Emanuele Pellegrini

 

Mostrare significa valorizzare?

 

Gli sviluppi della legislazione italiana dell'ultimo decennio, e più generali scelte di politiche culturali, hanno portato a definire in modo assai dettagliato, sezionandole, una serie di possibili tipologie d'intervento verso il bene culturale. Nella più recente evoluzione normativa ed amministrativa il momento della valorizzazione è venuto configurandosi come una delle azioni di base nella gestione del patrimonio culturale. Già impiegato negli atti delle due commissioni Franceschini e Papaldo, da qui filtrato nella normativa italiana (ad esempio dpr 805/1975) pur essendo privo di “una propria identità giuridica” (C. Barbati), eppoi definito dall'articolo 148 del decreto legislativo 112/1998 (insieme a tutela, gestione e promozione), come “ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione”, il termine “valorizzazione” è andato acquisendo maggiore importanza con la riforma del Titolo V della Costituzione (l. cost. 3/2001). In esso, infatti, la valorizzazione (“valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali”: art. 117, comma 3 della Costituzione) è diventata oggetto di legislazione concorrente tra Stato e regioni.

I termini “valorizzare” e “valorizzazione” sono penetrati così in maniera sempre più diffusa nella terminologia dei beni culturali, non soltanto in quella strettamente giuridica e tecnica, e hanno individuato un concetto decisivo nella politica culturale contemporanea, dato anche il peso crescente assunto dagli enti locali per il patrimonio culturale. Nel recente Codice dei beni culturali (d. lgs. 42/2004), ad esempio, la “valorizzazione” ritorna in posizione preminente (i primi tre commi dell'articolo 1), per ricevere poi ulteriori specificazioni normative (ad esempio art. 6).

Ma non si tratta, come è ovvio, di un problema terminologico: la crescente importanza di questa materia-attività, distinta – in modo in parte capzioso – da quella della tutela, ha di necessità forti ricadute sulle scelte dei soggetti chiamati in causa e sulle diverse responsabilità assunte da questi ultimi (Stato, regioni, ma anche province, comuni e soggetti privati).

Occorre quindi domandarsi cosa in effetti voglia dire concretamente la valorizzazione di un bene culturale. Esiste uno stretto rapporto tra la valorizzazione e la fruizione, soprattutto pubblica: si è scritto che dalla valorizzazione dei beni culturali “scaturisce un'offerta di attività culturali costituite preminentemente da esposizioni a carattere permanente” (V. Russo). Uno degli elementi distintivi del valorizzare potrebbe essere quindi il ripristino di un bene da una situazione di pregressa compromissione ad una rinnovata fruibilità; in questo senso la valorizzazione si estenderebbe verso il concetto di fruizione pubblica, che costituisce certo un aspetto importante della valorizzazione stessa (ed è forse la destinazione principale deputatagli anche dal punto di vista costituzionale). Ciò significa che nell'azione è sottinteso o comunque implicito anche il suscitare l'interesse di un pubblico e quindi di visitatori. E allora se la valorizzazione è un'azione rivolta verso il bene culturale che tende al suo miglioramento, come è anche fruizione, sicuramente le esposizioni, le mostre, o quant'altro possa contribuire alla conoscenza di un bene culturale tramite una visita diretta, si legano alla valorizzazione in maniera significativa. Non è un caso che proprio il d. lgs. 112/1998, precisando le attività volte alla valorizzazione, vi includa anche “l'organizzazione di mostre” (d. lgs. 112/1998, art. 152), all'interno di un contesto definitorio che conferisce un peso rilevante al recupero e al ripristino di una fruibilità pubblica dei singoli beni.

Le esposizioni permanenti, in effetti, sono state spesso la risultante di processi di restauro e miglioramento di beni o strutture (si pensi, per fare un esempio, al caso del Museo di pittura murale nel chiostro di San Domenico a Prato). Ma è vero anche il contrario, cioè che alcune esposizioni temporanee di frequente possono costituire una forma di rilancio e pertanto di valorizzazione delle collezioni di istituti museali (vedi il caso della mostra di Fra Carnevale a Brera, come ha notato Carlo Bertelli sul “Corriere della Sera” del 18 agosto scorso, o di quella di Boldini a Roma che ha fatto registrare un incremento di visitatori del 70% alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma, secondo quanto riportato dal quotidiano “il Tempo” il 2 settembre scorso). Tuttavia non tutti i processi espositivi portano di necessità ad una valorizzazione del bene, né è altrettanto pacifico che ad una esposizione o ad una mostra consegua altrettanto necessariamente una “valorizzazione” – intesa come beneficio del bene, che è appunto valorizzazione intrinseca, per cui, stando anche alle finalità del dettato legislativo, le implicazioni economiche non risultano preminenti. Non bisogna infatti pensare che mostrare e valorizzare siano attività collegate, per sgombrare il campo – in un periodo in cui la proliferazione delle mostre è giunta al parossismo ed in cui gli enti locali sono direttamente chiamati alla valorizzazione – da equivoche convinzioni di immediata relazione mostra-acquisizione di valore. Appare evidente invece come la valorizzazione si carichi sempre più spesso di un significato prettamente economico tale che l'aspettativa di rientro finanziario assurga spesso a parametro definitorio del successo e della riuscita di un evento espositivo temporaneo. Tanto più che proprio la concorrenza legislativa, attribuendo agli enti locali la materia della valorizzazione – da questi già attivamente praticata sin dagli anni Sessanta (G. Morbidelli) –, rischia di trasformare una mostra nella soluzione più pronta, meglio spendibile e più “di grido” per dare fondo ai finanziamenti (come già intuiva nel 1988 Salvatore Settis nel suo intervento in Memorabilia: il futuro della memoria ). Per capire la tendenza a cui facciamo riferimento basta rimandare a quanto detto dall'ex ministro dei beni culturali Giuliano Urbani nell'audizione tenuta di fronte alla Commissione cultura della Camera dei deputati del 10 luglio 2001, secondo cui “promuovere un bene culturale vuol dire, in primo luogo, saper allestire bene una mostra”, mentre “la valorizzazione dei beni racchiude tutte quelle voci che oggi, per usare una parola inglese, sono comprese nell'istituto dell' outsourcing”. Nessuno, ad esempio, ha insistito sul fatto che una forma di valorizzazione potrebbe essere anche la messa in opera del catalogo dei beni culturali: in un articolo edito su “Paragone” nel 1971 Antonio Paolucci lamentava le centinaia di cataloghi di mostre ed esposizioni ed un solo catalogo di beni storico-artistici eseguito sul territorio .

È altresì lecito domandarsi in che modo le mostre a carattere temporaneo possano rientrare nella valorizzazione. L'interrogativo implica naturalmente la valutazione dei rapporti di forza e delle motivazioni che stanno alla base di queste esposizioni. È possibile che proprio il rinnovato accento posto sulla valorizzazione possa contribuire a creare un eccesso di momenti espositivi in virtù di quella malintesa equazione secondo cui la valorizzazione si ottiene con un'esposizione o, per contro, si valorizza esponendo e mettendo in mostra, spesso senza avere alle spalle un progetto scientifico realmente significativo. Questa ambiguità può essere superata magari impedendo a questo automatismo (mostra=valorizzazione) di diventare abitudine metodologica e imponendo invece al concetto di valorizzazione quella valenza effettiva di un miglioramento dello status del bene e quindi anche della sua fruibilità, che non si ottiene e non significa solo esporre o mostrare.

Esistono appelli ad una regolamentazione statale che entri nel merito scientifico dell'esposizione (ad esempio, recentemente, Vittorio Sgarbi su “Il Giornale” del 22 agosto 2005), individuando una sorta di codice deontologico su criteri espositivi, dettati più che altro da coerenza nel rapporto contenitore (luogo della mostra)-contenuto (oggetto della mostra). Tali appelli peraltro non sono nuovi nella pubblicistica italiana, e si pensi a Roberto Longhi il quale, già in un editoriale di “Paragone” nel 1965, chiedeva una regolamentazione per ridurre al minimo “esposizioni improvvisate e di dubbio prestigio”. La legislazione italiana, in tema di mostre ed esposizioni, si occupa soprattutto di prestiti ed esportazioni (a partire dalle specifiche leggi 50/1940 e 328/1950 per arrivare agli articoli 48 e 66 del d. lgs. 42/2004). Se si può e si deve regolarizzare la disciplina dei prestiti, più difficile risulta entrare nel merito scientifico delle singole esposizioni con interventi legislativi, laddove legittimi criteri guida possono incontrare o non incontrare altrettanto legittimamente il favore dei visitatori, tecnici e non, e, data questa soggettività del giudizio, non hanno possibilità di assurgere a regole definitive o assolute. Vedremo dunque come opererà il Comitato di coordinamento delle mostre nazionali ed internazionali, recentemente istituito con un decreto apposito, il quale ha tra le finalità primarie il controllo sui prestiti e la circolazione, ma potrebbe muoversi anche da un punto di vista qualitativo, cioè di merito: a segno di una chiara esigenza di orientamento e monitoraggio che faccia fronte ad un numero di occorrenze espositive crescente sempre crescente e diffuso .

La soluzione, a nostro avviso, non viene da dettami impositivi esterni: si trova, anzi, nelle garanzie di un livello tecnico scientifico elevato in chi propone, dispone e gestisce mostre ed esposizioni. Si torna così al nodo costitutivo della formazione della preparazione dei quadri deputati alla gestione del patrimonio culturale e, sempre più, dell'armonizzazione delle diverse competenze tecniche attive soprattutto nel settore degli eventi espositivi (architetti, designer , storici dell'arte, economisti).

In modo tale che una sempre più diffusa cultura della valorizzazione non si identifichi con una cultura della esposizione, divenendone alla fine l'unico ambito applicativo.