Gerardo de Simone
Quel che resta delle mostre: il catalogo
Manifestazioni per eccellenza effimere, ‘eventi' che si proclamano tali in virtù non solo della qualità degli oggetti esposti, ma anche, inscindibilmente, della loro ineludibile temporaneità, le mostre affidano ad uno strumento principe il destino di sopravvivere alla propria caducità: il catalogo. Antidoto alla breve durata, documento delle opere esposte, espressione della complessità di un progetto e insieme testimonianza del suo compiersi, il catalogo non è sempre stato uguale a sé stesso né, se non al ‘grado zero', identica è rimasta la sua funzione nel tempo. I mutamenti che hanno investito l'‘oggetto' catalogo, sotto tutti i punti di vista, non sono stati certamente di minore entità, talora addirittura più vistosi, di quelli che hanno caratterizzato le esposizioni stesse nel corso della loro storia. Affine in qualche misura agli ‘inventari' delle raccolte d'arte private spesso tuttora conservati negli archivi dei più illustri casati, e ancor più ai cataloghi di vendita delle case d'asta reperibili fin dal Seicento (ad esempio in Olanda), il catalogo di mostra ai suoi esordi non è che un succinto elenco delle opere, con indicazione del nome degli autori, del soggetto, e nei casi migliori del proprietario e dell'ubicazione nel percorso di visita. Il primo catalogo del Salon parigino, nel 1673, è, fin nel titolo, un Livret de l'exposition , una essenziale petite brochûre che così esordisce: “Liste des tableaux et pièces de sculpture exposez dans la cour du Palais Royal…”. Nel 1699 l'elenco si conforma alla collocazione delle opere; se le pitture sono definite semplicemente “tableaux”, delle sculture si specifica il materiale (marmo o bronzo) e talora le dimensioni. Dal 1737 la “liste” diventa una appena più nutrita “Explication des peintures, sculptures et autres ouvrages des messieurs de l'Academie Royale…” ( Catalogue of the Paris Salon 1673 to 1881 , voll. 1-2, a cura di H. W. Janson, New York 1978). Non diversamente era articolato il primo catalogo mai realizzato per un'esposizione di “antichi maestri”, a Firenze nel 1706, voluta dal principe Ferdinando de' Medici – d'obbligo il rimando agli studi di Francis Haskell, The Ephemeral Museum. Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition , 2000, e Antichi maestri in tournée: le esposizioni d'arte e il loro significato , 2001 –. Un cambiamento sostanziale si ha negli anni della Rivoluzione Francese: i cataloghi delle mostre dei capolavori trafugati in Italia da Napoleone presentano per la prima volta una connotazione ‘scientifica' in senso moderno. Le opere sono ordinate cronologicamente e raggruppate su base stilistica; se ne indica la tecnica, la provenienza, la committenza, le eventuali iscrizioni; compare inoltre una dettagliata descrizione iconografica e un profilo biografico dell'autore. Tale avanzato modello si affermerà però solo sul finire dell'Ottocento, dopo che per gran parte del secolo aveva continuato a prevalere il ‘catalogo-base' con nomi e soggetti. Destinato a far scuola sarà il catalogo della mostra dedicata alle Opere della scuola di Ferrara-Bologna 1440-1540 organizzata dal Burlington Fine Arts Club di Londra nel 1894 e curata da Adolfo Venturi: esemplare per l'inedito rigore nelle attribuzioni (prima, e spesso anche dopo, assai ‘generose' per compiacere i prestatori), per la ricca documentazione erudita, per il riferimento alle numerose opere di raffronto presenti in mostra tramite fotografie. Le caratteristiche del catalogo così maturate si mantengono tendenzialmente costanti per tutta la prima metà del Novecento e oltre: schede delle opere, notizie sugli autori, riproduzioni. Così ad esempio appaiono i cataloghi delle prime Biennali di Venezia; così ancora nel 1960 è impostato il catalogo della Quadriennale di Roma (anche nel formato poco più che tascabile). Appena l'anno dopo, nel catalogo della grande mostra mantegnesca di Mantova, con schede dettagliate e riccamente illustrato, già si avvertono i primi segni della “rivoluzione editoriale”, che Haskell ipotizza possa essere avvenuta proprio in Italia tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta. L'era della proliferazione delle mostre, corrispondente agli ultimi tre-quattro decenni, favorita dalla disponibilità ai prestiti dei musei (i quali spesso si sono dotati di spazi specifici destinati alle esposizioni temporanee), determina così una svolta sia di forma che di sostanza: le scelte grafiche (la copertina su tutte), di impaginazione, di formato, di quantità e qualità dell'apparato illustrativo (enormemente arricchito dall'avvento della fotografia a colori), l'inserimento di saggi iniziali, più o meno corposi e numerosi, dovuti ai curatori e ad altri studiosi, trasfomano completamente la fisionomia del catalogo. Non più “sottile, economico, minimalista” livre à la main da consultare contestualmente alla visione delle opere; ma volume ponderoso, talora intrasportabile, e lussuoso, che vuol apparire attraente ai potenziali acquirenti, cui viene proposto in genere, a mo` di ultimo oggetto in mostra, al termine della visita. Nella sua appariscenza, finendo con il modellarsi non certo più sugli agili e spartani protocataloghi quanto piuttosto sui libri d'arte sei- e settecenteschi illustrati da pregevoli incisioni ‘di traduzione': dalle raccolte celebrative di grandi collezioni e illustri mecenati, come le Aedes Barberinae di Girolamo Teti (Roma 1642) o il Theatrum Pictorium di David Teniers (Anversa 1658), per arrivare al Recueil Crozat (Parigi 1723-42) e ai cataloghi delle grandi gallerie europee (ad esempio Dresda, Vienna, Firenze), nei quali le immagini sono accompagnate da un testo ‘critico', come avviene nelle schede odierne (F. Haskell, La difficile nascita del libro d'arte , in Le metamorfosi del gusto. Studi su arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo , Torino 1989). Ciò ci introduce ad un altro ordine di considerazioni, che si può esprimere ponendo alcuni quesiti: che percentuale degli acquirenti di un catalogo ne legge poi effettivamente, in tutto o in parte, il testo, vale a dire i saggi e le schede che lo compongono? In altre parole, c'è il rischio che il catalogo sia diventato ormai soprattutto un oggetto-feticcio, una sorta di libro fotografico? In termini nudamente statistici, si può esser certi che in prevalenza i cataloghi sono sfogliati, ammirati (o criticati) per le riproduzioni, e poco altro. Tutto ciò è perfettamente legittimo, ed è sempre meglio che non vengano aperti per nulla. È tuttavia indicativo di una netta divaricazione nella fruizione tra, sia detto in estrema sintesi, chi guarda e chi legge. In proposito è auspicabile l'affermarsi generalizzato di una differenziazione – oggi ancora troppo poco diffusa, e con esiti assai discontinui – dell'offerta catalografica che sia in grado di rispondere, con prodotti diversi, alle esigenze della divulgazione da un lato e a quelle storico-critiche dall'altro. Una differenziazione anche economica: una più agile, ma adeguatamente illustrata, ‘guida alla mostra' dal prezzo più contenuto e dal testo più accessibile, che possa in prospettiva almeno in parte sopperire alle scarse vendite lamentate dalle case editrici (ad esempio in occasione del Festival del Libro d'Arte tenutosi a Bologna dal 17 al 19 settembre 2004, una cui sezione era intitolata “Come si fa e come si legge un catalogo d'arte”); il catalogo comunemente inteso, spesso scoraggiante per mole e per costo, ma insostituibile nella sua completezza informativa e accuratezza critica. Altra questione: la valenza commerciale del catalogo ha effetti sui suoi contenuti propriamente scientifici oppure no? Una conseguenza indubbiamente positiva, almeno sulla carta, del tanto vituperato ‘mostrificio' è infatti l'offerta di opportunità editoriali per gli studi specialistici. Più cataloghi significa, o almeno dovrebbe significare, un maggior numero di ricerche, dunque in ultima analisi un progresso degli studi. Purtroppo la realtà dei fatti ci dice (troppo) spesso il contrario. Le scadenze imposte dal sempre più fitto calendario delle mostre non lasciano a volte adeguato spazio per i dovuti approfondimenti; esigenze di budget possono imporre di non ‘sforare', limitando il numero di pagine e di conseguenza lo spessore delle argomentazioni; la ripetitività di certe scelte legate ai nomi blockbuster (gli impressionisti, Caravaggio e i “suoi”, i mostri sacri del Rinascimento e del Novecento, tanto per fare qualche esempio) comporta l'impossibilità di dire sempre cose nuove su autori o tendenze già abbondantemente studiati; l'imperativo pubblicitario può ‘costringere' a spacciare per capolavori opere mediocri, per autografe opere di dubbia attribuzione, e così via. In ogni caso, non si può negare che la trasformazione, cui si è sopra accennato, del catalogo da mero elenco delle opere esposte, accompagnato al più da un testo introduttivo e da una più o meno sintetica schedatura (beninteso, spesso con ottimi risultati), a volume di ampio respiro, corredato di un certo numero di saggi, ha prodotto una riqualificazione del catalogo nella bibliografia critica, facendogli acquisire molte caratteristiche affini con i saggi specialistici e i testi critici in genere non legati ad occasioni espositive (atti di convegni, riviste specializzate, etc.). Con il paradossale rischio, lamentato da Haskell, che i cataloghi monografici, inevitabilmente parziali, finiscano col fare, impropriamente, le veci delle monografie vere e proprie, contraddistinte dal catalogo ragionato completo, cui sottraggono possibili occasioni editoriali. Un'eccezione virtuosa in tal senso, che è augurabile che ‘faccia scuola' diventando un modello da imitare e seguire quando possibile, è rappresentata dal catalogo della mostra Jean Fouquet. Peintre et enlumineur du XVe siècle (Parigi, Bibliotheque Nationale, 25 marzo-22 giugno 2003), da cui vale la pena citare un breve ma illuminante passo della prefazione: “Si, sur le plan matériel, l'exhaustivité était impossible, elle a pu être atteinte cependant à travers le catalogue, sorte d' exposition idéale [il corsivo è mio] où toutes les oeuvres attribuées à Fouquet, rapprochées de quelques autres témoignant du rayonnement de son art, sont minutieusement étudiées et reproduites”. In parallelo con la ‘lievitazione' del catalogo, sembra declinata – ma non estinta (un esempio: G. Agosti, Su Mantegna, 1. (All'ingresso della mostra del 1992, a Londra) , in “Prospettiva”, 71, 1993, pp. 42-52, e le parti successive fino al 1997), pur nel netto prevalere odierno delle recensioni brevi di tipo giornalistico – la gloriosa tradizione delle ‘recensioni lunghe': dai resoconti dei Salons , spesso affidati a illustri letterati, da Diderot a Stendhal a Baudelaire e Zola, che tanto hanno contribuito con pagine memorabili al progredire della coscienza critica, ai saggi-recensioni di grandi filologi-conoscitori come Berenson ( Venetian Painting chiefly before Titian, at the Exhibition of Venetian Art, The New Gallery , 1895) e Longhi ( Officina ferrarese , 1934, e Viatico per cinque secoli di pittura veneziana , 1945), annoverati ormai tra i ‘classici' degli studi storico-artistici. Naturalmente le considerazioni generali fin qui esposte non possono che essere imperfette, troppe sono le tipologie di mostre per poter ragionare come se si desse, anche solo per assurdo, un'unica tipologia di catalogo universalmente valida, troppo della bontà di un catalogo dipende non da uno schema astratto ma dalla qualità e dall'impegno dei curatori. Non si potrà tuttavia non condividere un auspicio minimo: che il catalogo non perda di vista la sua più autentica funzione, che è innanzitutto quella di una accurata, filologicamente condotta, schedatura delle opere in mostra, e con essa di un adeguato complesso di apparati (sul modello dei migliori catalogues raisonnés ); troppe volte si vedono cataloghi in cui il testo si limita a saggi più o meno ispirati, nei quali a prevalere è “un abuso di pensiero effimero” (G. Maffei, Meticcia è l'arte , “TTL”, n. 1482, 24 settembre 2005), e in cui le schede sono al di sotto della sufficienza o addirittura semplici didascalie, al cospetto di riproduzioni sempre più spettacolari. Una menzione merita infine l'apporto delle tecnologie multimediali che, se ben utilizzato, non potrà che rivelarsi di grande utilità: il catalogo in versione cd o dvd, già sperimentato negli ultimi anni, forse non inficierà (almeno a breve termine) il primato del catalogo cartaceo, ma potrà affiancarsi come strumento integrativo o alternativo, di scarso o nullo ingombro fisico e di rapida e mirata consultazione; consentendo inoltre, con video e altri effetti non riproducibili in un testo a stampa, percorsi di ‘lettura' dinamici e interattivi, ideali nel caso ad esempio di mostre il cui oggetto è rappresentato da immagini in movimento, come quelle cinematografiche, di teatro o di videoarte (ma utili anche per illustrare percezioni mutevoli e multiple di architetture e sculture). Senza dire che la flessibilità nella fruizione dei contenuti che contraddistingue i supporti digitali potrà servire da laboratorio per ripensare la configurazione stessa del catalogo, anche di quello convenzionale, stimolato per quanto possibile ad una fruttuosa emulazione. È già stata sperimentata inoltre – ed è una strada potenzialmente molto feconda – la realizzazione di un catalogo virtuale puro, pubblicato su internet, dall'accesso eventualmente regolato da una password o del tutto libero: un ottimo esempio, relativo alla mostra Edvard Munch. Die Graphik im Berliner Kupferstichkabinett (Berlino, 12 aprile-13 luglio 2003), è consultabile all'indirizzo http://www.munchundberlin.org/indexjs.html. Così come sono in continuo sviluppo le mostre di ‘realtà virtuale': ultima in ordine di tempo Immaginare Roma antica (Roma, Mercati di Traiano, 16 settembre-15 novembre 2005), progetto avanzato di archeologia ricostruttiva, che si propone in futuro di diventare una mostra permanente. Una variante ulteriore è la mostra virtuale non legata ad un luogo fisico di esposizione: concretamente impalpabile, priva della materialità e dell'unicità delle opere vere e proprie, affidata a riproduzioni – come avviene in molte mostre itineranti didattiche – o a ‘ricostruzioni', ma non più effimera: una mostra non condannata ad esaurirsi, che sia al contempo il catalogo permanente di se stessa. |