Fabrizio D'Amico
Sulla LI Biennale di Venezia, e su un suo ipotetico futuro
La 51 a edizione della Esposizione internazionale d'arte di Venezia si colloca, al contrario di quanto da più parti divulgato, su una linea di stretta continuità con il suo recente passato, sia per i materiali esposti (installazioni, video e fotografia, in larga prevalenza), sia per l'attenzione posta dai curatori su un panorama dell'arte realmente planetario, ove le distinzioni tra i continenti nuovi e i vecchi risultano sempre meno percepibili. Ovvia, d'altronde, questa continuità, se solo si pone mente al fatto che le due curatrici d'oggi (Marìa de Corral, Madrid, e Rosa Martìnez, Barcellona) hanno come unico tratto distintivo rispetto ai loro predecessori quello d'essere donne: circostanza appetibile per la comunicazione, che l'ha infatti a più riprese sottolineata, ma di fatto irrilevante. De Corral e Martìnez provengono anch'esse alla critica d'arte non da una formazione storica, ma da quella scuola sovranazionale di curatori formati in qualche modo in provetta, e consustanzialmente legati al sistema dell'arte attuale: ne condividono dunque, in prima istanza, il sostanziale disinteresse per il passato, e per contro la capacità di sguardo sui territori vastissimi, e di fatto mondiali, che ormai costituisce un must internazionale (seppur la conoscenza e l'approvazione delle singole esperienze, soprattutto di quelle più remote, provenienti da quello che s'usava definire terzo mondo, denunci in più d'un caso la mediazione del mercato occidentale). Ne condividono, poi, la sapienza nell'allestimento di una mostra; ed infine l'acquiescenza al dogma che le manifestazioni d'arte visiva rappresentative del nostro tempo si esprimano prevalentemente attraverso media eterodossi (anche se ormai, appunto, appartenenti anch'essi ad una più che ventennale 'tradizione'), e debbano corrispondere ad una serie di polarità obbligate, di luoghi concettuali sempre ritornanti, tranquillizzanti proprio perché riconoscibili: fra i quali, elencando quasi a caso, il gioco, l'affabulazione, il racconto, l'attenzione all'universo femminile (da quello pubblico a quello più segreto e intimo), la necessità ed insieme l'orrore nell'esibizione del sangue, della sopraffazione, della violenza. Che la Biennale veneziana sia ormai da tempo votata a consentire con un siffatto modo di leggere la contemporaneità è un dato di fatto, in qualche misura fatale e necessario: l'Italia, quand'anche lo avesse voluto, non avrebbe forse avuto, nel momento stesso in cui tutto il sistema dell'arte, sullo scadere degli anni Ottanta, s'orientava in tal senso, la necessaria capacità di voce per fondare, sulla contemporaneità, un'ottica diversa; e per indirizzare altrimenti lo sguardo, avvalorandolo con un pensiero critico parallelo. L'ha dunque accettata, questa via alla contemporaneità, iscrivendo l'istituzione sua più prestigiosa, e principalmente delegata a dialogare con l'arte internazionale, nella costellazione di manifestazioni ovunque nel mondo analogamente impostate; contando sulla sua storia più che secolare, e sul palcoscenico d'eccezione che la ospita, per non essere, fra le tante, una biennale, ma insidiata forse solo da Kassel la Biennale. Se questo suo appuntamento per tanti versi simbolico (1895 la data della sua fondazione, e oggi 2005: a cavallo di due mondi. E ancora: una cinquantunesima edizione che sorpassa anche numericamente, per una manifestazione biennale, la tesa lunga di un secolo) può o deve essere preso ad occasione d'una riflessione sul presente e il futuro possibile di Venezia, possiamo dire che, pur nella perdurante assenza di un progetto culturale realmente autonomo dai modi e dalle mode internazionali più recenti, oggi la Biennale veneziana ha probabilmente scavalcato positivamente un pericoloso crinale quello inaugurato dopo la peraltro discussa e discutibile edizione di Jean Clair e torna a rivestire un ruolo di grande visibilità all'interno di tanta e sostanzialmente analoga offerta espositiva mondiale. Lo fa in grazie, soprattutto, dei luoghi che la ospitano: i Giardini, con la struttura unica, ad alveare, degli spazi espositivi lì costruiti nel corso di molti decenni, occupati dai padiglioni nazionali, molti dei quali serbano un loro sapore inconfondibile, carico d'una storia espositiva che sembra trasudare dalle loro stesse mura, e farsi memoria; l'Arsenale, che ogni volta che lo si vede è più straordinario (tanto da sovrastare in bellezza, sempre e di gran lunga, tutto quanto di volta in volta accolga); adesso, infine, i tanti luoghi storici di una Venezia sconosciuta alle mappe turistiche abituali che la Biennale ha assunto per dare spazio ulteriore alle nuove partecipazioni nazionali. Modesto, a fronte di tutto ciò, resta e vieppiù appare quel che per lunghissimi anni è stato il cuore della mostra, ai Giardini: il Padiglione Italia, tante volte riattato ma sempre di difficile allestimento, e soprattutto inadatto ad accogliere, se non altro per le sue dimensioni, i nuovi media . Oggi, si dice, la mostra in esso ospitata ( L'Esperienza dell'Arte ) è deludente rispetto a quella ordinata dalla Martìnez alle Corderie e alle Artiglierie dell'Arsenale ( Sempre un po' più lontano ). L'Esperienza dell'Arte ha, certamente, delle brusche cadute d'interesse: per dirne una, l'infilata davvero incomprensibile delle sale del gelido Bacon tardo, del bamboleggiante Guston tardo, della solita Marlene Dumas e d'un accademico Tàpies tardo: uno più inutile dell'altro, almeno in sede attuale. Il minor tasso di sorpresa concesso alla mostra centrale dalle molte presenze troppo note (da quelle indicate più sopra al solito, perfetto Bruce Nauman, ad Agnes Martin, per esempio) toglie sale alla corsa curiosa dell'occhio, senza offrire d'altra parte a parte il caso, ma scontato, di Nauman una leggibilità maggiore agli eventi dell'oggi. Ma il tono complessivo della mostra è per certo, e fortemente, condizionato prima di tutto proprio dal luogo che l'accoglie. Assai più accettabile l'inserimento nel percorso di Sempre un po' più lontano delle opere di Louise Bourgeois: una realmente affascinante, un piccolo ambiente dove una registrazione della voce dell'anziana artista intona, guidando un piccolo coro di bimbi, qualche motivo popolare caro all'infanzia (ci ho trovato, anch'essi intenti ad accompagnare il canto sommesso, due bambini francesi, trepidi); l'altra, spirali in metallo sospese nell'aria, accompagnate in catalogo da poche parole della Bourgeois, così vicine a quel che essa ha voluto essere nell'arte d'oggi: "Ciò che comincia al centro è l'affermazione, il movimento verso l'esterno è una rappresentazione del dare e del cedere dominio; della fiducia, dell'energia positiva, della vita stessa". Bourgeois (nata a Parigi nel 1911; poi in America, ove ha preannunciato fra i primi il superamento dell'impasse minimalista; artista della quale si conosce ora tutta la storia, in realtà rimasta quasi segreta fino agli anni Ottanta, quando l'intero suo percorso è stato, giustamente, riportato a piena luce) è davvero maestra di tanti dei passaggi più autentici dell'arte attuale (non è colpa sua, d'altra parte, se troppe altre volte il riferirsi ai suoi temi è divenuto maniera): prima di tutto di quel sentimento di dolce disperazione che avvolge, in parti distanti del mondo, vicine e lontane, la condizione della donna, oggi consapevole della propria sofferenza. Attorno alle sue opere, alle Corderie e alle Artiglierie, si dipanano tante esperienze, molte di donne, poche di celebrate stelle del sistema dell'arte (Mariko Mori, ad esempio), alcune semplicemente scherzose (gli scatoloni 'pornografici' dei due russi del gruppo Blue Noses), altre poche che toccano una bellezza desueta ( Sereno-Variabile di Bruna Esposito, che è al solito ormai, occorre dire la più giusta presenza italiana in tutta la Biennale). Un'ipotesi, allora. Si potrà pensare in un futuro di destinare l'ex Padiglione Italia (il nuovo spazio destinato a rappresentare il nostro Paese è in costruzione all'Arsenale) a quelle espressioni d'arte più vincolate alla tradizione, oggi tornate a proporsi con nuova capacità d'invenzione, ma messe al bando da qualunque rassegna internazionale (o meglio 'relegate' in contenitori ad esempio la fiera di Basilea nati con altra vocazione)? Offrire l'occasione per un confronto, ad armi pari, fra i due modi d'espressione sarebbe, questo sì, un patrimonio originale che la Biennale veneziana donerebbe alla contemporaneità: espressione d'un progetto culturale finalmente autonomo, non al traino ma nuovamente trainante rispetto al mondo. E generato, richiesto, imposto quasi, dalla ricchezza e dalla natura dei luoghi espositivi che alla Biennale pertengono.
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