Fra Angelico a New York: bilancio di una mostra

The Metropolitan Museum of Art, New York, 26 ottobre 2005-29 gennaio 2006
catalogo a cura di L. Kanter e P. Palladino, The Metropolitan Museum of Art, New York 2005

di Gerardo de Simone

Nel 550 anniversario della morte (1455-2005), il Metropolitan di New York ha reso omaggio al Beato Angelico con una grande mostra monografica (la prima su suolo americano, preceduta in Italia solo dalla mostra cinquecentenaria in Vaticano nell’ormai lontano 1955), curata da Laurence Kanter con la collaborazione di Pia Palladino. Per il numero, la qualità e spesso la novità delle opere esposte, per l’inclusione dei pittori dell’orbita angelichiana (Battista di Biagio Sanguigni, Zanobi Strozzi, il Pesellino, Benozzo, il Maestro del Chiostro degli Aranci), per la radicalità e l’estensione delle proposte critiche, la mostra e il catalogo relativo rappresentano il tentativo più ambizioso di ridefinizione dell’intero percorsodell’Angelico da trent’anni a questa parte, vale a dire dalla standard monograph di Pope-Hennessy del 1974 e dai saggi di Boskovits del 1976. Nell’impossibilità di documentare in sede espositiva la produzione ad affresco e le grandi pale d’altare, ha sopperito il catalogo offrendo una mappatura pressoché completa.
Innanzitutto a venire delineata con una fisionomia del tutto nuova è stata la fase iniziale della formazione e dell’attività di Guido di Pietro prima del suo ingresso nell’ordine domenicano, con l’ipotesi di un alunnato nella bottega di Lorenzo Monaco, il principale pittore attivo a Firenze nei primi due decenni del Quattrocento. La mano del giovane Angelico viene ravvisata in alcuni scomparti di predella di pale di don Lorenzo, ad esempio dell’Incoronazione della Vergine per S. Maria degli Angeli (1414), in virtù di un razionalismo compositivo e di un realismo rappresentativo alieni dal goticismo astraente del maestro. Così nei disegni acquerellati che illustrano iniziali e bas-de-pages di un graduale oggi smembrato (cat. 1), la mano di Guido è ipotizzata negli elementi fogliacei e vegetali, la cui fragranza naturalistica spicca a cospetto dell’irrealismo spaziale delle storie che incorniciano. Uno studio approfondito è stato condotto dalla Palladino sul rotulo illustrante le Peregrinationes di Petrus de Cruce (1417 c., cat. 5), resoconto edificante del pellegrinaggio in Terra Santa del terziario domenicano (combinato con il Viaggio ai luoghi santi di Giorgio Gucci), importante sia per il probabile coinvolgimento come disegnatore del giovane Fra Giovanni, sia in relazione al contesto storico, culturale e religioso (la riforma degli ordini monastici – con il domenicano Giovanni Dominici in prima linea –, la  fortuna letteraria e iconografica delle Tebaidi).
Uno spostamento di datazione all’indietro investe la maggior parte dell’opera dell’Angelico: negli anni tra il 1415 e il 1420 c. sono collocate le opere giovanili, quali le Madonne di Cedri (Pisa), dell’Hermitage di San Pietroburgo, di Rotterdam (cat. 6), le due inedite, notevoli tavolette con Angelo annunciante e Annunciata di collezione privata (cat. 3), la Crocifissione Griggs (cat. 8), il San Gerolamo di Princeton (cat. 9). Al 1419-21, a logico ridosso dell’insediamento della comunità monastica osservante (per iniziativa proprio del citato Dominici), è anticipato l’altar maggiore per San Domenico a Fiesole – presente in mostra con alcuni scomparti minori (cat. 10) –, di cui Kanter rilegge acutamente le radiografie eseguite da Baldini nel 1972, avvedendosi dell’edicola incorniciante la Vergine (come nella coeva Madonna di Francoforte) prima del restyling tardoquattrocentesco di Lorenzo di Credi, e individua le derivazioni, valide come ante quos, in Bicci di Lorenzo, Arcangelo di Cola, Giovanni da Ponte ed altri. La pala fiesolana inaugurerebbe così la “velvet revolution” impersonata dall’Angelico, precedente, e non meno influente sulla scena fiorentina, quella più radicale di lì a qualche anno capeggiata da Masaccio. Come ben compreso da Vasari e da Longhi (1940), l’Angelico fu il primo e più dotato intenditore delle novità masaccesche; ma il suo genio si manifestò prima e indipendentemente dal grande valdarnese, sviluppando una poetica meno rivoluzionaria e meno drammatica ma più ricca e sfumata: per la propensione agli effetti luministici e alle tonalità chiare (che ne fa uno dei capifila della bellosiana “pittura di luce”), per il gusto per la preziosità decorativa (arricchito dal contatto con Gentile da Fabriano), per la sensibilità unica nel tradurre in pittura le verità di fede e i messaggi teologici, di impronta tomista.
Ancora più sostanzioso, rispetto alla datazione comunemente accettata, l’anticipo del trittico dipinto per il convento domenicano femminile fiorentino di S. Pietro Martire (fondato nel 1417), di cui era visibile in mostra la predella (cat. 13; giusta l’identificazione di Cecilia anziché Dorotea: le sante effigiate sono le stesse di uno dei reliquiari commissionati all’Angelico da Giovanni Masi, dei quali Kanter propone, su base stilistica, una cronologia scansionata nel tempo, dal 1425 c. della Madonna della stella al 1433-34 c. della Dormitio/Assunzione di Boston [cat. 28]): solitamente ancorato a ridosso del saldo di pagamento finale del 1429 e interpretato in chiave di influenza masaccesca, viene riferito al 1421-22 (nel 1421 si stabiliscono le prime monache nel convento) da Kanter, il quale giudica il realismo delle figure autonomamente maturato dall’artista, anche alla luce delle persistenti imprecisioni proporzionali e prospettiche. Al 1424 c. è arretrato il Giudizio Universale proveniente da S. Maria degli Angeli, congetturando una commissione a Lorenzo Monaco passata all’Angelico a seguito della morte del primo. La prima opera denunciante con chiarezza l’impatto con Masaccio sarebbe l’Annunciazione del Prado, in via ipotetica legata ad un documento del 1425. Su questa linea si collocano le Madonne delle collezioni d’Alba e Thyssen (cat. 18 – di cui segnalerei i puntuali echi nella Madonna di Alvaro Pirez in S. Croce in Fossabanda a Pisa).
La brillante connoisseurship di Kanter ha trovato poi un campo di applicazione privilegiato nella ricostruzione di opere smembrate, ricomposte come con gli sparsi e frammentari pezzi di più puzzle: le due tavole con quattro santi di collezione privata (cat. 12), associate, come laterali di trittico, alla Crocifissione scoperta da Russell nel 1996; le due coppie di santi della Yale University Art Gallery con l’Angelo e l’Annunciata del Getty Museum (cat. 16); il tabernacolo, incompleto, avente come centrale la splendida Madonna dell’umiltà di Parma (1428-30 c., cat. 21); il trittico dipinto per la compagnia di S. Francesco in S. Croce a Firenze, (1429 c., cat 24), ricostruito per merito di Boskovits (1976), Henderson e Joannides (1991); la predella divisa tra i musei di Fort Worth, San Marco, Philadelphia, San Francisco e la coll. Feigen di New York, ricomposta nel tempo da Longhi (1940), Fahy (1987) e Kanter (2000), base di un polittico avente secondo quest’ultimo nella cuspide centrale il Redentore benedicente di Hampton Court e gli Angeli adoranti della Galleria Sabauda, nelle laterali l’Angelo annunciante e l’Annunciata di Detroit, e che, se si accettasse l’identificazione della Madonna di Pontassieve come centrale del polittico originario, potrebbe risalire all’altare della cappella da Filicaia in S. Croce (1430 c., cat. 25).
La fase pienamente, ma tutt’altro che passivamente, masaccesca, documentata dalle ultime tre opere citate e al massimo grado dall’Annunciazione di Cortona (1430-31 c.) e dalla Deposizione Strozzi (1432 c.), mostra un miracoloso equilibrio tra austero ‘classicismo’ e virtuosistico naturalismo: culmina nell’Incoronazione della Vergine del Louvre (1432-34 c.), capolavoro insuperato di sofisticatezza prospettica e di raffinatezza mimetica. Nella seconda metà del quarto decennio Kanter coglie una svolta verso un’accentuata monumentalità figurale e un’inedita ricerca di pathos drammatico: le composizioni si fanno più serrate e compatte,  i personaggi si schierano sul primo piano o in prossimità di esso, i fondali sono meno profondi, viene meno il minuzioso descrittivismo anche paesistico. Eloquente in proposito il confronto tra la Deposizione Strozzi e il Compianto di S. Maria della Croce al Tempio (1436-41).
A questa nuova poetica sarebbero improntati, pur nella loro diversità, i due grandi cicli ad affresco di S. Marco (1438-43) e della Cappella Niccolina (1448). La pala d’altare conclusa in tempo per la consacrazione di S. Marco il 6 gennaio 1443, alla presenza di Eugenio IV e di Cosimo de’ Medici, rappresenterebbe la prima formulazione angelichiana di ‘sacra conversazione’ ovvero di ‘pala quadrata’ (cat. 34): Kanter infatti – e l’ipotesi è insieme innovativa e convincente – considera la pala di Annalena, per lo più datata al 1434 c. (talora ritenuta una delle pale brunelleschiane di S. Lorenzo), una evidente derivazione dalla pala di S. Marco (e da quella di Bosco ai Frati del 1449-50 c.), e ne assegna l’esecuzione a Zanobi Strozzi, su disegno o sotto la supervisione dell’Angelico; il convento di Annalena, da cui l’opera proviene, verrebbe così ad essere plausibilmente la destinazione originaria del dipinto, e la datazione, conseguente alla fondazione nel 1453, ovvero all’indomani della definitiva partenza dell’Angelico per Roma, spiegherebbe bene il passaggio di commissione all’allievo.
Più problematica invece la questione relativa al polittico di Perugia (cat. 30): Kanter ne accetta, sulla base di considerazioni stilistiche, la datazione al 1437 testimoniata da una fonte cinquecentesca; Strehlke invece (p. 206) condivide l’ipotesi di Middeldorf (1955) e De Marchi (1985), da molti accettata, di ritardarne l’esecuzione di un decennio (posizione che ritengo più convincente). Una replica della pala perugina, e, nella predella, di quella dell’Incoronazione del Louvre, sarebbe il trittico di Cortona, assegnato ad un assistente di bottega su disegno del maestro e datato agli anni quaranta.
Non meno riccamente documentata la tarda maturità: il fiammingheggiante Cristo coronato di spine di Livorno (cat. 33), di cui Palladino propone una datazione al 1439-41, ricordando l’ipotesi di Brunetti (1977) che lo identificava con il “volto sancto” ricordato in un inventario sull’altare dell’Annunziata nell’omonima chiesa fiorentina; il Giudizio universale di Berlino (cat. 32, nel quale l’Inferno, come già nella tavola di S. Maria degli Angeli, è modellato sull’affresco del Camposanto pisano), decurtato e ridotto a trittico in un secondo momento, di probabile provenienza romana (vista la copia fattane dallo Spranger per Pio V)  e committenza domenicana, forse cardinalizia per la posizione preminente (notata già da Bode nel 1888), tra i Beati indossanti l’abito dei frati predicatori, assegnata ad un porporato identificato dal cappello e affiancato da un pontefice: potrebbe trattarsi o dell’aragonese Juan de Casanova (morto nel 1436), come sembra preferire la Palladino per ragioni di cronologia (contrariamente alla datazione corrente posteriore di almeno un decennio), oppure di un altro spagnolo, Juan de Torquemada, creato cardinale nel 1439. Certamente a quest’ultimo spetta invece la commissione della Crocifissione del Fogg Art Museum (cat. 39, datata sempre da Palladino al secondo soggiorno romano anziché, come in prevalenza, al primo), probabile centrale di un trittico di cui si conosce, anche se solo in fotoriproduzione, un laterale con S. Sisto, alla quale avrebbe giovato il confronto fotografico (vista l’irreperibilità dell’originale) con la Crocifissionescovata da Boskovits nel 1983, di identica committenza e candidata plausibile anch’essa, a mio avviso, come centrale del S. Sisto. Benché non presente in mostra, un tentativo di chiarimento ha ricevuto un altro Giudizio, conservato nella Galleria Corsini di Roma: Palladino ha sostenuto infatti la non pertinenza, già sospettata in passato, dei laterali attualmente con esso incorniciati, raffiguranti l’Ascensione e la Pentecoste – forse smembrati da un ciclo della Passione –, e ha riabilitato l’ipotesi, finora confinata alla bibliografia botticelliana, di identificare il Giudizio con quello facente un tempo parte del lascito di Francesco del Pugliese alla chiesa di S. Andrea a Sommaia (presso Firenze), che si presentava fiancheggiato da due ‘ali’ di mano del Botticelli; tuttavia rileggendo gli inventari Corsini (Magnanimi 1980) resta più verisimile l’originaria provenienza romana delle tre tavole e tutto sommato anche l’appartenenza ad un’unico ciclo; non è infondata inoltre l’ipotesi di Strehlke che le scene rispecchino alcune delle Storie di Cristo affrescate dall’Angelico nel 1446 per Eugenio IV nella distrutta Cappella del Sacramento nel Palazzo Vaticano.
A suggello dell’Angelico tardo due primizie: le due facce, per la prima volta riunite insieme dal 1886, della tavola ottagonale double-face mostrante sul verso la Madonna col Bambino, angeli, santi e committente (Boston, Museum of Fine Arts) e sul recto il Volto di Cristo di collezione privata (finora noto solo in fotografia), di probabile provenienza romana – forse commissionata da un canonico lateranense o vaticano per l’elezione di Niccolò V – e in cui Kanter ravvisa, come nel poco conosciuto ma notevole trittico di Oxford, la partecipazione congiunta dell’Angelico e di Benozzo (cat. 36); gli scomparti di una pregevole – ancorché incompleta – predella (cat. 37), mai ricomposta in precedenza, illustranti Episodi della vita di S. Domenico (Yale e Stoccarda, più una tavola di ubicazione ignota ma nota in riproduzione) e la Crocifissione e santi al centro (Metropolitan): tutte, per quanto rovinate, di qualità strepitosa, e pressoché ignote agli studi (tranne l’ultima, la cui pertinenza alla predella è invero più problematica), è forte la tentazione, ma mancano prove in merito, di associarle alla pala d’altare che Vasari ricorda dipinta dall’Angelico per la chiesa romana di S. Maria sopra Minerva.
Passando alla cerchia dell’Angelico, Kanter ha ribadito l’identificazione, da lui già avanzata nel 2002, del cosiddetto Maestro del 1419 con Battista di Biagio Sanguigni (1393-1451), il miniatore (e pittore) tardogotico che patrocinò l’ingresso del pressoché coetaneo Guido di Pietro nella compagnia di S. Nicola al Carmine (1417), e che visse poi uno stretto sodalizio col più giovane, e più dotato, Zanobi Strozzi (1412-1468). Alla mano di Battista, ma su probabile disegno angelichiano, vengono assegnati il pregevole trittichetto devozionale di Christ Church (cat. 42, cui viene associata una finora ignorata piccola Crocifissione del Louvre e che godette di una certa fortuna iconografica, testimoniata da varie repliche) e la Madonna dell’umiltà della coll. Feigen (cat. 43). Sia Battista che Zanobi furono a lungo attivi nella bottega dell’Angelico, sia nella pratica miniatoria che in quella pittorica: il secondo agì come suo ‘vice’ a Firenze durante il soggiorno romano del maestro (1446-1449). A Zanobi Kanter assegna l’esecuzione di due pale commissionate all’Angelico: l’Annunciazione di S. Giovanni Valdarno, finora spesso identificata, senza appigli concreti, con quella commissionata all’Angelico dai serviti di Brescia nel 1432 (che sarebbe stata rifiutata per qualche ragione per poi cambiare destinazione – anche Gilbert nel 2005 ha respinto l’ipotesi), e la già ricordata pala di Annalena. Meritoria e inedita la ricomposizione del polittico zanobiano, con possibile intervento dell’Angelico nella predella, avente come centrale la Madonna col Bambino dell’Hermitage (cat. 44), di destinazione francescana (forse San Salvatore a Firenze). Interessante l’ipotesi della Palladino in relazione ai nove disegni a biacca su pergamena rossa con Storie della Passione divisi tra i musei di Rotterdam e Cambridge (Mass.), di recente riferiti all’Angelico (Boskovits 2002) ma da lei accostati a Zanobi, circa la possibile provenienza da un reliquiario (cat. 47); anche se Strehlke preferisce pensare ad un codice devozionale, magari un dono di Niccolò V all’imperatore Niccolò III, incoronato in S. Pietro nel 1452, e, dato ancor più interessante, ad un loro rapporto con i già ricordati affreschi della Cappella del Sacramento in Vaticano.
Un risultato importante poi è l’aver chiarito la pertinenza a Zanobi e al Pesellino (1422-1457) dell’Assunzione della Vergine, oggi a Dublino, e della relativa predella (Prato, Museo Comunale), opera per la quale erano stati autorevolmente fatti, anche di recente, i nomi di Domenico di Michelino (che forse avrebbe meritato una presenza in mostra) e di Giovanni di Consalvo. Giusto il ravvisamento della Padoa Rizzo (1997) di affinità con gli affreschi del Chiostro degli Aranci: ma l’autore di questi non sarebbe Giovanni di Consalvo, bensì, secondo Kanter, Zanobi, esecutore, su disegno dell’Angelico che della commissione dovette essere il titolare, della maggior parte del ciclo. Al pittore portoghese – di cui sono accertati i rapporti con Zanobi e con S. Domenico di Fiesole, e che è sì l’unico nominato nella documentazione sul chiostro, ma solo in relazione all’acquisto di pigmenti (è doveroso peraltro segnalare i recenti interventi di Bonavoglia, 1998, e Boskovits, 2004) –, potrebbero piuttosto spettare le due scene più modeste, e marcatamente tardogotiche, del ciclo (apparentabili peraltro anche al Sanguigni). Kanter si spinge a proporre, in via ipotetica, l’identificazione di Giovanni di Consalvo con il Maestro della Predella Shearman, pittore ‘isolato’ da Pope-Hennessy e criticamente definito da Longhi (e di recente da Tartuferi), presente in mostra con alcune tavole (cat. 57-58). La questione è problematica, ma è merito indiscutibile l’averla riaperta, evidenziando la qualità prospettica e disegnativa delle sinopie del Chiostro, da Kanter attribuite all’Angelico, cui assegna pure alcune parti di affresco, come il monaco che regge il bicchiere di vino rosso nel Miracolo del vino avvelenato.(Nella scena del Miracolo del pane avvelenato farei notare, a sostegno della paternità ideativa angelichiana, il bellissimo motivo di ‘pittura pura’ del drappo appeso all’assicella, impiegato dall’Angelico pure nella predella del polittico di Perugia).
Del duo Zanobi-Pesellino, il cui sodalizio durò circa tre anni (1446-48), erano esposti il Viaggio di Gaspare del primo e il Viaggio di Melchiorre del secondo (cat. 54, attribuiti da Fahy nel 2001), unici superstiti di un (assai raro) ciclo del Viaggio dei Magi la cui testimonianza più nota è nella cappella Medici affrescata da Benozzo (1459): se Strehlke ipotizza una commissione di Alfonso d’Aragona per la ricorrenza delle fasce giallorosse aragonesi nella tavola di Williamstown, Kanter opta per una destinazione fiorentina, in particolare l’oratorio della Compagni dei Magi in S. Marco, suggerendo, anche attraverso una rilettura delle opere menzionate nella “camera di Lorenzo” nell’inventario mediceo del 1492, la possibile pertinenza, tutta da dimostrare ma certo suggestiva, al ciclo del celebre ‘Tondo Cook’, che lui ritiene completato dall’Angelico con l’assistenza di Benozzo, nel quinto decennio, e per qualche ragione, al momento sconosciuta, in buona parte ridipinto da Filippo Lippi intorno al 1460.

Bibliografia citata: Mostra delle opere del Beato Angelico nel quinto centenario della morte (1455-1955), Firenze 1955; W. von Bode, La Renaissance aux Musée de Berlin, IV: Les peintres florentins du XVe siècle, in “Gazette des Beaux-Arts”, 37, 1888, pp. 472-489; S. Bonavoglia, Ricordi precoci del luminismo di Jan van Eyck a Firenze: alcuni documenti per João Gonçalves e il chiostro degli Aranci, in “Arte documento, 12, 1998, pp. 62-71; M. Boskovits, Un'adorazione dei Magi e gli inizi dell'Angelico, Bern, 1976; Id., Appunti sull’Angelico, in “Paragone”, 27, 1976, n. 313, pp. 30-54; Id., La fase tarda del Beato Angelico: una proposta di interpretazione, in “Arte cristiana”, 71, 1983, pp. 11-24; Id. in Benozzo Gozzoli. Allievo a Roma, maestro in Umbria, a cura di B. Toscano e G. Capitelli, catalogo della mostra (Montefalco 2 giugno-31 agosto 2002), Cinisello Balsamo 2002; Id., Per Giovanni, “dipintore di Portogallo”, in Arte collezionismo conservazione. Scritti in onore di Marco Chiarini, a cura M. L. Chappell, M. Di Giampaolo, S. Padovani, Firenze, 2004; G. Brunetti, Una vacchetta segnata A, in Scritti di storia dell'arte in onore di Ugo Procacci, a cura di M. G. Ciardi Duprè Dal Poggetto e P. Dal Poggetto, Milano 1977, 1, pp. 228-235; A. De Marchi, Per la cronologia dell’Angelico: il trittico di Perugia, in “Prospettiva”, 42, 1985, pp. 53-57; E. Fahy, The Kimbell Fra Angelico, in “Apollo”, 125, 1987, n. 301, pp. 178-183; Id. in Omaggio a Beato Angelico. Un dipinto per il Museo Poldi Pezzoli, a cura di A. Di Lorenzo-A. Zanni, catalogo della mostra (Milano 20 settembre-2 dicembre 2001), Cinisello Balsamo 2001; C. Gilbert, Lex Amoris. La legge dell’amore nell’interpretazione di Fra Angelico, Firenze 2005; J. Henderson- P. Joannides, A Franciscan Triptych by Fra Angelico, in “Arte cristiana”, 79, 1991, pp. 3-6; L. Kanter, A rediscovered panel by Fra Angelico, in “Paragone Arte”, 51, 2000 ser. 3, 29, pp. 3-13; Id., Zanobi Strozzi miniatore and Battista di Biagio Sanguigni, in “Arte cristiana”, 90, 2002, pp. 321-331; R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, in "Critica d'Arte", 3-4, 1940, pp. 145-191; Id., Il Maestro della predella Shearman, in “Proporzioni”, 2, 1948, pp. 161-162; Id., Un nuovo numero del Maestro della predella Shearman, in “Paragone Arte”, 31, 1967, n. 211, pp. 38-40; G. Magnanimi, Inventari della collezione romana dei principi Corsini, in “Bollettino d'arte”, 65, 1980 n. 7, pp. 91-126, e 8, pp. 73-114; U. Middeldorf, L’Angelico e la scultura, in “Rinascimento”, 6, 1955, pp. 179-194; A. Padoa Rizzo, La Cappella dell’Assunta nel Duomo di Prato, Prato 1997; J. Pope-Hennessy, Fra Angelico, New Haven-London 1974; F. Russell, An early Crucifixion by Fra Angelico, in “The Burlington magazine”, 138.1996, p. 315-317; A. Tartuferi in Miniatura del ‘400 a San Marco. Dalle suggestioni avignonesi all’ambiente dell’Angelico, a cura di M. Scudieri-G. Rasario, catalogo della mostra (Firenze 1 aprile-30 giugno 2003), Firenze 2003.


Beato Angelico, Angelo annunciante ",coll.priv. [cat.3] "


Beato Angelico, Vergine Annunciata ",coll.priv. [cat.3] "



Beato Angelico, Sogno di Innocenzo III e Visione di Pietro e Paolo a Domenico, Yale University Art Gallery [cat. 37]

La “Madonna Lia”. Francesco Napoletano nella bottega di Leonardo a Milano.
La Spezia, Museo Lia (via Prione, 234), dal 2 dicembre 2006 al 25 febbraio 2007. Orario: 10-18, lunedì chiuso.

di Chiara Balbarini

Dieci anni fa, apriva le sue porte a La Spezia il Museo Civico Amedeo Lia. Straordinaria raccolta di opere d’arte di tipologie svariate – dagli oggetti di oreficeria alle sculture in legno, terracotta e bronzo, dai codici miniati ai dipinti su tavola, tra cui spiccano gli esemplari di Tre e Quattrocento che formano un nucleo compatto –, essa è un esempio raro di collezionismo raffinato ed oculatissimo, messo al servizio di una città che si è così riqualificata dalla sua veste industriale (del museo ci parlerà il suo direttore, Andrea Marmori, nel prossimo numero di Predella).
Per celebrare l’evento, rimarrà esposta presso il Museo un’opera eccezionale, appartenente alla collezione personale di Lia: una piccola Madonna col Bambino, realizzata con ogni probabilità nella bottega milanese di Leonardo negli anni novanta del XV secolo. A questo dipinto e alle altre Madonne devozionali eseguite da collaboratori di Leonardo, ma strettamente dipendenti da idee compositive del maestro, è dedicato il saggio da David Alan Brown – curatore della Pittura italiana alla National Gallery di Washington –, meritoriamente tradotto da Ariella e Marina Lia (D. A. Brown, Leonardo da Vinci. Arte e devozione nelle Madonne dei suoi allievi, Cinisello Balsamo, Milano, Silvana Editoriale 2003). Un dvd, nella sala in cui è esposta l’opera, ne illustra le vicende e ne ricostruisce la genesi.
La Madonna Lia appartiene agli anni della multiforme attività di Leonardo per la corte sforzesca – in primis il monumento equestre a Francesco e la decorazione della Sala delle Asse nel Castello - che doveva lasciare poco tempo alla produzione delle piccole opere devozionali, eseguite dai collaboratori sulla base dei disegni precedenti del maestro. Attraverso l’analisi della Madonna di La Spezia e delle altre ad essa strettamente correlate, come quella della Kunsthaus di Zurigo, vengono delineate le modalità di collaborazione all’interno della bottega milanese. Come risulta da testimonianze coeve e da indicazioni presenti in alcuni disegni leonardeschi – vedi quello di Windsor -, sembra che Leonardo revisionasse il lavoro degli allievi e dei collaboratori, arrivando in alcuni casi a ritoccarlo, ma che generalmente non intervenisse in modo sostanziale. Il rapporto degli allievi con il maestro era d’altra parte così intimo che essi potevano riprendere puntualmente, nelle Madonne sopra menzionate, i modelli leonardeschi, la cui profonda assimilazione è ben dimostrata dalla Madonna Lia. Le sofisticate tecniche audiovisive utilizzate nel dvd proiettato in mostra rendono quasi tangibili tali rimandi, in un affascinante gioco di accostamenti e sovrapposizioni. La Vergine delle Rocce, da un lato, e, dall’altro, il foglio con il Bambino che gioca con il gatto conservato agli Uffizi, riemergono chiaramente nella composizione delle figure nel dipinto di La Spezia. Ma un elemento singolare si impone all’osservatore: il paesaggio che si intravede attraverso le finestre, sullo sfondo della Madonna Lia, costituisce un indizio assai significativo per risalire alla committenza del dipinto. Come ha evidenziato Andrea Marmori, la finestra di sinistra, alle spalle della Vergine, mostra difatti una veduta obliqua del Castello Sforzesco. Se è possibile avanzare l’attribuzione dell’opera all’autore della Madonna di Zurigo - ovvero Francesco Galli, detto Napoletano -, riconosciuto come collaboratore di Leonardo nella seconda versione della Vergine delle rocce (oggi alla National Gallery di Londra), la Madonna Lia si può datare tra il 1494 e il 1495, nel momento in cui Ludovico Sforza è impegnato nell’azione di legittimazione della presa del potere, avvenuta in maniera illecita. Sembra pertanto che proprio Ludovico sia da identificare con il committente del dipinto, dimostrando un livello tale di simbiosi tra maestro e allievo da consentire l’affidamento al primo persino di un’opera di così alto prestigio.


La “Madonna Lia”. Francesco Napoletano

Tiziano a Parigi “le pouvoir en face

di Anna Cipparrone

 

Parigi. Tiziano. Due sinonimi di nobiltà, grandezza ed eleganza. Due nomi che si uniscono perfettamente nel contesto espositivo del Musée du Luxembourg nel quale, fino al 21 gennaio 2007, sarà ospitata l’esposizione “Titien, le pouvoir en face” nata da un accordo tra il Museo e la Soprintendenza di Napoli. Il Musée du Luxembourg, posto sotto la responsabilità del Senato, ha impostato la sua programmazione sulla celebrazione dell’arte moderna e del Rinascimento italiano. L’esposizione su Tiziano si inserisce infatti in un ciclo di mostre iniziato con “Raphael, Grace et Beauté” e continuato quella su “Botticelli. De Laurent le Magnifique à Savonarole” e quella su “Véronèse profane”.
L’eleganza e la solennità del Museo, insieme al genio tizianesco, trovano perfetta unione ed espressione in un allestimento austero e altisonante. “Le pouvoir en face”, titolo dell’esposizione, è un’espressione densa di significati poiché sintetizza il tema del ritratto di uomini di potere che Tiziano ebbe modo di guardare “face à face” ed esprime al contempo la forza con la quale le immagini sottomettono lo sguardo dello spettatore. I personaggi, uniformati dal genere del ritratto e dal convergere dei loro sguardi al centro della sala, esprimono una condizione politica, economica e sociale cui Tiziano non si sentì inferiore, ma che domina sullo spettatore. Dai loro attributi, ma soprattutto dalla fermezza dei loro volti, traspare la superbia di uno status sociale nel quale Tiziano riuscì ad inserirsi rappresentandolo con precisione e minuzia; consapevole del proprio talento, Tiziano non esitò mai nelle richieste economiche divenendo il principe degli artisti, o l’artista-principe, uomo d’onore e di denaro e amico dei sovrani.
Tutte le corti d’Europa fecero appello a Tiziano per possedere un suo ritratto; ritratti che avevano la seduzione tattile della verità e che nell’esposizione parigina restituiscono quella verità (la verità del lusso e del potere) con immagini complessivamente austere ma anche attente ai dettagli: guanti, armi, gioielli, vesti, e soprattutto sguardi. La fedele restituzione figurativa si unisce ad un elemento voluto dagli allestitori e, a mio avviso insolito ed interessante, che è la spiegazione didascalica non solo dell’opera ma anche del personaggio effigiato, del tipo di gioielli o armatura che indossa e del contesto che occupa.
L’esposizione di Parigi si dispiega in poche sale e si presenta elegante fin dall’allestimento in cui i colori rosso-marrone delle pareti unificano uno spazio piuttosto ristretto; artisti come Rubens, Paris Bordone, Tintoretto e Parmigianino completano la galleria dei ritratti di Tiziano del quale sono esposti quello di Francesco I, Carlo V, Isabella d’Este e, in una sala dedicata al periodo in cui fu più occupato con uomini di potere, i ritratti dei Dogi veneziani, dei Madruzzo, di Guidobaldo II della Rovere, Alfonso I d’Este, Federico II Gonzaga ecc.
La grandezza del Tiziano ritrattista emerge nella sala dedicata all’universo femminile: Venere, la Sultana russa e la Giovane dama con il cappello di piume (per citarne alcuni); in quest’ultima, seminuda ed incurante della sua nudità alla maniera greca, la nobiltà ed il potere emergono dal manto verde e oro, dai suoi gioielli e dal cappello di piume perfettamente e realisticamente restituitoci. Allo stesso modo nella piccola Clarice Strozzi del 1542, la ricchezza di una bambina di due anni è suggellata dalle vesti, dall’acconciatura e dal mobile con bassorilievi classici che la affianca.
La capacità di Tiziano, artista del ritratto, è dunque quella di unire perfettamente i tre livelli che, secondo Antonio Paolucci, sintetizzano l’essere ritrattista: mimesi dell’identità e della reale fisionomia; restituzione delle peculiarità caratteriali e del temperamento attraverso gli sguardi e gli attributi dell’effigiato e, infine, intuizione e rappresentazione dei molteplici aspetti (sociali, culturali ed ambientali) che conferiscono al personaggio il proprio ruolo ed il proprio status.
Tiziano è riuscito ad unire questi tre livelli nei ritratti di uomini illustri e di potere ma anche nelle effigi di nobili ed intellettuali suoi amici. Una sala dell’esposizione parigina è infatti dedicata, dopo il potere papale e quello temporale, alla cultura: da musicisti e letterati inizialmente poco noti a personaggi quali Giovanni Paolo delle Anticaglie o l’Aretino; questi, osservando il suo ritratto realizzato dalla mano di Tiziano disse al granduca Cosimo de’ Medici: “respira, pulsa e possiede uno slancio di spirito così come quando mi vedo in faccia”.
L’attività di Tiziano ritrattista si inserisce in una biografia molto complessa che ha inizio tra il 1488 e il 1490 a Pieve di Cadore. Dapprima, al seguito di Giorgione, dal quale apprese la lezione veneta sul cromatismo e la luce, l’artista cercò immediatamente il consenso dei circoli esoterici veneziani e poi quello degli uomini di potere della Serenissima; in seguito, si dedicò al grande pubblico perseguendo sempre, come primo obiettivo, il riconoscimento economico e la fama che lo spinsero di volta in volta ad entrare nelle corti più altisonanti d’Italia e d’Europa.
Un artista longevo la cui attività ha vissuto fasi spesso distanti l’una dall’altra mantenendo come assoluto punto fermo la consapevolezza della propria unicità. Una unicità che permise a Tiziano di guardare “face à face” il potere. E’ da qui il probabile duplice significato del titolo dell’esposizione, “Le pouvoir en face”, e vale a dire superbia dei personaggi di potere effigiati o superbia di un artista che ebbe l’ardire di guardarli in faccia?


Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti


Una segnalazione: La principessa saggia. L’eredità di Anna Maria Luisa de’ Medici elettrice palatina in mostra a Firenze

di Emanuele Pellegrini

Il 23 dicembre 2006 si è aperta, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, una mostra su Anna Maria Luisa de’ Medici, curata da Stefano Casciu, che si concluderà il prossimo 15 aprile 2007. L’esposizione offre diversi piani di lettura proprio perché essa non si esaurisce nell’analisi di una collezionista e della sua collezione ma, illuminando l’intero percorso biografico di Anna Maria Luisa dei Medici, che spese la sua vita tra le corti di Firenze e Düsseldorf, apporta incisivi approfondimenti sul contesto culturale europeo di primo Settecento. Emerge dunque una figura importante, da accostare a quelle forse maggiormente note di Cosimo III e soprattutto del Gran Principe Ferdinando: e grande risalto assume il milieu artistico fiorentino di primo Settecento in cui si vanno a collocare opere qualitativamente assai elevate come quelle in bronzo (straordinaria la sezione in cui si raccoglie la serie dei bronzetti), oppure i gioielli, le raccolte di cineserie ed oggetti “esotici”, oltre che la pittura, tra cui è debito ricordare la nutrita presenza di dipinti fiamminghi.
Il merito dell’iniziativa fiorentina, tuttavia, ed il motivo fondamentale per cui abbiamo deciso di redarre questa breve segnalazione, risiede nella forte sottolineatura che è stata conferita alla Convenzione di famiglia generalmente nota col nome di Patto di famiglia, ossia quel documento con cui l’Elettrice Palatina ed il primo Granduca di Asburgo-Lorena, Francesco Stefano, il 31 ottobre 1737 legarono il patrimonio artistico ereditato dalla principessa alla città di Firenze e allo Stato di Toscana: la nuova dinastia regnante si impegnava a salvaguardare «Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje ed altre cose preziose...  della successione del Serenissimo GranDuca quello che è per ornamento dello Stato, e per utilità del pubblico, e per attirare la curiosità dei forestieri, non ne farà nulla trasportato, o levato fuori della capitale, o dello stato del granducato» (cit. dall’articolo III). Il documento, fino ad oggi non certo ignoto o ignorato ed anzi spesso richiamato a testimonio di un’operazione tanto rara quanto illuminata, acquista rinnovata luce proprio perché posto a culmine di un percorso espositivo che documenta un collezionismo “privato” qualificato e soprattutto continuo nel tempo. Si rinnova cioè la riflessione sulle tangenze tra pubblico e privato in materia di patrimonio culturale, tra gloria e magnificenza del proprio casato e beneficio pubblico comunque connesso alle opere d’arte e alla loro raccolta. In una parola, una lettura della storia del collezionismo e della tutela capace di mostrare l’intima connessione tra queste due sfere solo apparentemente opposte e contrastanti.
Lasceremo pertanto considerazioni ulteriori e più accurate riflessioni a visite più approfondite: intanto valga però la segnalazione di un’iniziativa di cultura, capace di collocarsi come fonte di discussione a tutto raggio nella stretta e più viva attualità, utilizzando il patrimonio culturale in quella che probabilmente è la sua essenza più vera: testimonianza di civiltà.


Antonio Franchi, Ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici, olio su tela, 1689-91 c.

Léon Spilliaert. Un esprit libre a Bruxelles

Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, dal 22 settembre 2006 al 4 febbraio 2007, direzione scientifica di Anne Adriaens-Pannier.
Catalogo : Léon Spilliaert. Un esprit libre, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique / Ludion, 2006, 207 pp., 29,95 €.
Convegno : Spilliaert et ses contemporains, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, 10.11.2006.
Sito internet : www.expo-spilliaert.be

di Laurence Brogniez
    FUNDP-Namur

Dopo la grande retrospettiva Khnopff organizzata nel 2004, i Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles dedicano ora di nuovo un’importante mostra a un’altra figura di spicco del simbolismo belga.
Già nel 1996, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Spilliaert (1881-1946), una manifestazione simile era stata organizzata a Ostenda, città natale dell’artista, sotto gli auspici di Anne Adriaens-Pannier, direttrice della presente mostra.
Grazie a questa grande specialista dell’opera del pittore, un nuovo aspetto di Spilliaert si svela lungo questo percorso che sa essere al contempo coerente ma diversificato e che, attraverso numerose opere inedite, provenienti da collezioni private, sottolinea la profonda originalità dell’artista, la posizione che ha occupato nella sua epoca e le affinità con la letteratura del suo tempo.
Uno dei maggiori meriti di questa retrospettiva consiste proprio nel mostrare come il pittore, pur condividendo perfettamente le preoccupazioni e la sensibilità della fine del XIX secolo, sviluppa un linguaggio originale.
Esemplari sono in questo senso i confronti presentati nella prima sala. Il «gioco di specchi» che si stabilisce tra alcune opere emblematiche di Spilliaert e quelle di altri artisti, quali Khnopff, Redon, Kubin, Mellery o Rops, riesce a mettere ben in risalto l’originalità con cui il pittore affronta alcuni temi trattati anche dai suoi contemporanei. Interni stregati, paesaggi «stati d’animo», donne ieratiche o bevitrici d’assenzio assumono, sotto il pennello di Spilliaert, un carattere particolarmente espressivo, basato su una grande economia di mezzi e una semplificazione del tratto che lo distinguono dalle ricerche dei simbolisti e preannunciano già gli interessi del primo Novecento.
A cavallo tra due secoli, l’opera di Spilliaert si caratterizza proprio per questa ambivalenza che fa di lui un simbolista dal linguaggio molto personale, al riparo dalle influenze e dall’impronta d’una formazione accademica classica.
Una buona prova ci è fornita già dalle sue illustrazioni per il teatro e la poesia di Maeterlinck. Il termine stesso d’«illustrazione», d’altronde, risulta inadeguato, poiché Spilliaert sembra essere risalito fino alle fonti profonde dell’ispirazione di Maeterlinck per farne emergere delle immagini sorprendenti, che hanno un potere di suggestione pari a quello delle parole delle poesie. Una profonda affinità unisce i due artisti, che, come mostrano alcuni libri provenienti dalla biblioteca di Spilliaert, dovevano condividere anche le stesse letture: Wagner, Nietzsche, Verhaeren… Come se Spilliaert, senza soffermarsi sull’imagerie simbolista, avesse penetrato a suo modo l’essenza di una poetica anch’essa fondata sui poteri dell’immagine e di cui purtroppo molti poeti hanno mutuato solo gli aspetti più superficiali.
Personaggi soli, pensierosi, prostrati, sono fissati nel momento dell’attesa: come nei drammi di Maeterlinck. Di spalle o, tutt’al più, con un profilo solo accennato, annegati nell’ombra o avvolti in un alone misterioso, si sottraggono allo sguardo dello spettatore. Un’iconografia ricorrente, che il pittore, tuttavia, nel suo percorso artistico, cercherà costantemente di rinnovare.  
Così, nel primo decennio del ‘900, queste figure solitarie, trasformatesi in mogli di pescatori in riva al mare, assumono un carattere più umano. In altri casi, ridotte al ruolo di semplici supporti per ricerche plastiche, esse diventano delle silhouettes enigmatiche, di cui restano solo i contorni: pure forme in cui si esprimono le ricerche cromatiche e geometriche dell’artista. La figura umana ritorna ancora nell’inquietante faccia a faccia che riporta il volto al centro della rappresentazione nell’impressionante serie di autoritratti, altrettante tappe dell’inchiesta introspettiva che sonda le profondità e gli abissi dell’io attraverso sorprendenti inquadrature.
Un’altra parte dell’opera di Spilliaert presenta, invece, dei paesaggi e degli interni privi di ogni presenza umana. Sono le famose vedute di Ostenda, che, per le loro prospettive vertiginose e inattese, propongono una visualizzazione inedita del paesaggio, che a volte confina con l’astrazione. Altrove compaiono interni deserti, che sembrano quasi stregati, come se fossero abitati da strane presenze, in cui gli oggetti – flaconi, bottiglie, scatole, orologi – vivono una vita silenziosa e impenetrabile.
Quello che colpisce, in tutte queste opere, è l’eccezionale maestria acquistata nel tempo dall’artista, che, da vero sperimentatore, ha saputo sfruttare, con piena originalità, le potenzialità tecniche offerte da tutta una serie di strumenti diversi: l’inchiostro di china, i pastelli, il gesso colorato o l’acquerello. Spilliaert riesce così a far nascere la luce dal nero e a creare dei sottili effetti di alone, di riflessi e di riverberi, dando visibilità e funzione anche al bianco stesso del materiale su cui dipinge. Nel corso degli anni, i colori diventano più intensi, la paletta del pittore si arricchisce, senza che però si perda l’attenzione per le sfumature che caratterizza le prime opere.
Questo percorso ricco di sperimentazioni formali rivela tutta l’inventiva di un pittore che, pur ricorrendo ad un numero ridotto di motivi e di tecniche da autodidatta (Spilliaert non ha mai imparato a dipingere con i colori ad olio), ha saputo crearsi un linguaggio proprio, messo al servizio di un’opera coerente, ma che è, tuttavia, in continua mutazione. Fino alla fine della sua carriera, Spilliaert  resta rigoroso, ma non rigido, sempre fedele a se stesso, ma anche aperto e sensibile ai cambiamenti e alle domande estetiche dei suoi anni, a cui risponde con originalità, impiegando il lessico che si è via via creato, da solo, con libertà estetica.
Forse il suo lessico non è stato compreso appieno dai suoi contemporanei. Questo linguaggio sarà però senz’altro eloquente per i visitatori della mostra, che non potranno non associarvi altre «voci»: quelle di Giorgio de Chirico, di Magritte o di Morandi. E forse, lasciandosi un po’ sorprendere, si ritroverà anche il lavoro di un Antonioni o di un Sugimoto: qualcosa – spersonalizzazione della figura? astrazione dello spazio? – che appare già nell’opera di Spilliaert e che fa di lui, ancora oggi, un nostro contemporaneo.


Léon Spilliaert, Autoportrait au miroir, 1908), Ostende, Musées des Beaux-Arts

 

Derain a Ferrara

di Alberto Rizza

 

Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara si è svolta fino al 7 gennaio una notevole retrospettiva a cura di Isabelle Monod-Fontaine dedicata all’attività pittorica di André Derain (1880–1954), a trent’anni di distanza da quella tenutasi in Roma a Villa Medici. L’attuale rassegna, patrocinata dal Comune e dalla Provincia di Ferrara con il contributo dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen (che ospiterà la mostra dal 10 febbraio al 13 maggio 2007), ha raccolto, nelle sue undici sezioni, opere provenienti da importanti collezioni di tutto il mondo, ripercorrendo la parabola artistica di un maestro dall’altalenante fortuna critica (basti ricordare la lunga eco dell’anatema scagliatogli contro per aver partecipato nel 1941, insieme con altri artisti francesi, ad un viaggio in Germania organizzato dalle forze naziste occupanti).

Apriva l’esposizione un gruppo di opere dedicate agli esordi dell’artista (1899-1904): Il funerale (1899), bozzetto che fu in collezione Matisse, Le rive della Senna a Pecq (1904) e la grande tela con la raffigurazione della Salita al calvario (1901), copia daBiagio d’Antonio e primo manifesto di quel confronto con i maestri dell’arte della Rinascenza che sempre costituirà un imprescindibile elemento per la comprensione profonda della sua arte – non fu di fatto lo stesso Derain a dire che i primitivi significavano per lui, in quei primi anni, «la vrai, la pure, l’absolue peinture»? Si tratta di tele sorprendenti, che richiedono, come ha già sottolineato Alberto Giacometti, di meditare a lungo di fronte ad esse, per cercare di carpire, «al di là della loro apparenza immediata», quel significato profondo, quella «parvenza meravigliosa, attraente e sconosciuta» rintracciabile, del resto, in tutte le opere di Derain, anche in quelle meno riuscite. Al periodo della prima formazione dell’artista appartiene il Ritratto del padre, piccolo dipinto eseguito nel 1904, che si misura con la ricerca pittorica cézanniana (in quello stesso anno il Salon des Indépendants dedicava al maestro di Aix un’importante retrospettiva).
La mostra ha riservato un’intera sala ai dipinti del periodo fauve, quando a Collure, nell’estate del 1905, Derain dipinse in compagnia di Matisse: sono opere rare, dai colori puri, in cui la pittura esplode sulla tela come “fuochi d’artificio”. Quest’ispirata stagione – che Derain definì come «la prova del fuoco» – comprende anche tre opere del 1906-1907, Il ponte di Waterloo, Le due chiatte,e la Veduta di Westminster, riconducibili alla serie di paesaggi londinesi eseguiti per Ambroise Vollard, sulla scia di un percorso già tracciato, anche se sotto una differente luce, da Monet. Nella stessa sala compare una delle opere più note di Derain, la Donna in camicia (1906) che, con la sua eletta veemenza, rappresenta un unicum nella produzione dell’artista. E’ solo una tappa di un più articolato percorso: lo testimonia, nello stesso ambiente, il ritratto di Lucien Gilbert (1905), straordinaria prova eclettica della capacità di Derain di padroneggiare diversi linguaggi pittorici. Correlate a questo gruppo di dipinti, alcune xilografie di nudo (1906), che ripercorrono la lezione di Gauguin, e, unica scultura in mostra, il Nudo in piedi del 1907, a testimonianza di quella precoce attenzione che l’artista dedicò al “primitivismo” e all’arte dell’Africa nera, di cui egli stesso fu tra i primi a comprendere la portata.
Terminata la fulminante stagione fauve, quelli successivi al 1907 sono anni di serrato confronto con l’arte moderna: dapprima con Cézanne – basti pensare alla serie delle Bagnanti e alla Natura morta sul tavolo del 1910, proposta in mostra – e poi con Braque e Picasso. Nei soggiorni a Cassis e Martigues nasce un vocabolario fatto di forme sintetiche, prossime all’astrazione. Al riguardo vanno segnalati tre dipinti, tutti in mostra, realizzati a Martigues nell’estate del 1908, che si originano dalla strutturazione di Cézanne per spingersi fino ad una semplificazione estrema del paesaggio, “primitiva” e simbolica ad un tempo. Sono opere poco note, che precedono una stagione di capolavori, quella del periodo “gotico”, che cade negli stessi anni dell’affermazione del cubismo. Questa sezione centrale della mostra ha presentato una panoramica di quella felice fase nell’arte di Derain, che nella sua personale risposta al cubismo licenzia composizioni ardite, come intagliate nel legno, in cui le forme sembrano emergere sulla tela attraverso il filtro della cultura figurativa dell’artista, che spazia dall’arte antica a quella romanica, guardando con religiosa riverenza ai grandi maestri della tradizione dell’arte occidentale. Queste opere precorrono gli esiti della figurazione del primo dopoguerra: nascono allora l’Italiana (1913), spoglio idolo della mediterraneità, il monumentale Ritratto di Ragazza in abito nero (1912–1914), appartenuto al grande collezionista russo Schukin, il Ritratto di Iturrino, omaggio ad El Greco, e, da ultimo, il Ritratto di Paul Poiret, eseguito nel 1915, mentre l’artista è coinvolto in prima linea nel primo conflitto mondiale. Per comprendere meglio questa nota tappa della parabola pittorica di Derain vengono in soccorso le parole di Guillaume Apollinaire che, nell’introdurre l’artista alla sua prima personale alla Galerie Guillaume nel 1916, lo definì «temperamento audace e disciplinato» dedito allo studio dei “grandi maestri”, capace di trarre, «attraverso la semplicità e la freschezza, i principi dell’arte e le discipline che ne derivano». Le sue opere rivelavano già allora «quella grandezza espressiva che si potrebbe definire antica».
Nel primo dopoguerra Derain divenne artista acclamatissimo in patria - come s'intuisce leggendo la “profetica” presentazione di Apollinaire – e noto in Italia soprattutto per la monografia che nel 1921 gli dedicò Carlo Carrà, comunque non il solo, nell’ambiente italiano, a prestare attenzione alla sua arte. In quel momento i riferimenti ai “grandi maestri” divennero ricorrenti: l’”ossessione” per il Louvre non dovette di certo abbandonare Derain nella sua seconda maturità, quando si confrontò con tutta l’arte antica, con i grandi maestri del Rinascimento e del Seicento italiano, con il periodo più felice dell’arte spagnola – Zurbaran e Velásquez – e olandese, senza mai dimenticare la grande tradizione pittorica francese – Ingres, David, Corot, Courbet, Renoir, per citare solo i riferimenti più immediati. E in questa stagione – che vede il maestro, a partire dalla metà degli anni Trenta, sempre più ombroso ed isolato – s'inseriscono altri capolavori permeati di grande liricità, quali il ritratto di Donna seduta (1933), La tazza di tè (1935), Geneviève con lo scialle (1937). In queste tele è rinvenibile una meditata attenzione per una luce che lascia emergere dallo sfondo la materia pittorica: ne nascono sagome come frutto di un’intrusione, vertiginose apparizioni nello spazio visivo dell’osservatore.
Le ultime due sale dell’esposizione proponevano con un taglio tematico la tarda maturità dell’artista ed erano dedicate alla natura morta e alla grande decorazione. Vanno segnalate la Natura morta con coniglio e la Natura morta con zucca, rispettivamente del 1938 e del 1939, veri e propri bodegones del XX secolo, e, infine, la grande Natura morta del 1944–48, in cui si può cogliere una colta e distante risposta a quella «epidemia dell’astrazione» denunciata da Pierre Matisse nel 1940 in una lettera indirizzata allo stesso Derain.
“Pittore difficile” è più volte definito André Derain nel catalogo della mostra; l’evento ha offerto la rara opportunità di saggiare lo spessore di una ricerca multiforme, sempre coerente con se stessa, spesso controcorrente e mai dimentica della lezione dell’arte del passato. 
 
  
André Derain, a cura di Isabelle Monod–Fontane, (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 24 settembre 2006 – 7 gennaio 2007), catalogo Ferrara Arte.


A. Derain, Le due chiatte, 1906-7

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