegni acquerellati
che illustrano iniziali e bas-de-pages di un graduale oggi
smembrato (cat. 1), la mano di Guido è ipotizzata negli elementi
fogliacei e vegetali, la cui fragranza naturalistica spicca a cospetto
dell’irrealismo spaziale delle storie che incorniciano. Uno studio
approfondito è stato condotto dalla Palladino sul rotulo illustrante
le Peregrinationes di Petrus de Cruce (1417 c., cat. 5), resoconto
edificante del pellegrinaggio in Terra Santa del terziario domenicano
(combinato con il Viaggio ai luoghi santi di Giorgio Gucci),
importante sia per il probabile coinvolgimento come disegnatore del
giovane Fra Giovanni, sia in relazione al contesto storico, culturale
e religioso (la riforma degli ordini monastici – con il domenicano
Giovanni Dominici in prima linea –, la fortuna letteraria
e iconografica delle Tebaidi).
Uno spostamento di datazione all’indietro investe la maggior
parte dell’opera dell’Angelico: negli anni tra il 1415
e il 1420 c. sono collocate le opere giovanili, quali le Madonne di
Cedri (Pisa), dell’Hermitage di San Pietroburgo, di Rotterdam
(cat. 6), le due inedite, notevoli tavolette con Angelo annunciante e Annunciata di
collezione privata (cat. 3), la Crocifissione Griggs (cat.
8), il San Gerolamo di Princeton (cat. 9). Al 1419-21, a logico
ridosso dell’insediamento della comunità monastica osservante
(per iniziativa proprio del citato Dominici), è anticipato l’altar
maggiore per San Domenico a Fiesole – presente in mostra con
alcuni scomparti minori (cat. 10) –, di cui Kanter rilegge acutamente
le radiografie eseguite da Baldini nel 1972, avvedendosi dell’edicola
incorniciante la Vergine (come nella coeva Madonna di Francoforte)
prima del restyling tardoquattrocentesco di Lorenzo di Credi,
e individua le derivazioni, valide come ante quos, in Bicci
di Lorenzo, Arcangelo di Cola, Giovanni da Ponte ed altri. La pala
fiesolana inaugurerebbe così la “velvet revolution” impersonata
dall’Angelico, precedente, e non meno influente sulla scena fiorentina,
quella più radicale di lì a qualche anno capeggiata da
Masaccio. Come ben compreso da Vasari e da Longhi (1940), l’Angelico
fu il primo e più dotato intenditore delle novità masaccesche;
ma il suo genio si manifestò prima e indipendentemente dal grande
valdarnese, sviluppando una poetica meno rivoluzionaria e meno drammatica
ma più ricca e sfumata: per la propensione agli effetti luministici
e alle tonalità chiare (che ne fa uno dei capifila della bellosiana “pittura
di luce”), per il gusto per la preziosità decorativa (arricchito
dal contatto con Gentile da Fabriano), per la sensibilità unica
nel tradurre in pittura le verità di fede e i messaggi teologici,
di impronta tomista.
Ancora più sostanzioso, rispetto alla datazione comunemente
accettata, l’anticipo del trittico dipinto per il convento domenicano
femminile fiorentino di S. Pietro Martire (fondato nel 1417), di cui
era visibile in mostra la predella (cat. 13; giusta l’identificazione
di Cecilia anziché Dorotea: le sante effigiate sono le stesse
di uno dei reliquiari commissionati all’Angelico da Giovanni
Masi, dei quali Kanter propone, su base stilistica, una cronologia
scansionata nel tempo, dal 1425 c. della Madonna della stella al
1433-34 c. della Dormitio/Assunzione di Boston [cat. 28]):
solitamente ancorato a ridosso del saldo di pagamento finale del 1429
e interpretato in chiave di influenza masaccesca, viene riferito al
1421-22 (nel 1421 si stabiliscono le prime monache nel convento) da
Kanter, il quale giudica il realismo delle figure autonomamente maturato
dall’artista, anche alla luce delle persistenti imprecisioni
proporzionali e prospettiche. Al 1424 c. è arretrato il Giudizio
Universale proveniente da S. Maria degli Angeli, congetturando
una commissione a Lorenzo Monaco passata all’Angelico a seguito
della morte del primo. La prima opera denunciante con chiarezza l’impatto
con Masaccio sarebbe l’Annunciazione del Prado, in via
ipotetica legata ad un documento del 1425. Su questa linea si collocano
le Madonne delle collezioni d’Alba e Thyssen (cat. 18 – di
cui segnalerei i puntuali echi nella Madonna di Alvaro Pirez
in S. Croce in Fossabanda a Pisa).
La brillante connoisseurship di Kanter ha trovato poi un campo
di applicazione privilegiato nella ricostruzione di opere smembrate,
ricomposte come con gli sparsi e frammentari pezzi di più puzzle:
le due tavole con quattro santi di collezione privata (cat. 12), associate,
come laterali di trittico, alla Crocifissione scoperta da
Russell nel 1996; le due coppie di santi della Yale University Art
Gallery con l’Angelo e l’Annunciata del
Getty Museum (cat. 16); il tabernacolo, incompleto, avente come centrale
la splendida Madonna dell’umiltà di Parma (1428-30
c., cat. 21); il trittico dipinto per la compagnia di S. Francesco
in S. Croce a Firenze, (1429 c., cat 24), ricostruito per merito di
Boskovits (1976), Henderson e Joannides (1991); la predella divisa
tra i musei di Fort Worth, San Marco, Philadelphia, San Francisco e
la coll. Feigen di New York, ricomposta nel tempo da Longhi (1940),
Fahy (1987) e Kanter (2000), base di un polittico avente secondo quest’ultimo
nella cuspide centrale il Redentore benedicente di Hampton
Court e gli Angeli adoranti della Galleria Sabauda, nelle
laterali l’Angelo annunciante e l’Annunciata di
Detroit, e che, se si accettasse l’identificazione della Madonna
di Pontassieve come centrale del polittico originario, potrebbe
risalire all’altare della cappella da Filicaia in S. Croce (1430
c., cat. 25).
La fase pienamente, ma tutt’altro che passivamente, masaccesca,
documentata dalle ultime tre opere citate e al massimo grado dall’Annunciazione di
Cortona (1430-31 c.) e dalla Deposizione Strozzi (1432 c.),
mostra un miracoloso equilibrio tra austero ‘classicismo’ e
virtuosistico naturalismo: culmina nell’Incoronazione della
Vergine del Louvre (1432-34 c.), capolavoro insuperato di sofisticatezza
prospettica e di raffinatezza mimetica. Nella seconda metà del
quarto decennio Kanter coglie una svolta verso un’accentuata
monumentalità figurale e un’inedita ricerca di pathos drammatico:
le composizioni si fanno più serrate e compatte, i personaggi
si schierano sul primo piano o in prossimità di esso, i fondali
sono meno profondi, viene meno il minuzioso descrittivismo anche paesistico.
Eloquente in proposito il confronto tra la Deposizione Strozzi
e il Compianto di S. Maria della Croce al Tempio (1436-41).
A questa nuova poetica sarebbero improntati, pur nella loro diversità,
i due grandi cicli ad affresco di S. Marco (1438-43) e della Cappella
Niccolina (1448). La pala d’altare conclusa in tempo per la consacrazione
di S. Marco il 6 gennaio 1443, alla presenza di Eugenio IV e di Cosimo
de’ Medici, rappresenterebbe la prima formulazione angelichiana
di ‘sacra conversazione’ ovvero di ‘pala quadrata’ (cat.
34): Kanter infatti – e l’ipotesi è insieme innovativa
e convincente – considera la pala di Annalena, per lo più datata
al 1434 c. (talora ritenuta una delle pale brunelleschiane di S. Lorenzo),
una evidente derivazione dalla pala di S. Marco (e da quella di Bosco
ai Frati del 1449-50 c.), e ne assegna l’esecuzione a Zanobi
Strozzi, su disegno o sotto la supervisione dell’Angelico; il
convento di Annalena, da cui l’opera proviene, verrebbe così ad
essere plausibilmente la destinazione originaria del dipinto, e la
datazione, conseguente alla fondazione nel 1453, ovvero all’indomani
della definitiva partenza dell’Angelico per Roma, spiegherebbe
bene il passaggio di commissione all’allievo.
Più problematica invece la questione relativa al polittico di
Perugia (cat. 30): Kanter ne accetta, sulla base di considerazioni
stilistiche, la datazione al 1437 testimoniata da una fonte cinquecentesca;
Strehlke invece (p. 206) condivide l’ipotesi di Middeldorf (1955)
e De Marchi (1985), da molti accettata, di ritardarne l’esecuzione
di un decennio (posizione che ritengo più convincente). Una
replica della pala perugina, e, nella predella, di quella dell’Incoronazione del
Louvre, sarebbe il trittico di Cortona, assegnato ad un assistente
di bottega su disegno del maestro e datato agli anni quaranta.
Non meno riccamente documentata la tarda maturità: il fiammingheggiante Cristo
coronato di spine di Livorno (cat. 33), di cui Palladino propone
una datazione al 1439-41, ricordando l’ipotesi di Brunetti (1977)
che lo identificava con il “volto sancto” ricordato in
un inventario sull’altare dell’Annunziata nell’omonima
chiesa fiorentina; il Giudizio universale di Berlino (cat.
32, nel quale l’Inferno, come già nella tavola di S. Maria
degli Angeli, è modellato sull’affresco del Camposanto
pisano), decurtato e ridotto a trittico in un secondo momento, di probabile
provenienza romana (vista la copia fattane dallo Spranger per Pio V) e
committenza domenicana, forse cardinalizia per la posizione preminente
(notata già da Bode nel 1888), tra i Beati indossanti l’abito
dei frati predicatori, assegnata ad un porporato identificato dal cappello
e affiancato da un pontefice: potrebbe trattarsi o dell’aragonese
Juan de Casanova (morto nel 1436), come sembra preferire la Palladino
per ragioni di cronologia (contrariamente alla datazione corrente posteriore
di almeno un decennio), oppure di un altro spagnolo, Juan de Torquemada,
creato cardinale nel 1439. Certamente a quest’ultimo spetta invece
la commissione della Crocifissione del Fogg Art Museum (cat.
39, datata sempre da Palladino al secondo soggiorno romano anziché,
come in prevalenza, al primo), probabile centrale di un trittico di
cui si conosce, anche se solo in fotoriproduzione, un laterale con S.
Sisto, alla quale avrebbe giovato il confronto fotografico (vista
l’irreperibilità dell’originale) con la Crocifissionescovata
da Boskovits nel 1983, di identica committenza e candidata plausibile
anch’essa, a mio avviso, come centrale del S. Sisto.
Benché non presente in mostra, un tentativo di chiarimento ha
ricevuto un altro Giudizio, conservato nella Galleria Corsini
di Roma: Palladino ha sostenuto infatti la non pertinenza, già sospettata
in passato, dei laterali attualmente con esso incorniciati, raffiguranti
l’Ascensione e la Pentecoste – forse
smembrati da un ciclo della Passione –, e ha riabilitato l’ipotesi,
finora confinata alla bibliografia botticelliana, di identificare il Giudizio con
quello facente un tempo parte del lascito di Francesco del Pugliese
alla chiesa di S. Andrea a Sommaia (presso Firenze), che si presentava
fiancheggiato da due ‘ali’ di mano del Botticelli; tuttavia
rileggendo gli inventari Corsini (Magnanimi 1980) resta più verisimile
l’originaria provenienza romana delle tre tavole e tutto sommato
anche l’appartenenza ad un’unico ciclo; non è infondata
inoltre l’ipotesi di Strehlke che le scene rispecchino alcune
delle Storie di Cristo affrescate dall’Angelico nel
1446 per Eugenio IV nella distrutta Cappella del Sacramento nel Palazzo
Vaticano.
A suggello dell’Angelico tardo due primizie: le due facce, per
la prima volta riunite insieme dal 1886, della tavola ottagonale double-face mostrante
sul verso la Madonna col Bambino, angeli, santi e committente (Boston,
Museum of Fine Arts) e sul recto il Volto di Cristo di collezione
privata (finora noto solo in fotografia), di probabile provenienza
romana – forse commissionata da un canonico lateranense o vaticano
per l’elezione di Niccolò V – e in cui Kanter ravvisa,
come nel poco conosciuto ma notevole trittico di Oxford, la partecipazione
congiunta dell’Angelico e di Benozzo (cat. 36); gli scomparti
di una pregevole – ancorché incompleta – predella
(cat. 37), mai ricomposta in precedenza, illustranti Episodi della
vita di S. Domenico (Yale e Stoccarda, più una tavola di
ubicazione ignota ma nota in riproduzione) e la Crocifissione e
santi al centro (Metropolitan): tutte, per quanto rovinate, di
qualità strepitosa, e pressoché ignote agli studi (tranne
l’ultima, la cui pertinenza alla predella è invero più problematica), è forte
la tentazione, ma mancano prove in merito, di associarle alla pala
d’altare che Vasari ricorda dipinta dall’Angelico per la
chiesa romana di S. Maria sopra Minerva.
Passando alla cerchia dell’Angelico, Kanter ha ribadito l’identificazione,
da lui già avanzata nel 2002, del cosiddetto Maestro del 1419
con Battista di Biagio Sanguigni (1393-1451), il miniatore (e pittore)
tardogotico che patrocinò l’ingresso del pressoché coetaneo
Guido di Pietro nella compagnia di S. Nicola al Carmine (1417), e che
visse poi uno stretto sodalizio col più giovane, e più dotato,
Zanobi Strozzi (1412-1468). Alla mano di Battista, ma su probabile
disegno angelichiano, vengono assegnati il pregevole trittichetto devozionale
di Christ Church (cat. 42, cui viene associata una finora ignorata
piccola Crocifissione del Louvre e che godette di una certa
fortuna iconografica, testimoniata da varie repliche) e la Madonna dell’umiltà della
coll. Feigen (cat. 43). Sia Battista che Zanobi furono a lungo attivi
nella bottega dell’Angelico, sia nella pratica miniatoria che
in quella pittorica: il secondo agì come suo ‘vice’ a
Firenze durante il soggiorno romano del maestro (1446-1449). A Zanobi
Kanter assegna l’esecuzione di due pale commissionate all’Angelico:
l’Annunciazione di S. Giovanni Valdarno, finora spesso
identificata, senza appigli concreti, con quella commissionata all’Angelico
dai serviti di Brescia nel 1432 (che sarebbe stata rifiutata per qualche
ragione per poi cambiare destinazione – anche Gilbert nel 2005
ha respinto l’ipotesi), e la già ricordata pala di Annalena.
Meritoria e inedita la ricomposizione del polittico zanobiano, con
possibile intervento dell’Angelico nella predella, avente come
centrale la Madonna col Bambino dell’Hermitage
(cat. 44), di destinazione francescana (forse San Salvatore a Firenze).
Interessante l’ipotesi della Palladino in relazione ai nove disegni
a biacca su pergamena rossa con Storie della Passione divisi
tra i musei di Rotterdam e Cambridge (Mass.), di recente riferiti all’Angelico
(Boskovits 2002) ma da lei accostati a Zanobi, circa la possibile provenienza
da un reliquiario (cat. 47); anche se Strehlke preferisce pensare ad
un codice devozionale, magari un dono di Niccolò V all’imperatore
Niccolò III, incoronato in S. Pietro nel 1452, e, dato ancor
più interessante, ad un loro rapporto con i già ricordati
affreschi della Cappella del Sacramento in Vaticano.
Un risultato importante poi è l’aver chiarito la pertinenza
a Zanobi e al Pesellino (1422-1457) dell’Assunzione della
Vergine, oggi a Dublino, e della relativa predella (Prato, Museo
Comunale), opera per la quale erano stati autorevolmente fatti, anche
di recente, i nomi di Domenico di Michelino (che forse avrebbe meritato
una presenza in mostra) e di Giovanni di Consalvo. Giusto il ravvisamento
della Padoa Rizzo (1997) di affinità con gli affreschi del Chiostro
degli Aranci: ma l’autore di questi non sarebbe Giovanni di Consalvo,
bensì, secondo Kanter, Zanobi, esecutore, su disegno dell’Angelico
che della commissione dovette essere il titolare, della maggior parte
del ciclo. Al pittore portoghese – di cui sono accertati i rapporti
con Zanobi e con S. Domenico di Fiesole, e che è sì l’unico
nominato nella documentazione sul chiostro, ma solo in relazione all’acquisto
di pigmenti (è doveroso peraltro segnalare i recenti interventi
di Bonavoglia, 1998, e Boskovits, 2004) –, potrebbero piuttosto
spettare le due scene più modeste, e marcatamente tardogotiche,
del ciclo (apparentabili peraltro anche al Sanguigni). Kanter si spinge
a proporre, in via ipotetica, l’identificazione di Giovanni di
Consalvo con il Maestro della Predella Shearman, pittore ‘isolato’ da
Pope-Hennessy e criticamente definito da Longhi (e di recente da Tartuferi),
presente in mostra con alcune tavole (cat. 57-58). La questione è problematica,
ma è merito indiscutibile l’averla riaperta, evidenziando
la qualità prospettica e disegnativa delle sinopie del Chiostro,
da Kanter attribuite all’Angelico, cui assegna pure alcune parti
di affresco, come il monaco che regge il bicchiere di vino rosso nel Miracolo
del vino avvelenato.(Nella scena del Miracolo del pane avvelenato farei
notare, a sostegno della paternità ideativa angelichiana, il
bellissimo motivo di ‘pittura pura’ del drappo appeso all’assicella,
impiegato dall’Angelico pure nella predella del polittico di
Perugia).
Del duo Zanobi-Pesellino, il cui sodalizio durò circa tre anni
(1446-48), erano esposti il Viaggio di Gaspare del primo e
il Viaggio di Melchiorre del secondo (cat. 54, attribuiti
da Fahy nel 2001), unici superstiti di un (assai raro) ciclo del Viaggio
dei Magi la cui testimonianza più nota è nella cappella
Medici affrescata da Benozzo (1459): se Strehlke ipotizza una commissione
di Alfonso d’Aragona per la ricorrenza delle fasce giallorosse
aragonesi nella tavola di Williamstown, Kanter opta per una destinazione
fiorentina, in particolare l’oratorio della Compagni dei Magi
in S. Marco, suggerendo, anche attraverso una rilettura delle opere
menzionate nella “camera di Lorenzo” nell’inventario
mediceo del 1492, la possibile pertinenza, tutta da dimostrare ma certo
suggestiva, al ciclo del celebre ‘Tondo Cook’, che lui
ritiene completato dall’Angelico con l’assistenza di Benozzo,
nel quinto decennio, e per qualche ragione, al momento sconosciuta,
in buona parte ridipinto da Filippo Lippi intorno al 1460.
Bibliografia citata: Mostra delle opere del Beato Angelico nel
quinto centenario della morte (1455-1955), Firenze 1955; W.
von Bode, La Renaissance aux Musée de Berlin,
IV: Les peintres florentins du XVe siècle, in “Gazette
des Beaux-Arts”, 37, 1888, pp. 472-489; S. Bonavoglia, Ricordi
precoci del luminismo di Jan van Eyck a Firenze: alcuni documenti
per João Gonçalves e il chiostro degli Aranci,
in “Arte documento, 12, 1998, pp. 62-71; M. Boskovits, Un'adorazione
dei Magi e gli inizi dell'Angelico, Bern, 1976; Id., Appunti
sull’Angelico, in “Paragone”, 27, 1976, n.
313, pp. 30-54; Id., La fase tarda del Beato Angelico: una proposta
di interpretazione, in “Arte cristiana”, 71, 1983,
pp. 11-24; Id. in Benozzo Gozzoli. Allievo a Roma, maestro in
Umbria, a cura di B. Toscano e G. Capitelli, catalogo della
mostra (Montefalco 2 giugno-31 agosto 2002), Cinisello Balsamo 2002;
Id., Per Giovanni, “dipintore di Portogallo”,
in Arte collezionismo conservazione. Scritti in onore di Marco
Chiarini, a cura M. L. Chappell, M. Di Giampaolo, S. Padovani,
Firenze, 2004; G. Brunetti, Una vacchetta segnata A, in Scritti
di storia dell'arte in onore di Ugo Procacci, a cura di M. G.
Ciardi Duprè Dal Poggetto e P. Dal Poggetto, Milano 1977,
1, pp. 228-235; A. De Marchi, Per la cronologia dell’Angelico:
il trittico di Perugia, in “Prospettiva”, 42, 1985,
pp. 53-57; E. Fahy, The Kimbell Fra Angelico, in “Apollo”,
125, 1987, n. 301, pp. 178-183; Id. in Omaggio a Beato Angelico.
Un dipinto per il Museo Poldi Pezzoli, a cura di A. Di Lorenzo-A.
Zanni, catalogo della mostra (Milano 20 settembre-2 dicembre 2001),
Cinisello Balsamo 2001; C. Gilbert, Lex Amoris. La legge
dell’amore nell’interpretazione di Fra Angelico,
Firenze 2005; J. Henderson- P. Joannides, A Franciscan Triptych
by Fra Angelico, in “Arte cristiana”, 79, 1991,
pp. 3-6; L. Kanter, A rediscovered panel by Fra Angelico,
in “Paragone Arte”, 51, 2000 ser. 3, 29, pp. 3-13; Id., Zanobi
Strozzi miniatore and Battista di Biagio Sanguigni, in “Arte
cristiana”, 90, 2002, pp. 321-331; R. Longhi, Fatti di
Masolino e Masaccio, in "Critica d'Arte", 3-4, 1940,
pp. 145-191; Id., Il Maestro della predella Shearman, in “Proporzioni”,
2, 1948, pp. 161-162; Id., Un nuovo numero del Maestro della
predella Shearman, in “Paragone Arte”, 31, 1967,
n. 211, pp. 38-40; G. Magnanimi, Inventari della collezione
romana dei principi Corsini, in “Bollettino d'arte”,
65, 1980 n. 7, pp. 91-126, e 8, pp. 73-114; U. Middeldorf, L’Angelico
e la scultura, in “Rinascimento”, 6, 1955, pp. 179-194;
A. Padoa Rizzo, La Cappella dell’Assunta nel Duomo
di Prato, Prato 1997; J. Pope-Hennessy, Fra Angelico,
New Haven-London 1974; F. Russell, An early Crucifixion by Fra
Angelico, in “The Burlington magazine”, 138.1996,
p. 315-317; A. Tartuferi in Miniatura del ‘400 a San Marco.
Dalle suggestioni avignonesi all’ambiente dell’Angelico,
a cura di M. Scudieri-G. Rasario, catalogo della mostra (Firenze
1 aprile-30 giugno 2003), Firenze 2003.

Beato Angelico, Angelo annunciante ",coll.priv.
[cat.3] "

Beato Angelico, Vergine Annunciata ",coll.priv. [cat.3] "

Beato Angelico, Sogno di Innocenzo III e Visione di Pietro e Paolo
a Domenico, Yale University Art Gallery [cat. 37]
La “Madonna Lia”. Francesco
Napoletano nella bottega di Leonardo a Milano.
La Spezia, Museo Lia (via Prione, 234), dal 2 dicembre 2006 al 25 febbraio 2007.
Orario: 10-18, lunedì chiuso.
di Chiara Balbarini
Dieci anni fa, apriva le sue porte a La Spezia il Museo Civico Amedeo
Lia. Straordinaria raccolta di opere d’arte di tipologie svariate – dagli
oggetti di oreficeria alle sculture in legno, terracotta e bronzo,
dai codici miniati ai dipinti su tavola, tra cui spiccano gli esemplari
di Tre e Quattrocento che formano un nucleo compatto –, essa è un
esempio raro di collezionismo raffinato ed oculatissimo, messo al servizio
di una città che si è così riqualificata dalla
sua veste industriale (del museo ci parlerà il suo direttore,
Andrea Marmori, nel prossimo numero di Predella).
Per celebrare l’evento, rimarrà esposta presso il Museo
un’opera eccezionale, appartenente alla collezione personale
di Lia: una piccola Madonna col Bambino, realizzata con ogni
probabilità nella bottega milanese di Leonardo negli anni novanta
del XV secolo. A questo dipinto e alle altre Madonne devozionali
eseguite da collaboratori di Leonardo, ma strettamente dipendenti da
idee compositive del maestro, è dedicato il saggio da David
Alan Brown – curatore della Pittura italiana alla National Gallery
di Washington –, meritoriamente tradotto da Ariella e Marina
Lia (D. A. Brown, Leonardo da Vinci. Arte e devozione nelle Madonne
dei suoi allievi, Cinisello Balsamo, Milano, Silvana Editoriale
2003). Un dvd, nella sala in cui è esposta l’opera, ne
illustra le vicende e ne ricostruisce la genesi.
La Madonna Lia appartiene agli anni della multiforme attività di
Leonardo per la corte sforzesca – in primis il monumento
equestre a Francesco e la decorazione della Sala delle Asse nel Castello
- che doveva lasciare poco tempo alla produzione delle piccole opere
devozionali, eseguite dai collaboratori sulla base dei disegni precedenti
del maestro. Attraverso l’analisi della Madonna di La
Spezia e delle altre ad essa strettamente correlate, come quella della
Kunsthaus di Zurigo, vengono delineate le modalità di collaborazione
all’interno della bottega milanese. Come risulta da testimonianze
coeve e da indicazioni presenti in alcuni disegni leonardeschi – vedi
quello di Windsor -, sembra che Leonardo revisionasse il lavoro degli
allievi e dei collaboratori, arrivando in alcuni casi a ritoccarlo,
ma che generalmente non intervenisse in modo sostanziale. Il rapporto
degli allievi con il maestro era d’altra parte così intimo
che essi potevano riprendere puntualmente, nelle Madonne sopra
menzionate, i modelli leonardeschi, la cui profonda assimilazione è ben
dimostrata dalla Madonna Lia. Le sofisticate tecniche audiovisive
utilizzate nel dvd proiettato in mostra rendono quasi tangibili tali
rimandi, in un affascinante gioco di accostamenti e sovrapposizioni.
La Vergine delle Rocce, da un lato, e, dall’altro,
il foglio con il Bambino che gioca con il gatto conservato
agli Uffizi, riemergono chiaramente nella composizione delle figure
nel dipinto di La Spezia. Ma un elemento singolare si impone all’osservatore:
il paesaggio che si intravede attraverso le finestre, sullo sfondo
della Madonna Lia, costituisce un indizio assai significativo
per risalire alla committenza del dipinto. Come ha evidenziato Andrea
Marmori, la finestra di sinistra, alle spalle della Vergine, mostra
difatti una veduta obliqua del Castello Sforzesco. Se è possibile
avanzare l’attribuzione dell’opera all’autore della Madonna di
Zurigo - ovvero Francesco Galli, detto Napoletano -, riconosciuto come
collaboratore di Leonardo nella seconda versione della Vergine
delle rocce (oggi alla National Gallery di Londra), la Madonna
Lia si può datare tra il 1494 e il 1495, nel momento in
cui Ludovico Sforza è impegnato nell’azione di legittimazione
della presa del potere, avvenuta in maniera illecita. Sembra pertanto
che proprio Ludovico sia da identificare con il committente del dipinto,
dimostrando un livello tale di simbiosi tra maestro e allievo da consentire
l’affidamento al primo persino di un’opera di così alto
prestigio.

La “Madonna Lia”. Francesco Napoletano
Tiziano
a Parigi “le
pouvoir en face”
di Anna Cipparrone
Parigi. Tiziano. Due sinonimi di nobiltà, grandezza ed eleganza.
Due nomi che si uniscono perfettamente nel contesto espositivo del
Musée du Luxembourg nel quale, fino al 21 gennaio 2007, sarà ospitata
l’esposizione “Titien, le pouvoir en face” nata
da un accordo tra il Museo e la Soprintendenza di Napoli. Il Musée
du Luxembourg, posto sotto la responsabilità del Senato, ha
impostato la sua programmazione sulla celebrazione dell’arte
moderna e del Rinascimento italiano. L’esposizione su Tiziano
si inserisce infatti in un ciclo di mostre iniziato con “Raphael,
Grace et Beauté” e continuato quella su “Botticelli. De
Laurent le Magnifique à Savonarole” e quella su “Véronèse
profane”.
L’eleganza e la solennità del Museo, insieme al genio
tizianesco, trovano perfetta unione ed espressione in un allestimento
austero e altisonante. “Le pouvoir en face”, titolo
dell’esposizione, è un’espressione densa di significati
poiché sintetizza il tema del ritratto di uomini di potere che
Tiziano ebbe modo di guardare “face à face” ed
esprime al contempo la forza con la quale le immagini sottomettono
lo sguardo dello spettatore. I personaggi, uniformati dal genere del
ritratto e dal convergere dei loro sguardi al centro della sala, esprimono
una condizione politica, economica e sociale cui Tiziano non si sentì inferiore,
ma che domina sullo spettatore. Dai loro attributi, ma soprattutto
dalla fermezza dei loro volti, traspare la superbia di uno status sociale
nel quale Tiziano riuscì ad inserirsi rappresentandolo con precisione
e minuzia; consapevole del proprio talento, Tiziano non esitò mai
nelle richieste economiche divenendo il principe degli artisti, o l’artista-principe,
uomo d’onore e di denaro e amico dei sovrani.
Tutte le corti d’Europa fecero appello a Tiziano per possedere
un suo ritratto; ritratti che avevano la seduzione tattile della verità e
che nell’esposizione parigina restituiscono quella verità (la
verità del lusso e del potere) con immagini complessivamente
austere ma anche attente ai dettagli: guanti, armi, gioielli, vesti,
e soprattutto sguardi. La fedele restituzione figurativa si unisce
ad un elemento voluto dagli allestitori e, a mio avviso insolito ed
interessante, che è la spiegazione didascalica non solo dell’opera
ma anche del personaggio effigiato, del tipo di gioielli o armatura
che indossa e del contesto che occupa.
L’esposizione di Parigi si dispiega in poche sale e si presenta
elegante fin dall’allestimento in cui i colori rosso-marrone
delle pareti unificano uno spazio piuttosto ristretto; artisti come
Rubens, Paris Bordone, Tintoretto e Parmigianino completano la galleria
dei ritratti di Tiziano del quale sono esposti quello di Francesco
I, Carlo V, Isabella d’Este e, in una
sala dedicata al periodo in cui fu più occupato con uomini di
potere, i ritratti dei Dogi veneziani, dei Madruzzo, di Guidobaldo
II della Rovere, Alfonso I d’Este, Federico
II Gonzaga ecc.
La grandezza del Tiziano ritrattista emerge nella sala dedicata all’universo
femminile: Venere, la Sultana russa e la Giovane dama
con il cappello di piume (per citarne alcuni); in quest’ultima,
seminuda ed incurante della sua nudità alla maniera greca, la
nobiltà ed il potere emergono dal manto verde e oro, dai suoi
gioielli e dal cappello di piume perfettamente e realisticamente restituitoci.
Allo stesso modo nella piccola Clarice Strozzi del 1542, la
ricchezza di una bambina di due anni è suggellata dalle vesti,
dall’acconciatura e dal mobile con bassorilievi classici che
la affianca.
La capacità di Tiziano, artista del ritratto, è dunque
quella di unire perfettamente i tre livelli che, secondo Antonio Paolucci,
sintetizzano l’essere ritrattista: mimesi dell’identità e
della reale fisionomia; restituzione delle peculiarità caratteriali
e del temperamento attraverso gli sguardi e gli attributi dell’effigiato
e, infine, intuizione e rappresentazione dei molteplici aspetti (sociali,
culturali ed ambientali) che conferiscono al personaggio il proprio
ruolo ed il proprio status.
Tiziano è riuscito ad unire questi tre livelli nei ritratti
di uomini illustri e di potere ma anche nelle effigi di nobili ed intellettuali
suoi amici. Una sala dell’esposizione parigina è infatti
dedicata, dopo il potere papale e quello temporale, alla cultura: da
musicisti e letterati inizialmente poco noti a personaggi quali Giovanni
Paolo delle Anticaglie o l’Aretino; questi, osservando
il suo ritratto realizzato dalla mano di Tiziano disse al granduca
Cosimo de’ Medici: “respira, pulsa e possiede uno slancio
di spirito così come quando mi vedo in faccia”.
L’attività di Tiziano ritrattista si inserisce in una
biografia molto complessa che ha inizio tra il 1488 e il 1490 a Pieve
di Cadore. Dapprima, al seguito di Giorgione, dal quale apprese la
lezione veneta sul cromatismo e la luce, l’artista cercò immediatamente
il consenso dei circoli esoterici veneziani e poi quello degli uomini
di potere della Serenissima; in seguito, si dedicò al grande
pubblico perseguendo sempre, come primo obiettivo, il riconoscimento
economico e la fama che lo spinsero di volta in volta ad entrare nelle
corti più altisonanti d’Italia e d’Europa.
Un artista longevo la cui attività ha vissuto fasi spesso distanti
l’una dall’altra mantenendo come assoluto punto fermo la
consapevolezza della propria unicità. Una unicità che
permise a Tiziano di guardare “face à face” il
potere. E’ da qui il probabile duplice significato del titolo
dell’esposizione, “Le pouvoir en face”,
e vale a dire superbia dei personaggi di potere effigiati o superbia
di un artista che ebbe l’ardire di guardarli in faccia?

Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti
Una segnalazione: La
principessa saggia. L’eredità di
Anna Maria Luisa de’ Medici elettrice palatina in mostra
a Firenze
di Emanuele Pellegrini
Il 23 dicembre 2006 si è aperta, nella Galleria
Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, una mostra su Anna Maria Luisa
de’ Medici, curata da Stefano Casciu, che si concluderà il
prossimo 15 aprile 2007. L’esposizione offre diversi piani di
lettura proprio perché essa non si esaurisce nell’analisi
di una collezionista e della sua collezione ma, illuminando l’intero
percorso biografico di Anna Maria Luisa dei Medici, che spese la sua
vita tra le corti di Firenze e Düsseldorf, apporta incisivi approfondimenti
sul contesto culturale europeo di primo Settecento. Emerge dunque una
figura importante, da accostare a quelle forse maggiormente note di
Cosimo III e soprattutto del Gran Principe Ferdinando: e grande risalto
assume il milieu artistico fiorentino di primo Settecento
in cui si vanno a collocare opere qualitativamente assai elevate come
quelle in bronzo (straordinaria la sezione in cui si raccoglie la serie
dei bronzetti), oppure i gioielli, le raccolte di cineserie ed oggetti “esotici”,
oltre che la pittura, tra cui è debito ricordare la nutrita
presenza di dipinti fiamminghi.
Il merito dell’iniziativa fiorentina, tuttavia, ed il motivo
fondamentale per cui abbiamo deciso di redarre questa breve segnalazione,
risiede nella forte sottolineatura che è stata conferita alla Convenzione
di famiglia generalmente nota col nome di Patto di famiglia,
ossia quel documento con cui l’Elettrice Palatina ed il primo
Granduca di Asburgo-Lorena, Francesco Stefano, il 31 ottobre 1737 legarono
il patrimonio artistico ereditato dalla principessa alla città di
Firenze e allo Stato di Toscana: la nuova dinastia regnante si impegnava
a salvaguardare «Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje
ed altre cose preziose... della successione del Serenissimo GranDuca
quello che è per ornamento dello Stato, e per utilità del
pubblico, e per attirare la curiosità dei forestieri, non ne
farà nulla trasportato, o levato fuori della capitale, o dello
stato del granducato» (cit. dall’articolo III). Il documento,
fino ad oggi non certo ignoto o ignorato ed anzi spesso richiamato
a testimonio di un’operazione tanto rara quanto illuminata, acquista
rinnovata luce proprio perché posto a culmine di un percorso
espositivo che documenta un collezionismo “privato” qualificato
e soprattutto continuo nel tempo. Si rinnova cioè la riflessione
sulle tangenze tra pubblico e privato in materia di patrimonio culturale,
tra gloria e magnificenza del proprio casato e beneficio pubblico comunque
connesso alle opere d’arte e alla loro raccolta. In una parola,
una lettura della storia del collezionismo e della tutela capace di
mostrare l’intima connessione tra queste due sfere solo apparentemente
opposte e contrastanti.
Lasceremo pertanto considerazioni ulteriori e più accurate riflessioni
a visite più approfondite: intanto valga però la segnalazione
di un’iniziativa di cultura, capace di collocarsi come fonte
di discussione a tutto raggio nella stretta e più viva attualità,
utilizzando il patrimonio culturale in quella che probabilmente è la
sua essenza più vera: testimonianza di civiltà.
Antonio Franchi, Ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici, olio su tela, 1689-91 c.
Léon
Spilliaert. Un esprit libre a Bruxelles
Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, dal 22
settembre 2006 al 4 febbraio 2007, direzione scientifica di Anne
Adriaens-Pannier.
Catalogo : Léon Spilliaert. Un esprit libre, Bruxelles,
Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique / Ludion, 2006, 207
pp., 29,95 €.
Convegno : Spilliaert et ses contemporains, Musées
royaux des Beaux-Arts de Belgique, 10.11.2006.
Sito internet : www.expo-spilliaert.be
di Laurence Brogniez
FUNDP-Namur
Dopo la grande retrospettiva Khnopff organizzata nel 2004, i Musées
royaux des Beaux-Arts di Bruxelles dedicano ora
di nuovo un’importante mostra a un’altra figura di spicco
del simbolismo belga.
Già nel 1996, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte
di Spilliaert (1881-1946), una manifestazione simile era stata organizzata a
Ostenda, città natale dell’artista, sotto gli auspici di Anne Adriaens-Pannier,
direttrice della presente mostra.
Grazie a questa grande specialista dell’opera del pittore, un nuovo aspetto
di Spilliaert si svela lungo questo percorso che sa essere al contempo coerente
ma diversificato e che, attraverso numerose opere inedite, provenienti da collezioni
private, sottolinea la profonda originalità dell’artista, la posizione
che ha occupato nella sua epoca e le affinità con la letteratura del suo
tempo.
Uno dei maggiori meriti di questa retrospettiva consiste proprio nel mostrare
come il pittore, pur condividendo perfettamente le preoccupazioni e la sensibilità della
fine del XIX secolo, sviluppa un linguaggio originale.
Esemplari sono in questo senso i confronti presentati nella prima sala. Il «gioco
di specchi» che si stabilisce tra alcune opere emblematiche di Spilliaert
e quelle di altri artisti, quali Khnopff, Redon, Kubin, Mellery o Rops, riesce
a mettere ben in risalto l’originalità con cui il pittore affronta
alcuni temi trattati anche dai suoi contemporanei. Interni stregati, paesaggi «stati
d’animo», donne ieratiche o bevitrici d’assenzio assumono,
sotto il pennello di Spilliaert, un carattere particolarmente espressivo, basato
su una grande economia di mezzi e una semplificazione del tratto che lo distinguono
dalle ricerche dei simbolisti e preannunciano già gli interessi del primo
Novecento.
A cavallo tra due secoli, l’opera di Spilliaert si caratterizza proprio
per questa ambivalenza che fa di lui un simbolista dal linguaggio molto personale,
al riparo dalle influenze e dall’impronta d’una formazione accademica
classica.
Una buona prova ci è fornita già dalle sue illustrazioni per il
teatro e la poesia di Maeterlinck. Il termine stesso d’«illustrazione»,
d’altronde, risulta inadeguato, poiché Spilliaert sembra essere
risalito fino alle fonti profonde dell’ispirazione di Maeterlinck per farne
emergere delle immagini sorprendenti, che hanno un potere di suggestione pari
a quello delle parole delle poesie. Una profonda affinità unisce i due
artisti, che, come mostrano alcuni libri provenienti dalla biblioteca di Spilliaert,
dovevano condividere anche le stesse letture: Wagner, Nietzsche, Verhaeren… Come
se Spilliaert, senza soffermarsi sull’imagerie simbolista, avesse
penetrato a suo modo l’essenza di una poetica anch’essa fondata sui
poteri dell’immagine e di cui purtroppo molti poeti hanno mutuato solo
gli aspetti più superficiali.
Personaggi soli, pensierosi, prostrati, sono fissati nel momento dell’attesa:
come nei drammi di Maeterlinck. Di spalle o, tutt’al più, con un
profilo solo accennato, annegati nell’ombra o avvolti in un alone misterioso,
si sottraggono allo sguardo dello spettatore. Un’iconografia ricorrente,
che il pittore, tuttavia, nel suo percorso artistico, cercherà costantemente
di rinnovare.
Così, nel primo decennio del ‘900, queste figure solitarie, trasformatesi
in mogli di pescatori in riva al mare, assumono un carattere più umano.
In altri casi, ridotte al ruolo di semplici supporti per ricerche plastiche,
esse diventano delle silhouettes enigmatiche, di cui restano solo i
contorni: pure forme in cui si esprimono le ricerche cromatiche e geometriche
dell’artista. La figura umana ritorna ancora nell’inquietante faccia
a faccia che riporta il volto al centro della rappresentazione nell’impressionante
serie di autoritratti, altrettante tappe dell’inchiesta introspettiva che
sonda le profondità e gli abissi dell’io attraverso sorprendenti
inquadrature.
Un’altra parte dell’opera di Spilliaert presenta, invece, dei paesaggi
e degli interni privi di ogni presenza umana. Sono le famose vedute di Ostenda,
che, per le loro prospettive vertiginose e inattese, propongono una visualizzazione
inedita del paesaggio, che a volte confina con l’astrazione. Altrove compaiono
interni deserti, che sembrano quasi stregati, come se fossero abitati da strane
presenze, in cui gli oggetti – flaconi, bottiglie, scatole, orologi – vivono
una vita silenziosa e impenetrabile.
Quello che colpisce, in tutte queste opere, è l’eccezionale maestria
acquistata nel tempo dall’artista, che, da vero sperimentatore, ha saputo
sfruttare, con piena originalità, le potenzialità tecniche offerte
da tutta una serie di strumenti diversi: l’inchiostro di china, i pastelli,
il gesso colorato o l’acquerello. Spilliaert riesce così a far nascere
la luce dal nero e a creare dei sottili effetti di alone, di riflessi e di riverberi,
dando visibilità e funzione anche al bianco stesso del materiale su cui
dipinge. Nel corso degli anni, i colori diventano più intensi, la paletta
del pittore si arricchisce, senza che però si perda l’attenzione
per le sfumature che caratterizza le prime opere.
Questo percorso ricco di sperimentazioni formali rivela tutta l’inventiva
di un pittore che, pur ricorrendo ad un numero ridotto di motivi e di tecniche
da autodidatta (Spilliaert non ha mai imparato a dipingere con i colori ad olio),
ha saputo crearsi un linguaggio proprio, messo al servizio di un’opera
coerente, ma che è, tuttavia, in continua mutazione. Fino alla fine della
sua carriera, Spilliaert resta rigoroso, ma non rigido, sempre fedele
a se stesso, ma anche aperto e sensibile ai cambiamenti e alle domande estetiche
dei suoi anni, a cui risponde con originalità, impiegando il lessico che
si è via via creato, da solo, con libertà estetica.
Forse il suo lessico non è stato compreso appieno dai suoi contemporanei.
Questo linguaggio sarà però senz’altro eloquente per i visitatori
della mostra, che non potranno non associarvi altre «voci»: quelle
di Giorgio de Chirico, di Magritte o di Morandi. E forse, lasciandosi un po’ sorprendere,
si ritroverà anche il lavoro di un Antonioni o di un Sugimoto: qualcosa – spersonalizzazione
della figura? astrazione dello spazio? – che appare già nell’opera
di Spilliaert e che fa di lui, ancora oggi, un nostro contemporaneo.

Léon Spilliaert, Autoportrait au miroir,
1908), Ostende, Musées des Beaux-Arts
Derain a Ferrara
di Alberto Rizza
Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara si è svolta fino al 7 gennaio
una notevole retrospettiva a cura di Isabelle Monod-Fontaine dedicata
all’attività pittorica di André Derain (1880–1954),
a trent’anni di distanza da quella tenutasi in Roma a Villa Medici.
L’attuale rassegna, patrocinata dal Comune e dalla Provincia
di Ferrara con il contributo dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen
(che ospiterà la mostra dal 10 febbraio al 13 maggio 2007),
ha raccolto, nelle sue undici sezioni, opere provenienti da importanti
collezioni di tutto il mondo, ripercorrendo la parabola artistica di
un maestro dall’altalenante fortuna critica (basti ricordare
la lunga eco dell’anatema scagliatogli contro per aver partecipato
nel 1941, insieme con altri artisti francesi, ad un viaggio in Germania
organizzato dalle forze naziste occupanti).
Apriva l’esposizione un gruppo di opere dedicate agli esordi
dell’artista (1899-1904): Il funerale (1899), bozzetto
che fu in collezione Matisse, Le rive della Senna a Pecq (1904)
e la grande tela con la raffigurazione della Salita al calvario (1901),
copia daBiagio d’Antonio e primo manifesto di quel confronto
con i maestri dell’arte della Rinascenza che sempre costituirà un
imprescindibile elemento per la comprensione profonda della sua arte – non
fu di fatto lo stesso Derain a dire che i primitivi significavano per
lui, in quei primi anni, «la vrai, la pure, l’absolue peinture»?
Si tratta di tele sorprendenti, che richiedono, come ha già sottolineato
Alberto Giacometti, di meditare a lungo di fronte ad esse, per cercare
di carpire, «al di là della loro apparenza immediata»,
quel significato profondo, quella «parvenza meravigliosa, attraente
e sconosciuta» rintracciabile, del resto, in tutte le opere di
Derain, anche in quelle meno riuscite. Al periodo della prima formazione
dell’artista appartiene il Ritratto del padre, piccolo
dipinto eseguito nel 1904, che si misura con la ricerca pittorica cézanniana
(in quello stesso anno il Salon des Indépendants dedicava al
maestro di Aix un’importante retrospettiva).
La mostra ha riservato un’intera sala ai dipinti del periodo fauve,
quando a Collure, nell’estate del 1905, Derain dipinse in compagnia
di Matisse: sono opere rare, dai colori puri, in cui la pittura esplode
sulla tela come “fuochi d’artificio”. Quest’ispirata
stagione – che Derain definì come «la prova del
fuoco» – comprende anche tre opere del 1906-1907, Il
ponte di Waterloo, Le due chiatte,e la Veduta di
Westminster, riconducibili alla serie di paesaggi londinesi eseguiti
per Ambroise Vollard, sulla scia di un percorso già tracciato,
anche se sotto una differente luce, da Monet. Nella stessa sala compare
una delle opere più note di Derain, la Donna in
camicia (1906) che, con la sua eletta veemenza, rappresenta un unicum nella
produzione dell’artista. E’ solo una tappa di un più articolato
percorso: lo testimonia, nello stesso ambiente, il ritratto di Lucien
Gilbert (1905), straordinaria prova eclettica della capacità di
Derain di padroneggiare diversi linguaggi pittorici. Correlate a questo
gruppo di dipinti, alcune xilografie di nudo (1906), che ripercorrono
la lezione di Gauguin, e, unica scultura in mostra, il Nudo in
piedi del 1907, a testimonianza di quella precoce attenzione che
l’artista dedicò al “primitivismo” e all’arte
dell’Africa nera, di cui egli stesso fu tra i primi a comprendere
la portata.
Terminata la fulminante stagione fauve, quelli successivi
al 1907 sono anni di serrato confronto con l’arte moderna: dapprima
con Cézanne – basti pensare alla serie delle Bagnanti e
alla Natura morta sul tavolo del 1910, proposta in mostra – e
poi con Braque e Picasso. Nei soggiorni a Cassis e Martigues nasce
un vocabolario fatto di forme sintetiche, prossime all’astrazione.
Al riguardo vanno segnalati tre dipinti, tutti in mostra, realizzati
a Martigues nell’estate del 1908, che si originano dalla strutturazione
di Cézanne per spingersi fino ad una semplificazione estrema
del paesaggio, “primitiva” e simbolica ad un tempo. Sono
opere poco note, che precedono una stagione di capolavori, quella del
periodo “gotico”, che cade negli stessi anni dell’affermazione
del cubismo. Questa sezione centrale della mostra ha presentato una
panoramica di quella felice fase nell’arte di Derain, che nella
sua personale risposta al cubismo licenzia composizioni ardite, come
intagliate nel legno, in cui le forme sembrano emergere sulla tela
attraverso il filtro della cultura figurativa dell’artista, che
spazia dall’arte antica a quella romanica, guardando con religiosa
riverenza ai grandi maestri della tradizione dell’arte occidentale.
Queste opere precorrono gli esiti della figurazione del primo dopoguerra:
nascono allora l’Italiana (1913), spoglio idolo della
mediterraneità, il monumentale Ritratto di Ragazza in abito
nero (1912–1914), appartenuto al grande collezionista russo
Schukin, il Ritratto di Iturrino, omaggio ad El Greco, e,
da ultimo, il Ritratto di Paul Poiret, eseguito nel 1915,
mentre l’artista è coinvolto in prima linea nel primo
conflitto mondiale. Per comprendere meglio questa nota tappa della
parabola pittorica di Derain vengono in soccorso le parole di Guillaume
Apollinaire che, nell’introdurre l’artista alla sua prima
personale alla Galerie Guillaume nel 1916, lo definì «temperamento
audace e disciplinato» dedito allo studio dei “grandi
maestri”, capace di trarre, «attraverso la semplicità e
la freschezza, i principi dell’arte e le discipline che ne derivano».
Le sue opere rivelavano già allora «quella grandezza espressiva
che si potrebbe definire antica».
Nel primo dopoguerra Derain divenne artista acclamatissimo in patria
- come s'intuisce leggendo la “profetica” presentazione
di Apollinaire – e noto in Italia soprattutto per la monografia
che nel 1921 gli dedicò Carlo Carrà, comunque non il
solo, nell’ambiente italiano, a prestare attenzione alla sua
arte. In quel momento i riferimenti ai “grandi maestri” divennero
ricorrenti: l’”ossessione” per il Louvre non dovette
di certo abbandonare Derain nella sua seconda maturità, quando
si confrontò con tutta l’arte antica, con i grandi maestri
del Rinascimento e del Seicento italiano, con il periodo più felice
dell’arte spagnola – Zurbaran e Velásquez – e
olandese, senza mai dimenticare la grande tradizione pittorica francese – Ingres,
David, Corot, Courbet, Renoir, per citare solo i riferimenti più immediati.
E in questa stagione – che vede il maestro, a partire dalla metà degli
anni Trenta, sempre più ombroso ed isolato – s'inseriscono
altri capolavori permeati di grande liricità, quali il ritratto
di Donna seduta (1933), La tazza di tè (1935), Geneviève
con lo scialle (1937). In queste tele è rinvenibile una
meditata attenzione per una luce che lascia emergere dallo sfondo la
materia pittorica: ne nascono sagome come frutto di un’intrusione,
vertiginose apparizioni nello spazio visivo dell’osservatore.
Le ultime due sale dell’esposizione proponevano con un taglio
tematico la tarda maturità dell’artista ed erano dedicate
alla natura morta e alla grande decorazione. Vanno segnalate la Natura morta
con coniglio e la Natura morta con zucca, rispettivamente
del 1938 e del 1939, veri e propri bodegones del XX secolo,
e, infine, la grande Natura morta del 1944–48, in cui
si può cogliere una colta e distante risposta a quella «epidemia
dell’astrazione» denunciata da Pierre Matisse nel 1940
in una lettera indirizzata allo stesso Derain.
“Pittore difficile” è più volte definito André Derain
nel catalogo della mostra; l’evento ha offerto la rara opportunità di
saggiare lo spessore di una ricerca multiforme, sempre coerente con se stessa,
spesso controcorrente e mai dimentica della lezione dell’arte del passato.
André Derain, a cura di Isabelle Monod–Fontane, (Ferrara,
Palazzo dei Diamanti, 24 settembre 2006 – 7 gennaio 2007), catalogo Ferrara
Arte.

A. Derain, Le due chiatte, 1906-7 Scarica in versione pdf
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